Con il congedo parentale, il lavoratore può astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata ad una parte della retribuzione.
Il padre-lavoratore può esercitare tale diritto potestativo nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia.
Ove tuttavia si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto che può costituire giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia.
Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 509 dell’11 gennaio 2018.
Il caso in esame
Nel caso di specie, un lavoratore aveva sollevato ricorso per cassazione ritenendo illegittimo il licenziamento attuato dalla società per la quale lavorava.
Il lavoratore aveva infatti chiesto il congedo parentale, ma dall’istruttoria e dalle indagini investigative svolte, era risultato che il padre investiva le sue ore libere per dedicarsi ad altre attività, nello specifico lavorando presso una pizzeria di proprietà della moglie, e non certo per occuparsi di suo figlio.
Congedo parentale: la normativa
La legge sul congedo parentale (L. n. 53 del 2000) prevede l’istituzione dei congedi dei genitori in relazione alla generale finalità di promuovere il sostegno della maternità e della paternità.
La funzione dei congedi parentali è infatti quella di consentire la presenza del genitore accanto al bambino nei primi anni della sua vita al fine di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali. In altre parole, la ratio della legge n. 53 del 2000, sta proprio nel consentire ai genitori, a sostegno della maternità e paternità, di passare più tempo con i figli.
Il d. Igs. n. 151 del 2001, art. 32, in attuazione, ha dunque introdotto i congedi parentali, disponendo che per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro.
Tale diritto compete:
- alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. a);
- al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. b).
- qualora vi sia un solo genitore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi
Di recente, è stato peraltro ulteriormente esteso il diritto di astensione dal lavoro dei lavoratori genitori: il decreto legislativo n. 80/2015 ha infatti ampliato la suddetta normativa stabilendo
- l’estensione ai primi 12 anni di vita del bambino (anziché ai primi 8 anni) del periodo nel quale i genitori possono astenersi dal lavoro;
- l’estensione ai primi 6 anni di vita del bambino (anziché ai primi 3 anni) del periodo nel quale i genitori, allorché si astengono dal lavoro fruendo del congedo parentale, hanno diritto all’indennità pari al 30% della retribuzione;
- la possibilità per i genitori di scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria del congedo parentale (il congedo a ore era stato introdotto già con la legge di stabilità 2013, che ne aveva tuttavia subordinato l’applicabilità a previ accordi in sede di contrattazione collettiva);
- la riduzione a 5 giorni (rispetto agli originari 15 giorni) del termine entro il quale il lavoratore deve preavvisare il datore di lavoro della volontà di fruire del congedo (in caso di congedo parentale su base oraria, il termine è ulteriormente ridotto a 2 giorni).
La decisione della Corte: congedo parentale e abuso del diritto
Il genitore che beneficia del congedo parentale deve dunque utilizzare le sue ore libere ed impiegarle per prendersi cura del figlio.
Ma cosa accade se costui non si attiene a questa regola?
Secondo la Suprema Corte, un diverso comportamento confluirebbe in un abuso di diritto, che legittimerebbe il licenziamento del genitore che utilizza tale congedo per svolgere tutt’altro tipo di attività.
Nello specifico, la configurazione legale di tale diritto potestativo non esclude infatti la verifica delle modalità del suo esercizio nel suo momento funzionale, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall’ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale).
Tale verifica trova giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che anche la titolarità di un diritto potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio nell’esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti – mediante i quali la prerogativa viene esercitata – da parte del giudice.
Qualora all’esito dell’istruttoria risulti dunque che il datore di lavoro sia stato privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e abbia sopportato una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, si configurerebbe un vero e proprio abuso del diritto di congedo che legittimerebbe certamente il licenziamento del lavoratore in questione.
Tornando al caso in esame, il lavoratore, per oltre metà del tempo concesso a titolo di permesso parentale, non aveva svolto alcuna attività a favore del figlio, con uno sviamento dalla funzione tipica per la quale il congedo era stato concesso.
La Cassazione ha pertanto ravvisato un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, giacché lo stesso non è stato esercitato per la cura diretta del bambino ma per attendere ad altra attività di lavoro, a scapito non solo del datore di lavoro, ma anche del minore strumentalizzato per beneficiare di un diritto.
Il ricorso del lavoratore è stato dunque respinto.
Il principio di diritto
Alla luce di quanto rilevato, la Suprema Corte ha dunque sancito il seguente principio di diritto:
Il d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, att. 32, comma 1, lett. b), nel prevedere – in attuazione della legge-delega 8 marzo 2000, n. 53 – che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia”.