Co.co.co: quando nascondono un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato

in Giuricivile, 2018, 4 (ISSN 2532-201X)

Il rapporto di lavoro, in alcuni casi, viene svolto con caratteristiche tali da non poter essere ricondotto né allo schema del lavoro autonomo né allo schema del lavoro subordinato.

Ciò avviene, in particolar modo, per le collaborazioni nell’attività produttiva che si realizzano attraverso forme di lavoro autonomo, caratterizzate dalla natura prevalentemente personale della prestazione, dalla continuità e dalla coordinazione.

Tale forma di collaborazione rappresenta, pertanto, un terzo genere di lavoro, tradizionalmente inquadrato nella c.d. parasubordinazione, ovvero nelle collaborazioni coordinate e continuative (i c.d. co.co.co).

Il primo riconoscimento giuridico di tale forma lavorativa si ritrova nell’art. 409 c.p.c., il quale ha esteso le disposizioni sul processo del lavoro ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, nonché a tutti gli altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato.

Le collaborazioni coordinate e continuative hanno trovato ampissima diffusione in tutti i settori produttivi in quanto consentivano ai datori di lavoro di avvalersi di rapporti pressoché simili al lavoro subordinato nelle modalità di svolgimento, senza, tuttavia, i limiti ed i vincoli di quest’ultimo (basti pensare, tra tutte, alle limitazioni di ordine legale in materia di licenziamento).

Proprio per tale motivo, gli imprenditori facevano spesso ricorso alla formula della collaborazione per aggirare le limitazioni e i costi derivanti da un’assunzione con contratto di lavoro subordinato.

La necessità del contratto a progetto

Con chiaro intento antielusivo e al fine di regolare in modo adeguato i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, il legislatore ha introdotto il D.Lgs 276/2003 in base al quale tutti i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa dovevano essere stipulati esclusivamente nelle forme del contratto a progetto.

In pratica, il committente doveva indicare per iscritto il progetto, che diveniva parte integrante del contratto di lavoro, il quale doveva individuare il risultato finale che si richiedeva al collaboratore di realizzare nonché corrispondere ad uno specifico e verificabile interesse del committente.

Nel tempo, tuttavia, si è notato che l’obbligo del lavoro a progetto, anziché riuscire a contrastare efficacemente il falso lavoro di collaborazione, ha in realtà funzionato come veste legale per rapporti di fatto subordinati, finendo per incentivare la diffusione del precariato.

Il decreto legislativo 81/2015 attuativo del Jobs Act: abrogazione del contratto a progetto e presunzione di subordinazione

Sennonché, oggi, a seguito del D.Lgs 81/2015, le collaborazione continuate e continuative possono essere stipulate ex art. 409 c.p.c. senza essere ricondotte allo schema del lavoro a progetto.

Il predetto D.Lgs ha, infatti, abrogato la disciplina del lavoro a progetto, il quale a partire dal 25.06.2015 non può più essere stipulato.

Al fine di tutelare i lavoratori, tuttavia, il predetto decreto legislativo ha stabilito che i rapporti di co.co.co sono legittimi esclusivamente quando posseggono le caratteristiche proprie di un lavoro autonomo.

In altre parole, il lavoratore deve coordinarsi con l’organizzazione del committente senza, però, che sia quest’ultimo a stabilire il quando e il dove della prestazione.

Le modalità di esercizio della prestazione lavorativa, infatti, devono essere decise dal collaboratore, in caso contrario troverà applicazione la disciplina del lavoro subordinato.

Proprio per tale motivo, lo stesso D.L.gs 81/2015 ha introdotto una presunzione di subordinazione per i rapporti di collaborazione che presentino caratteristiche tali da far supporre l’elusione dello schema tipico del lavoro subordinato.

In particolare, l’operatività della presunzione di subordinazione si ha per tutti quei rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative e le cui modalità di esecuzione dell’attività lavorativa sono organizzate dal committente, anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

L’effetto è che, quando viene accertata l’esistenza di un rapporto di collaborazione con caratteristiche su esposte, lo stesso è riqualificato come rapporto di lavoro subordinato.

Un esempio pratico

Al fine di comprendere a pieno in quali casi può applicarsi la presunzione di subordinazione di cui al suddetto Decreto legislativo, si pensi ad un lavoratore assunto formalmente con contratto di collaborazione continuata e continuativa, il quale svolge la propria prestazione non solo secondo le direttive impartite dal proprio datore di lavoro ma esclusivamente presso la sede di quest’ultimo, seguendo un preciso orario di lavoro da questo impartito.

Ciò avviene, ad esempio,

  • quando il lavoratore ha l’obbligo di firmare un foglio presenza sia all’entrata che all’uscita dal luogo di lavoro;
  • quando gode di una pausa pranzo la cui durata viene imposta dal datore di lavoro;
  • ovvero, quando il collaboratore non può svolgere l’attività lavorativa nei periodi di chiusura della Società datrice di lavoro, come può avvenire nel periodo natalizio.

In questo caso, è evidente che non si rinviene alcuna autonomia del collaboratore nello stabilire le modalità e, quindi, il quando e il dove della prestazione, che al contrario dovrebbe caratterizzare la tipologia contrattuale in esame.

Per tale motivo, risulta chiara la non genuinità del rapporto di collaborazione instaurato tra le parti, per il quale trova piena applicazione la presunzione di subordinazione di cui al D.lgs. 81/2015.

Dimostrazione della natura subordinata del rapporto di lavoro e diverso onere probatorio

Ovviamente, il D.Lgs 81/2015 fa salva la possibilità di ricondurre al lavoro subordinato i rapporti di co.co.co mediante accertamento in giudizio della sussistenza degli elementi tipici della subordinazione, su azione proposta dal collaboratore.

Pertanto, per dimostrare la natura subordinata di un rapporto di lavoro esistono, ad oggi, due diversi strumenti:

  • la presunzione di subordinazione al ricorrere degli elementi di cui al D.lgs. 81/2015;
  • oppure fornire la prova che il rapporto stesso si è svolto secondo le modalità proprie del lavoro subordinato.

In quest’ultimo caso, occorre verificare se in base alle modalità di svolgimento della prestazione, esista o meno il vincolo di subordinazione.

Per facilitare questa operazione, la giurisprudenza ha individuato nel corso degli anni una serie di indici che, se riscontrati, nello svolgimento del rapporto di lavoro ne rivelano la natura subordinata, quali:

  1. l’osservanza di un orario di lavoro predeterminato;
  2. la collaborazione;
  3. l’assenza del rischio in capo al lavoratore;
  4. la natura della prestazione;
  5. la continuità della prestazione;
  6. il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita;
  7. l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva;
  8. il coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato all’impresa dal datore di lavoro.

Tuttavia, si tratta di elementi sussidiari rispetto a quello principale quale, appunto, l’assoggettamento del lavoratore al potere di direzione e di controllo del datore di lavoro.

Esiste, tuttavia, una rilevante differenza tra le due fattispecie, ovvero tra la riqualificazione in lavoro subordinato ex art. 81/2015 e l’ordinaria riqualificazione giudiziale: se sussistono gli elementi caratteristici di una collaborazione non genuina previsti dal decreto attuativo del Jobs Act opera la presunzione di subordinazione, per cui graverà sul datore di lavoro fornire la prova contraria; viceversa, in assenza di tali elementi, è il collaboratore a dover provare in giudizio che il rapporto di collaborazione si è svolto secondo le modalità proprie del lavoro subordinato.

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