Consorzi Asi e cessione di aree industriali alle imprese: requisiti e funzionamento

in Giuricivile, 2018, 3 (ISSN 2532-201X)

I Consorzi ASI sono consorzi di (aree per lo) sviluppo industriale, costituiti ai sensi della vigente legislazione nazionale e regionale, a norma dell’art. 36, l. 5 ottobre 1991, n. 317 che, secondo giurisprudenza costante del giudice civile, del giudice amministrativo e della Corte dei Conti[1], costituiscono enti pubblici economici.

Ad essi è demandato il ruolo istituzionale di promuovere lo sviluppo industriale e produttivo di aree abbandonate o con scarsi livelli, occupazionali e imprenditoriali, di sviluppo industriale. Di regola, i Consorzi ASI realizzano le proprie finalità di interesse pubblico cedendo a titolo gratuito talune aree dismesse ad imprese, affinché esse v’investano e le trasformino, realizzandovi opere di interesse pubblico, il più delle volte consistenti in opere di trasformazione industriale e innovazione tecnologico produttiva. D’altro canto, i cessionari privati ottengono l’ammissione a contributi pubblici per la trasformazione che operano nel luogo, nonché la proprietà delle stesse infrastrutture poste in essere.

Atteso che la materia è da sempre in bilico tra potere pubblico e rapporti privati, giurisdizione civile e amministrativa, adempimento di obbligazioni civili e vincoli di interesse collettivo, vi sono questioni di particolare criticità e attrito sulle quali la dottrina si interroga.

Ha sempre destato problemi il tema della natura della cessione delle aree da parte del Consorzio ASI al cessionario imprenditore privato, nonché al potere, riconosciuto al Consorzio, in particolari circostanze d’inadempimento del privato in merito alla realizzazione delle opere previste, non tanto di revocare l’ammissione al contributo e di ripetere le somme versate e mal utilizzate, come solitamente avviene nel caso di fondi pubblici destinati all’innovazione e allo sviluppo delle imprese, ma piuttosto di riacquistare la proprietà delle aree anche ove parzialmente o totalmente trasformate. Di solito ciò avviene verso un indennizzo per i costi sostenuti dall’impresa cessionaria per la trasformazione, dedotto quanto ricevuto a titolo di contributo pubblico. A ciò si aggiungano, inoltre, tutte le problematiche derivanti in materia di riparto di giurisdizione e di qualificazione giuridica.

Il termine di 5 anni e l’inadempimento degli obblighi previsti dall’art. 63 L. 448/1998

Recita l’art. 63 L. n. 448/1998:

I consorzi di sviluppo industriale di cui … hanno la facoltà di riacquistare la proprietà delle aree cedute per intraprese industriali o artigianali nell’ipotesi in cui il cessionario non realizzi lo stabilimento nel termine di cinque anni dalla cessione. Gli stessi consorzi … hanno altresì la facoltà di riacquistare, unitamente alle aree cedute, anche gli stabilimenti industriali o artigianali ivi realizzati nell’ipotesi in cui sia cessata l’attività industriale o artigianale da più di tre anni. Nell’ipotesi di esercizio delle facoltà di cui al presente articolo i consorzi dovranno corrispondere al cessionario il prezzo attualizzato di acquisto delle aree e, per quanto riguarda gli stabilimenti, il valore di questi ultimi come determinato da un perito nominato dal presidente del tribunale competente per territorio, decurtato dei contributi pubblici attualizzati ricevuti dal cessionario per la realizzazione dello stabilimento”.

Anzitutto, è sorto un problema interpretativo in merito alla natura del termine di cui al primo comma di detto art. 63. I cinque anni decorrono pacificamente dalla cessione, ma sembrano costituire un termine riferito al cessionario, e non al cedente: un termine di cinque anni, decorrenti dalla cessione, per porre in essere lo stabilimento e le infrastrutture per la cui realizzazione vi è stata l’ammissione al contributo pubblico; tesi contraria invece ritiene che il termine di cinque anni dalla cessione si riferisca al limite temporale del Consorzio per riacquistare l’area nel caso d’inadempimento del cessionario privato, decorso il quale l’ente non disporrebbe più di tale facoltà potestativa.

Secondo alcune pronunce, non si tratterebbe tanto di un termine per l’utilizzo del potere, e della sua conseguente consumazione, ma per l’adempimento di quegli obblighi, di natura pubblica, che incombono sul privato cessionario e per i quali l’impresa si obbliga quando riceve l’immobile: se questi non vengono soddisfatti entro i cinque anni previsti dalla norma, solo allora sorge in capo al Consorzio il potere di riacquistare (recte: la facoltà), che è assolutamente discrezionale[2].

Inoltre, “La riacquisizione di un’area ex art. 63 della L. n. 448/1998, è facoltà, ampiamente discrezionale, riservata dalla normativa di riferimento al Consorzio, al fine di procedere all’eventuale “riacquisto” di aree cedute, in presenza di precisi presupposti”[3]. Sulla natura di lata discrezionalità del potere, anche il giudice civile si è espresso in termini generosi, rigettando la configurabilità di una denegata giustizia[4] e riconoscendo piuttosto “un diritto potestativo di “riacquisto” del bene, il cui esercizio, lungi dal dare luogo alla caducazione del precedente acquisto … non eliminandone gli effetti, ma producendone di nuovi e parzialmente contrari, ovvero ponendo solo le condizioni per un nuovo trasferimento a titolo derivativo con effetto ex nunc …[5].

Vista la natura del termine quinquennale come dies a quo, e non piuttosto di dies ad quem, per l’esercizio della facoltà di riacquisto, rimane dubbio se tale facoltà abbia anche un termine finale o perduri indefinitamente. Visto il regime fortemente derogatorio e speciale, tutto lascerebbe pensare che, nel silenzio della norma, il potere perduri negli anni, posto che la provenienza dell’immobile è pubblica.

Per di più l’area è assoggettata ad una specifica destinazione e finalità nel piano regolatore, che è l’insediamento produttivo, e questo vincolo pubblicistico, tranne nei casi di modifica del piano regolatore, non è suscettibile di mutare nel tempo. Pertanto, sembrerebbe che, pur stante la formale “cessione” al privato, in caso di inadempimento degli obblighi da essa derivanti, sorga una facoltà sine die di riacquisire il bene nella sfera patrimoniale pubblica, proprio perché da essa deriva e gli interessi collettivi posti dagli atti amministrativi generali non sono stati soddisfatti.

Comunque, il problema poco rileva, visto che il comma successivo attribuisce tale facoltà di riacquisto “altresì” nel caso di attività cessata da più di tre anni. Quindi se l’immobile è abbandonato, la facoltà di riacquisto nasce ex se. Infine, giurisprudenza risalente ha riconosciuto il riacquisto anche nel caso in cui l’opera sia compiuta entro i cinque anni, ma l’attività non sia mai cominciata, con ciò dando pieno valore disgiuntivo alla formulazione del secondo comma[6].

Il vincolo pubblico e la natura della cessione

In merito al vincolo pubblico al quale le aree sono sottoposte, la giurisprudenza ha avuto spesso occasione di chiedersi se tale vincolo possa assimilarsi alla dichiarazione di pubblica utilità in materia di espropriazioni.

In questo caso, non sarebbe tanto un provvedimento specifico a dichiarare l’interesse pubblico sotteso ad un bene privato (e dunque non sarebbe necessaria un apposito atto, come in materia di espropriazioni), bensì lo stesso piano regolatore consortile, che è il piano urbanistico-territoriale di questo tipo di fondi.

Esistono comunque dei casi, approfonditi dalla giurisprudenza civile e riconosciuti dalla Suprema Corte, nei quali “qualora la realizzazione dell’opera prevista … divenga giuridicamente impossibile, vuoi per effetto della scadenza del termine di cui all’art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, vuoi per effetto di un mutamento nelle scelte di politica urbanistica che si sostanzino nella formale manifestazione della volontà dell’Amministrazione Pubblica di non utilizzare il bene per gli scopi cui l’espropriazione era finalizzata (liberandolo così da ogni vincolo o destinandolo ad un’opera del tutto diversa), in un momento anteriore all’emanazione del decreto di esproprio…”, così riconoscendo che, se vi è stata manifestazione di dismissione dell’insediamento produttivo, rinuncia al progetto previsto nel piano regolatore, allora la proprietà del privato cessionario non è più soggetta a vincoli pubblici, il peso gravante sul bene viene meno e la proprietà del cessionario si espande in senso assoluto[7].

Alla luce di quanto sinora detto, sembrerebbero dunque potersi negare le risalenti ed isolate opinioni minoritarie, secondo le quali la cessione, in realtà, consisterebbe in un mero affidamento temporaneo, una locazione o un affitto di fondo, un appalto d’opera, o persino un comodato d’uso. La cessione al privato, pur in una formulazione infelice, comporta un trasferimento effettivo della proprietà, che avviene mediante una vendita vera e propria, pur condizionata all’assunzione di obblighi di natura pubblica in un contratto di diritto privato, in un fascio di rapporti di natura composita.

L’effettiva natura di vendita è circostanza che trova conferma nello stesso potere, da parte del Consorzio ASI, di “riacquisto”: l’impresa cessionaria diviene proprietaria effettiva dell’area industriale, che tuttavia è soggetta ad un vincolo di pubblica utilità, simile ai casi di espropriazione, ma disposto direttamente nel piano regolatore dell’area, che espone la proprietà privata così acquistata all’esercizio di un successivo potere pubblico ablatorio nel caso di inadempimento degli obblighi assunti con l’atto di impegno.

Tale vincolo pubblico è posto affinché siano compiute opere di industrializzazione, le quali a loro volta trovano la loro ragion d’essere nell’ammissione ad una particolare forma di contributo pubblico. Infatti, come sancito in una famosa pronuncia, “il procedimento disciplinato dall’art. 63 … ha natura espropriativa; tuttavia la sua articolazione ha una struttura del tutto particolare. Infatti, la fase espropriativa, rivolta nel senso più tradizionale a soggetti terzi, rispetta pienamente le garanzie procedimentali di cui al d.P.R. n. 327 del 2001, … Invero, l’inclusione di un’area nel piano regolatore territoriale ed il suo conseguente assoggettamento a vincolo per la realizzazione di un insediamento ASI comportano ex lege dichiarazione di pubblica utilità delle opere ivi previste, facendo quindi sorgere, in capo al Consorzio, i poteri esecutivi in ordine al procedimento espropriativo”. Tuttavia, la stessa pronuncia affronta il tema della natura della cessione in modo controverso: “Nei confronti dei soggetti … assegnatari dei lotti, la procedura appare sin dall’inizio conformata in senso pubblicistico, nel senso che l’assegnazione avviene a condizione che le aree vengano destinate al concreto esercizio delle finalità a cui sono destinate[8].

Dal vincolo che così grava sulla “proprietà” anomala, si spiega l’indefinita protrazione della facoltà di riacquisto: visto l’assoggettamento dell’area a finalità produttive, il riacquisto si atteggia a decreto di espropriazione, chiudendo così il percorso procedimentale iniziato dalla pubblica utilità dichiarata nel piano regolatore. Così “la norma di cui all’art. 63 della L. n. 448/1998, nel prevedere il riacquisto … della proprietà dell’area ceduta … nell’ipotesi in cui gli stabilimenti non siano stati realizzati o non siano utilizzati, al fine di favorire il programmato sviluppo economico, costituisce una mera deroga alla normativa … [sul]le espropriazioni nella parte in cui viene sacrificato l’interesse del vecchio proprietario alla retrocessione (TAR Abruzzo, Pescara, sent. n. 344 del 2001), non sottraendo così la materia alla disciplina portata dal T.U. sulle espropriazioni che va applicato…[9].

Coincidenza tra soggetto espropriante e riacquirente

Questione fondamentale è quella della coincidenza tra il soggetto originariamente espropriante, che ha attribuito le aree all’impresa cessionaria, e il soggetto ri-acquirente: secondo giurisprudenza costante, essi debbono coincidere. La giurisprudenza civile ha infatti dedotto dall’utilizzo di questi termini che debba essere lo stesso Consorzio cedente a riacquistare, poiché unico soggetto detentore del potere di riacquisto.

Quando si parla infatti di aree cedute che vengono riacquistate, si imporrebbe un rapporto giuridico diretto, senza passaggi intermedi fra imprese o nel libero mercato[10]. La norma di favore opera nei soli confronti dell’originario ente pubblico, altrimenti dovendo utilizzarsi il normale percorso espropriativo del d.P.R. n. 327/2001.

Se invece vi è stata una cessione ad altri, il Consorzio può riacquistare l’area, ma limitatamente alla porzione di area che non ha subito passaggi di proprietà nel libero mercato, e non è stata cioè venduta dal cessionario a terzi, ma che è rimasta sempre all’impresa obbligata e che torna allo stesso Consorzio industriale. Illegittimo, e quindi soggetto all’annullamento, è invece il riacquisto, operato dal Consorzio, di quelle porzioni di area provenienti dalla proprietà di altri enti, pubblici o privati, o che il cessionario abbia fatto (illecitamente, come infra) circolare nel mercato, attraverso successive vendite. Infatti, a garanzia degli interessi pubblici del Consorzio in ordine all’industrializzazione dell’area, nonché al recupero dei contributi pubblici versati, vige il “divieto di cessione” dell’area ad altri privati, incombente sull’impresa cessionaria chiamata ad operare i lavori di innovazione.

Giurisprudenza (civile) riconosce poi che l’attività che deve essere cessata ai fini del riacquisto è quella specifica, per la quale vi fu l’originaria ammissione al contributo da parte dell’autorità pubblica e cessione condizionata. Dunque, l’immobile può essere riacquistato anche se viene posta in essere un’altra attività imprenditoriale, industriale o artigianale, che non sia quella prevista dagli obblighi assunti con la cessione.

Indennizzo per l’imprese che perde la proprietà dell’area

Infine, in ordine al ristoro indennitario per l’impresa che perde la proprietà dell’area in seguito al riacquisto, il comma 3 sancisce che “Nell’ipotesi di esercizio delle facoltà … i consorzi dovranno corrispondere al cessionario il prezzo attualizzato di acquisto delle aree e, per quanto riguarda gli stabilimenti, il valore di questi ultimi come determinato da un perito nominato dal presidente del tribunale competente per territorio, decurtato dei contributi pubblici attualizzati ricevuti dal cessionario per la realizzazione dello stabilimento”.

Niente sarebbe dovuto a titolo di indennità nel caso i contributi pubblici ricevuti fossero effettivamente maggiori del valore di mercato, oggetto di perizia tecnica d’ufficio, in quanto è il valore del mercato l’oggetto dell’indennità decurtata di quanto economicamente sostenuto dall’ente pubblico.

Sul punto, giurisprudenza amministrativa ha precisato che “La controversia avente ad oggetto l’esercizio, da parte di un consorzio di sviluppo industriale, del potere autoritativo di disporre la risoluzione del contratto ed il riacquisto dei beni venduti al privato per mancata realizzazione del programma industriale … spetta al giudice amministrativo, mentre spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda relativa al prezzo di acquisto, atteso che quest’ultima integra una questione di tipo meramente patrimoniale[11].

Sembrerebbe così che il profilo indennitario, proprio perché conseguente ad una risoluzione[12], sia lo spartiacque tra le due giurisdizioni. La materia si atteggerebbe, dunque, in maniera non dissimile a quanto avviene per gli appalti pubblici, mantenendo il potere ablatorio, il suo esercizio, nonché i requisiti per l’ammissione alla procedura di contribuzione alla cognizione del giudice amministrativo[13], e lasciando i profili esecutivi e di adempimento del contratto alla giurisdizione del giudice civile.

Profili di giurisdizione

Fatta salva la fase riguardante i requisiti per l’ammissione e le eventuali forme di autotutela, la materia appartiene così al giudice ordinario, pur rimanendo vero che il giudice amministrativo si è ritagliato uno spazio solo apparentemente esiguo, conservando la giurisdizione in merito all’unico profilo fondamentale del rapporto tra Consorzio e impresa: i presupposti per l’esercizio del potere ablatorio. La giurisprudenza civile, al contrario, ha delineato la materia sulla scorta delle espropriazioni e dei suoi riparti interni di giurisdizione.

Sul punto, è recentemente intervenuta la Suprema Corte che, confermando la natura di diritto di proprietà del cessionario imprenditore, ha però ribadito che la natura dei rapporti con il Consorzio è pubblicistica, e “il divieto di cessione a terzi delle aree, posto a carico dell’assegnatario se non preventivamente autorizzato dal Consorzio … non è riconducibile al divieto di alienazione previsto dall’art. 1379 c.c., ma è fondato sulla pubblica utilità delle opere di sviluppo della zona industriale … concorrendo alla realizzazione dell’assetto urbanistico dell’area. Ne consegue che il divieto è opponibile anche agli acquirenti delle aree in sede di procedura concorsuale[14].

La Cassazione aggiunge che il potere di riacquisto del bene, pur potendo caducare il precedente acquisto, non ne elimina gli effetti, ma ne produce di nuovi e contrari: si tratta di un potere che sorge dalle circostanze previste dalla legge, ma non è teso ad annullare o ridurre in pristino la cessione al privato, che è effettiva vendita, bensì soltanto a trasferirne la proprietà. Ciò rappresenta un evidente conferma del precedente del 2003 (v. supra), inteso a ribadire che pur persistendo un potere pubblico in capo al Consorzio, di natura amministrativa, esso nasce ex novo e interviene con effetti ex nunc su una proprietà privata dell’impresa altrimenti perfetta e completa[15].

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il cessionario è obbligato alla realizzazione delle opere pubbliche, per le quali riceve dei contributi di denaro pubblico, ma la sua proprietà è completa e perfetta sino all’eventuale inadempimento. Vista l’utilità pubblica dell’area, tuttavia, la violazione degli obblighi ha come effetto il sorgere di un potere ablatorio, unicum del tutto isolato in un rapporto altrimenti esecutivo di obbligazioni civili.

La naturale conseguenza di questa impostazione consisterebbe nell’attrazione alla giurisdizione ordinaria di tutte le controversie aventi ad oggetto l’adempimento delle opere ad interesse pubblico (come in materia di appalti e di contributi pubblici), lasciando al giudice amministrativo solo il controllo sull’esercizio del potere e sulle modalità seguite, non anche sui presupposti che ne giustificano la nascita. Tuttavia, la Suprema Corte non si è ancora spinta in questa direzione, probabilmente per la solida giurisprudenza amministrativa sul punto.

Come è evidente, la recente pronuncia ha riaffermato la particolare commistione tra istituti civili e amministrativi che è propria di questa materia, caratterizzata da una situazione di diritto soggettivo pieno di proprietà, ma condizionato alla pubblica utilità, da un potere pubblico ablatorio che incombe su di essa, ma condizionato all’inadempimento degli obblighi di industrializzazione; ancora, tali aree oscillano tra il divieto di cessione sul libero mercato delle imprese e l’indennizzo per la perdita economica dell’impressa nel caso di proprietà retrocessa, tra tentativi di privatizzazione e interesse collettivo allo sviluppo. Tra diritto soggettivo, di regola appartenente alla cognizione del giudice ordinario, e potere pubblico, al giudice amministrativo. A tratti, sembra assimilabile ad una giurisdizione esclusiva, e a tratti sembra avere profili marcati di spartizione tra le due giurisdizioni, secondo le circostanze, la fase e l’interesse sotteso.


[1] (ex pluribus, Adunanza 15.2.2015, n. 217).

[2] (TAR Abruzzo, Pescara n. 344/2001).

[3] (Cons. St. VI, 25.1.2008, n. 197).

[4] E quindi di un conflitto di giurisdizione che può approdare alla cognizione del giudice di legittimità.

[5] (Cass. 11.11.2003, n. 16904).

[6] (Patrimonio Pubblico n. 5/2012, Riv. Bim.).

[7] (Cass. 11.11.2003, n. 16904).

[8] (Conferma della sentenza del T.a.r. Campania, sez. V, 27 gennaio 2009, n. 413)” (Cons. St. 7.2.2012, n. 664).

[9] (TAR Sicilia – Catania 16.4.2008, n. 640).

[10] (TAR Campania – Salerno 11.5.2005, n. 794).

[11] (Conferma della sentenza del T.a.r. Campania, sez. V, 27 gennaio 2009, n. 413)” (Cons. St. n. 664/2012)

[12] E dunque una facoltà (recte: un rimedio) di natura privatistica, contrattuale. Si tratterebbe, secondo questa giurisprudenza amministrativa, di un semplice contratto, pur stipulato a seguito di un procedimento amministrativo per la verifica del possesso dei requisiti da parte dell’impresa ai fini dell’ammissione al contributo pubblico. Un contratto che impone degli obblighi di realizzazione dello stabilimento al cessionario, i quali possono essere fatti rispettare con l’esercizio di un potere che non è pubblico, ma un rimedio “privato” vigente in tutti i rapporti tra soggetti giuridici ai sensi dell’art. 1453 c.c..

[13]Poiché, quindi, si verte in materia di gestione del territorio, affidata alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo” (Cons. St. VI, 25.1.2008, n. 197).

[14] (Cass. III, 15.10.2015, n. 20885 – Rv. 637446 – 01).

[15] (Cass. 11.11.2003, n. 16904).

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