Condizione potestativa mista nel trasferimento immobiliare e obbligo di buona fede

L’ordinanza n. 5976 del 2024 della sez. II della Corte di Cassazione riguarda il caso di una società promittente venditrice e di un promissario acquirente in merito al trasferimento di un bene immobile e al recesso contrattuale. La Suprema Corte ha esaminato diversi motivi di ricorso, inclusi quelli relativi alla nullità della sentenza e all’omesso esame di fatti determinanti. Si è discusso sull’applicazione dell’art. 1359 c.c. riguardante l’imputabilità a titolo di dolo o colpa e sull’obbligo delle parti di agire in buona fede durante l’attesa del verificarsi di una condizione.

Corte di Cassazione, sez. II Civ.- ord. n. 5976 del 06-03-2024

La questione 

Nel caso di specie, la controversia riguarda due parti, da un lato, una società promittente venditrice e dall’altro una promissaria acquirente. In particolare, la fattispecie verteva sul trasferimento di un bene immobile ex art. 2932 c.c.  sulla legittimità del recesso contrattuale.
Inizialmente, il giudice di prime cure aveva respinto la domanda richiesta dal promittente venditore.
In seguito, la Corte d’appello di Torino ha modificato la sentenza del Tribunale, confermando il recesso da parte della società venditrice e il diritto di trattenere la caparra confirmatoria. Nelle sue argomentazioni, la Corte territoriale ha chiarito che il mancato mutamento della destinazione urbanistica costituiva un elemento chiave nella risoluzione del caso.
Inoltre, è stato evidenziato che l’errore del giudice di prime cure derivava da una confusione tra la condizione contrattuale e la situazione in concreto prospettata, laddove la trasformazione urbanistica rappresentava un aspetto fondamentale del contratto di mandato collegato alla promessa di vendita. Pertanto, la Corte distrettuale ha concluso che il recesso era legittimo in quanto intervenuto quando il contratto era efficace tra le parti.
Attraverso questa decisione, veniva presentato un ricorso per cassazione.

I motivi di ricorso 

Con la prima censura, la ricorrente ha sollevato la questione relativa alla nullità della sentenza in base all’art. 360 n.4 c.p.c., sostenendo che la motivazione fornita fosse apparente. La Corte d’Appello, ha infatti dichiarato coperto da giudicato un punto della sentenza del Tribunale, in cui si presumeva che la parte appellata fosse interessata all’avveramento della condizione, mentre in un passaggio precedente lo stesso giudice distrettuale aveva stabilito il contrario. Il motivo addotto è stato ritenuto manifestamente infondato.
Secondo la Suprema Corte, indipendentemente dal fatto che la sentenza impugnata sia stata esaminata dopo una dettagliata ricostruzione dei fatti e delle motivazioni della decisione di primo grado, senza presentare alcuna contraddizione significativa riguardo alla condizione sospensiva tra le parti, era mancante comunque un interesse da parte della ricorrente per la risoluzione di tale questione.
Inoltre, non è stato dimostrato in che modo l’argomentazione della Corte d’appello che indicava la ricorrente come interessata all’avveramento della condizione abbia effettivamente danneggiato la ricorrente stessa, considerando che è stata proprio la controparte a contestare tale affermazione formulata dal primo giudice.
Infine, alla luce della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., si è evidenziato che in cassazione è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si traduce in una violazione di legge, relativa all’esistenza stessa della motivazione nella sentenza impugnata, al di là delle prove processuali.
Attraverso il secondo mezzo di impugnazione, la ricorrente ha sollevato l’omesso esame di un fatto ritenuto determinante per la decisione, in base all’art. 360 n. 5 c.p.c.
In particolare, il motivo di doglianza riguardava l’omessa considerazione dell’art. 1359 c.c.
Tali circostanze avrebbero dimostrato che l’eventuale mancato verificarsi della condizione contrattuale non era dovuto all’inattività della ricorrente nel compiere le azioni necessarie per il suo adempimento, ma piuttosto al fatto che fino alla fine del dicembre 2013 le parti stavano ancora discutendo su eventuali modifiche agli accordi e alla condizione sospensiva originariamente concordata.
I giudici di legittimità hanno ritenuto il motivo sollevato inammissibile.
Anche in questo caso, i giudici hanno ritenuto il motivo sollevato inammissibile. L’art. 360 n. 5 c.p.c. ha introdotto un vizio specifico denunciabile in cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, dibattuto tra le parti e di rilevanza decisiva per l’esito della controversia.

Prova dell’inadempimento e applicazione della Fictio Iuris

Con il terzo motivo di doglianza, la società ricorrente ha sostenuto che la Corte d’appello abbia considerato erroneamente verificata la condizione per l’inottemperanza dell’appellata all’onere probatorio, nonostante l’art. 1359 c.c. imponga di provare l’imputabilità a titolo di dolo o colpa in capo alla controparte.
In particolare, si afferma che, la promittente venditrice, avrebbe cercato di far valutare l’efficacia del contratto per recedere e recuperare in questo modo la caparra confirmatoria, sostenendo che l’onere di provare comportamenti dolosi o colposi spettasse a chi invocava la fictio iuris prevista dall’art. 1359 c.c.: la questione, infatti, si ricollega alla finzione di avveramento della condizione sospensiva potestativa mista.
La Corte d’appello ha basato la sua decisione su un contratto di mandato connesso al preliminare di compravendita, assegnando all’appellante l’onere di dimostrare l’inadempienza dell’altra parte. La decisione del giudice distrettuale ha considerato il rapporto complessivo tra le parti, riconoscendo la condizione sospensiva mista come parte integrante dei due negozi stipulati. Tuttavia, l’applicazione dell’art. 1359 c.c. richiede la presenza di un vero controinteressato al verificarsi della condizione e la prova del dolo o della colpa, aspetti che devono essere valutati attentamente.
L’assunto si basa sul fatto che la condizione-trasformazione di destinazione urbanistica era una prestazione dedotta in un contratto di mandato, strettamente collegato al preliminare di compravendita. La sentenza ha considerato il rapporto complessivo tra le parti, evidenziando che il secondo contratto (di mandato) era essenziale per l’avveramento della condizione sospensiva e quindi per la conclusione del primo.
Tuttavia, l’applicazione dell’art. 1359 c.c. (avveramento fittizio della condizione) richiede la presenza di un vero controinteressato al verificarsi della condizione e la prova del dolo o della colpa. La Corte territoriale ha presunto l’esistenza di una parte contraria al verificarsi della condizione, ma non ha fornito motivazioni in tal senso. Inoltre, l’inottemperanza al negozio di mandato non è di per sé prova di comportamento doloso o colposo, come confermato dal Tribunale e dai giudici di secondo grado
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, l’obbligo delle parti di agire in buona fede durante l’attesa del verificarsi di una condizione si applica anche nei contratti soggetti a condizioni potestative miste. In tali casi, l’omissione di un’azione potrebbe essere considerata contraria alla buona fede e generare responsabilità legale se l’attività omessa costituisce un obbligo giuridico. Tuttavia, è importante escludere dall’ambito dell’obbligo di buona fede le attività legate agli elementi potestativi in una condizione mista. Questo principio è stato sottolineato in diverse sentenze come ad esempio nella sentenza n. 17919 del 22 giugno 2023, nella sentenza n. 25025 del 22 agosto 2022 e nella sentenza n. 22046 dell’11 settembre 2018.
Il motivo di ricorso incidentale condizionato è presentato come “nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c., per omessa pronuncia riguardo al primo motivo formulato dalla promittente venditrice nell’atto d’appello” mirando a contrastare il primo motivo di ricorso del ricorrente principale che è stato respinto. I giudici di legittimità hanno ritenuto questo motivo assorbito in quanto la sentenza impugnata deve essere cassata. Il giudice del rinvio, in particolare, che deve considerare il principio secondo cui la condizione posta sul contratto preliminare di compravendita immobiliare, legata all’ottenimento dell’autorizzazione amministrativa da parte del promissario acquirente da un ente pubblico, è definita come “mista”. Questo perché la concessione dei titoli abilitativi urbanistici dipende non solo dalla volontà della P.A., ma anche dall’azione del promissario acquirente nel completare la pratica. In caso di mancata concessione del titolo, le conseguenze contrattuali si applicano indipendentemente da un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente. Infine, la Corte  ha chiarito che l’omissione di un’attività può essere considerata contraria alla buona fede e fonte di responsabilità solo se l’attività omessa costituisce un obbligo giuridico e se l’esistenza di tale obbligo non è riconducibile all’attuazione di un elemento potestativo.

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