Con la sentenza n. 28510/2018, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso proposto dall’INAIL contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che, in sede di giudizio d’appello, aveva condannato il predetto istituto al pagamento delle spese di lite in favore di una s.p.a. chiamata in garanzia dal convenuto nell’ambito di una causa avente ad oggetto il risarcimento del danno derivante da un incidente sul luogo di lavoro.
In particolare, l’INAIL impugnava la sentenza della Corte d’Appello di Milano lamentando la violazione degli artt. 106 e 91 e ss. c.p.c.
Prima di procedere alla disamina della sentenza, è opportuno chiarire che cosa si intende per chiamata in garanzia nel processo civile e quali sono le regole da applicare in tale caso per quanto concerne le spese di lite.
La chiamata in garanzia
Il fenomeno della chiamata in garanzia, meglio noto come intervento, si verifica ogni qual volta uno o più soggetti entrano spontaneamente ovvero vengono fatti entrare coattivamente (con una cosiddetta chiamata, per l’appunto)in un processo già pendente tra le altre parti. Mentre nel primo caso l’intervento si qualifica come volontario, nel secondo caso si parla di intervento coatto; la qualificazione di tale ultimo intervento come coatto discende dal fatto che il terzo viene chiamato in giudizio mediante il meccanismo della citazione, quindi non vi partecipa volontariamente.
La legge disciplina il fenomeno in questione innanzitutto sotto il profilo di una legittimazione: legittimazione ad intervenire o titolarità dell’azione proponibile mediante intervento oppure, con riferimento al soggetto passivo, legittimazione a far intervenire o chiamare in giudizio[1]. La regola generale si desume dal fatto che attraverso l’intervento si realizza un litisconsorzio (per tale intendendosi il fenomeno per il quale le parti nel processo sono più di quelle due, attore e convenuto, che sono indispensabili perché sorga un processo) che, per sua natura, legittima l’intervento di un terzo (o la sua chiamata) solo se sussiste una connessione oggettiva tra l’azione in corso e quella che il terzo vuole esercitare o che si vuole esercitare contro di lui.
Premesso tutto questo, tralasciando l’intervento volontario disciplinato dall’art. 105 c.p.c. in quanto estraneo alla vicenda in commento, occorre esaminare il disposto dell’art. 106 c.p.c., rubricato “intervento coatto ad istanza di parte”.[2] Tale disposizione recita: “ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita”.
Da ciò si desume che le ragioni che fondano la legittimazione a chiamare il terzo si riconducono alla connessione oggettiva o alla cosiddetta garanzia quale aspetto particolare della stessa connessione oggettiva. In particolare, l’art. 32 c.p.c. si occupa delle cosiddette azioni di garanzia, ossia di quelle azioni con cui una parte fa valere il suo diritto di essere appunto garantita da un terzo e quindi risarcita delle conseguenze derivanti dalla sua eventuale soccombenza.
È bene precisare che tale disposizione si inserisce nell’ampia tematica inerente alla competenza del giudice per quel che riguarda il rapporto tra la causa introdotta con la chiamata in garanzia e la causa principale. Per tale ipotesi l’art. 32 c.p.c. consente la proposizione della domanda di garanzia innanzi al giudice competente per la causa principale con conseguente deroga della competenza per territorio. L’opportunità di tale previsione normativa si rinviene nell’evidente interesse del garantito ad ottenere una pronuncia contro il garante contemporaneamente all’eventuale (poiché altrimenti la garanzia non opererebbe) pronuncia contro di lui.
Le spese di lite nel caso di chiamata in garanzia
L’art. 91 c.p.c. in tema di spese processuali statuisce la regola della soccombenza; in particolare, dispone che il giudice, con la sentenza che chiude il processo dinanzi a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa.[3]
Tale regola si applica anche nel caso in cui in corso di giudizio venga effettuata la chiamata in garanzia di un terzo: anche in tale ipotesi, dunque, le spese sostenute dal terzo chiamato in garanzia vengono poste a carico della parte soccombente, attore o convenuto che sia.
Ciò non vale, però, qualora l’iniziativa del chiamante si riveli pretestuosa. In questo caso, infatti, il pagamento delle spese sostenute dal chiamato in causa resta a carico del chiamante. Qualora, inoltre, la domanda di garanzia si riveli infondata, si fa applicazione del principio della soccombenza nel rapporto processuale tra convenuto e chiamato in garanzia.
In questo senso, prima della Suprema Corte, si sono pronunciati alcuni giudici di merito, tra cui la Corte d’Appello di Milano[4] e, più recentemente, il Tribunale di Lecce[5] e la Corte d’Appello di Firenze[6]. Non mancano pronunce, come pocanzi accennato, dei giudici di Piazza Cavour i quali hanno più volte affermato che “la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti di un terzo chiamato in giudizio comporta l’applicabilità del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra loro, anche quando l’attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto chiamante, atteso che quest’ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo anche in caso di esito diverso della causa principale”[7].
Il caso in esame
La sentenza n. 28510/2018 è stata emessa dalla Suprema Corte all’esito di un giudizio di legittimità sollevato dall’INAIL che, in primo grado e in appello, era stato condannato al pagamento delle spese sostenute dalla s.p.a. assicuratrice, chiamata in garanzia dai convenuti. In particolare, nel caso di specie l’INAIL aveva citato in giudizio il padre del danneggiato, il quale, come convenuto, provvedeva a chiamare in garanzia la predetta società assicuratrice. Quest’ultima eccepiva sin da subito l’inoperatività della polizza assicurativa vantata dal convenuto nei confronti del figlio danneggiato in quanto testualmente escludeva i figli conviventi dalla cerchia dei terzi danneggiati.
Orbene, la Corte d’Appello provvedeva a riformare il capo della sentenza di primo grado che condannava l’INAIL al pagamento delle spese sostenute dalla società assicuratrice chiamata in garanzia, applicando i principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte nelle sentenze precedenti; tuttavia, non applicava i medesimi principi nel giudizio di appello sul solo presupposto che la compagnia assicuratrice avesse insistito per il rigetto dell’impugnazione e per la conferma del provvedimento appellato. Ed è proprio quest’ultimo il motivo che ha indotto l’INAIL a presentare ricorso in Cassazione.
Dopo aver ripercorso i suoi precedenti giurisprudenziali e dopo aver constatato che la Corte d’Appello avrebbe dovuto “verificare quale sarebbe stato l’esito della lite tra il chiamante e il terzo chiamato in causa nella diversa ipotesi in cui il primo fosse stato condannato nei confronti dell’istituto attore”, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dall’INAIL con riferimento al secondo motivo (violazione degli artt. 106 e 91 e ss. c.p.c.) e, decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ha condannato il chiamante al pagamento delle spese sostenute dal chiamato in garanzia sulla base dei principi di diritto già affermati nei suoi precedenti giurisprudenziali.
[1] C. Mandrioli e A. Carratta, Corso di diritto processuale civile;
[2] Si ricordi che l’intervento coatto può essere ordinato anche dal giudice, qualora ricorrano gli estremi di cui all’art. 107 c.p.c.
[3] C. Mandrioli e A. Carratta, Corso di diritto processuale civile;
[4] CdA Milano, sent. n. 2818/2015;
[5] Trib. Lecce, sent. n. 419/2017;
[6] CdA Firenze, sent. n. 1761/18;
[7] Cfr Cass. Sez. 6, ordinanza n.10070/2017, Rv. 643991; sez. 3, sentenza n.8363/2010, Rv. 612528.