L’inquadramento normativo e la prima giurisprudenza penale di legittimità.
Le leggi contro la blasfemia hanno sempre fatto parte della storia dell’ordinamento italiano e, contrariamente ad altri paesi, la bestemmia è tuttora oggetto di forme repressive a tutela del buon costume e del sentimento religioso. Pare opportuno inquadrare la problematica nella cornice normativa di cui all’art. 724 c.p..
Sin dalla sua originaria formulazione, l’art. 724 c.p. puniva, a titolo di bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti, chiunque pubblicamente bestemmiasse, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato, con l’ammenda da lire cento a trecentomila e, successivamente, con l’ammenda da lire ventimila a seicentomila. Alla stessa pena soggiaceva chi ponesse in essere qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti.
Quello previsto all’art. 724 c.p. rappresentava un reato contravvenzionale comune, posto a tutela del bene giuridico del sentimento religioso, istantaneo, di condotta e strutturalmente doloso. Si tratta di un reato di mera condotta poiché, nonostante la necessità che la bestemmia produca un’offesa alla religione, la struttura della norma suggerisce di punire la semplice pronuncia di parole oltraggiose, non richiedendosi la produzione di un determinato evento giuridico (ad es., provocare pubblico scandalo, come invece in altre contravvenzioni di polizia). In realtà, “il reato di bestemmia si concretizza nella pronuncia di invettive o parole oltraggiose contro la divinità o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato, indipendentemente dalla intenzione di chi quelle parole ha pronunziate”[1]. Non è dunque richiesto il realizzarsi di un successivo evento giuridico, essendo sufficiente ai fini dell’incriminazione la semplice condotta offensiva, purché espressa pubblicamente.
Quanto all’elemento oggettivo, la bestemmia deve concretarsi in una precisa offesa alla Divinità, ai Simboli o alle Persone venerate, e non invece in un generico attacco. A ben vedere, infatti, “Ai fini della sussistenza del reato di bestemmia, di cui all’art. 724 cod. pen., è assolutamente necessaria – per legittimità di contestazione e per attuazione di difesa – la concreta individuazione della bestemmia medesima”[2]. Nel caso di specie, la Suprema Corte aveva escluso la sussistenza del fatto poiché le risultanze processuali attestavano che l’imputato aveva pronunciato pubblicamente “bestemmie contro Dio” ma non specificavano le parole adoperate né offrivano elementi per ricostruirle o individuarle. Diverso è il caso in cui l’offesa sia precisamente individuata, ma rivolta ad un generico “Dio”. Si ritene in tal caso che essa possa essere punibile, in quanto “Il precetto dell’art. 724 cod. pen. – che costituisce un espresso riferimento alle divinità, ai simboli ed alle persone venerate nella religione cattolica – è violato anche da una bestemmia generica contro Dio, la cui offesa colpisce ogni fede religiosa di carattere monoteistico e quindi anche la religione cattolica”[3].
La Suprema Corte, poi, inquadra il reato in esame tra quelli strutturalmente dolosi, poiché “consiste in u fatto puramente obiettivo e non abbisogna di un dolo né generico né specifico, bastando ad integrarlo la sola volontà di pronunciare le parole blasfeme. E tale volontà non è esclusa nemmeno quando certe espressioni siano divenute una biasimevole consuetudine”[4]. Anche la giurisprudenza di merito ha condiviso tale assunto, per il quale “La bestemmia è ontologicamente e strutturalmente dolosa, … il bestemmiatore è normalmente consapevole di realizzare un’offesa di un interesse giuridicamente protetto”[5].
È poi richiesto un requisito di pubblicità della condotta incriminata, poiché “Ai fini della sussistenza del reato di bestemmia di cui all’art. 724 c.p., è necessario che il comportamento avvenga “pubblicamente”, nel senso precisato dall’art. 266, quarto comma, c.p.[6] Infatti, poiché l’azione, che offende il comune senso religioso, consiste nella pronuncia di invettive e parole oltraggiose contro la divinità e contro simboli o persone venerate nella religione, è necessario, perché si verifichi l’evento, oltre il requisito del luogo pubblico o aperto al pubblico, anche quello della vicinanza di più persone, cioè l’effettiva possibilità che la bestemmia venga percepita”[7]. Peraltro, “Per integrare il requisito della pubblicità previsto dall’art. 724 c.p., è sufficiente che il fatto sia commesso in presenza di due persone, che ben possono essere quelle previste dall’art. 331 comma 1 c.p.p.”[8].
Al contrario, se la presenza di più persone è condizione necessaria, non è da sola sufficiente, in quanto l’attività deve svolgersi in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Infatti, “il fatto si considera commesso pubblicamente se avvenuto in luogo pubblico o aperto al pubblico, non bastando la presenza di più persone. Non sussiste perciò il reato quando il fatto è avvenuto in presenza di più persone, ma in un villino privato”[9]. Diversamente per gli edifici scolastici, le caserme dei Carabinieri, per i comandi dei vigili urbani[10], ma non invece per l’ufficio del buon costume, perché ad esso si accede solo per concessione specifica e individuale, e non è dunque aperto al pubblico[11], o per l’ufficio di presidenza della scuola, per gli stessi motivi[12].
Ancora, è stata evidentemente ritenuta pubblica, in accordo con il quarto comma dell’art. 266 c.p., la blasfemia pubblicata su un mezzo di stampa, per cui “La riproduzione su un manifesto di un brano di un articolo blasfemo, apparso su un giornale, non giustifica l’autore del manifesto che ha fatto proprie le espressioni usate, e lo rende responsabile di bestemmia”, al pari dell’autore dell’articolo originario e del responsabile ex art. 57 c.p. del giornale dove lo scritto venne pubblicato[13].
Peraltro, “La pubblicità del luogo rappresenta solo una condizione obiettiva di punibilità: pertanto non occorre l’intenzione del colpevole di commettere il fatto in luogo pubblico”, ossia il requisito della pubblicità non deve essere oggetto del dolo[14].
Quanto alla locuzione “religione dello Stato”, le Sezioni Unite hanno affermato che “L’art. 1 del protocollo addizionale alla l. 25 marzo 1985, n. 121, che ha modificato il concordato del 1929 tra l’Italia e la S. Sede, pur avendo espressamente previsto che non è più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, non ha avuto alcuna incidenza sulla validità della norma di cui all’art. 724 c.p.; e ciò sia perché la dizione “religione dello Stato” è usata nella detta norma solo per indicare la religione cattolica, sia perché il comma 1 dell’art. 724 c.p. non è mezzo di speciale tutela della religione cattolica … infatti oggetto giuridico della suddetta norma è il buon costume leso da espressioni di pubblica volgarità”[15]. Dunque, deve ritenersi che la religione “dello Stato” sia un’espressione non rigorosamente tecnica, per cui si debba intendere per relationem la religione cattolica o, come meglio si vedrà in seguito, il sentimento religioso della società italiana.
Pertanto, la blasfemia ex art. 724 c.p. consiste nell’offesa al culto cattolico, in quanto maggiormente diffuso e praticato in Italia, nonché oggetto di una particolare devozione, la quale coincide con il nucleo duro della libertà religiosa.
La disposizione di cui all’art. 724 c.p. è stata da sempre riconosciuta compatibile con il principio di libertà di manifestazione del pensiero, poiché punisce condotte con esso inconferenti, posto che “L’art. 724, primo comma, c.p. sanziona il fatto di bestemmiare con invettive e parole oltraggiose e dunque punisce non la manifestazione di un pensiero ma una manifestazione pubblica di volgarità. Ne consegue che non può ricondursi la bestemmia alla manifestazione del pensiero e alla libertà, costituzionalmente garantita, di tale manifestazione (sia sotto il profilo dell’art. 21 che dell’art. 19 Cost.), la quale del resto trova il suo limite proprio nel divieto delle manifestazioni contrarie al buon costume (art. 21, ultimo comma, Cost.)”[16].
Gli interventi della Corte Costituzionale e la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale.
Giova rilevare che l’art. 724 c.p. è stato oggetto di numerose questioni di legittimità costituzionale, tutte incentrate sul carattere discriminatorio del tenore letterale della disposizione che, tutelando soltanto la divinità, i simboli e le persone venerati nella religione di Stato, lasciava i culti diversi da quello cattolico sguarniti di adeguata protezione avverso analoghe offese e oltraggi.
Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 1 del Trattato Lateranense, la religione che lo Stato Italiano aveva riconosciuto come propria era quella cristiana cattolica romana. Tale disposto sarebbe mutato soltanto con la revisione dei Patti Lateranensi del 1984 (Protocollo addizionale, punto 1[17]), nonché attraverso la successiva sentenza della Corte Costituzionale n. 203/1989, che sancì la laicità dello Stato quale principio supremo dell’ordinamento, incompatibile con qualsiasi religione ufficiale di Stato.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità si mostrò da subito recalcitrante a mettere in discussione il dettato normativo dell’art. 724 c.p.: “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 724 cod. pen. (bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti) in relazione all’art 3 Cost., in quanto, pur concernendo la tutela legislativa la religione cattolica e non anche le altre religioni, detta norma si applica indistintamente a chiunque ne violi il precetto”[18].
Più equilibrata, la giurisprudenza costituzionale si orientò originariamente per la legittimità della formulazione legislativa, posto che “L’art. 724 comma 1 non è in contrasto con gli artt. 7 e 8 Cost.”[19]. Infatti, “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 724 c.p. il quale punisce, fra l’altro, il fatto di chi pubblicamente bestemmia, con invettive e parole oltraggiose, contro la Divinità, o i Simboli, o le Persone venerarti nella sola religione dello Stato, e non, quindi, negli altri culti. L’incriminazione della bestemmia trova fondamento nelle norme costituzionali che, riconoscendo i diritti inviolabili dell’uomo, fra cui la libertà di religione, tutelano il sentimento religioso. La limitazione della tutela alla sola religione cattolica non può essere considerata irrazionale o illegittima, indipendentemente dalla posizione attribuita alla Chiesa cattolica negli artt. 7 e 8 Cost., corrispondendo alla valutazione fatta dal legislatore dell’ampiezza delle reazioni sociali determinate dalle offese contro il sentimento religioso della maggior parte della popolazione. Per la piena attuazione del principio di libertà di religione sarebbe peraltro auspicabile l’estensione della tutela alle offese contro il sentimento religioso di appartenenti a confessioni diverse dalla cattolica”[20].
Sicché, posto che il reato in esame è volto alla tutela del sentimento religioso e che le offese ai simboli della religione cattolica destano una maggiore reazione sociale e un giudizio di riprovevolezza più marcato, ciò giustifica la punibilità della sola bestemmia avverso tale culto. La Corte non manca poi di precisare che, per completezza di tutela della libertà religiosa, sarebbe stata opportuna un’analoga punibilità per le offese perpetrate ai culti diversi da quello cattolico.
A seguito della revisione dei Patti Lateranensi e del venir meno della qualifica di religione di Stato del culto cattolico, la Corte Costituzionale è tornata ad esprimersi, rilevando che “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 724 comma 1 c.p. sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 25 comma 2 Cost.”[21]. Con tale pronuncia, la Corte ha rilevato che, pur in un contesto di auspicabile intervento legislativo tale da ovviare alla disparità di disciplina con le altre religioni[22] e pur essendo venuto meno, nel frattempo, il riferimento ad una religione di Stato, ciò non escludeva che l’elemento oggettivo del reato, così come descritto dall’art. 724 c.p., fosse sufficientemente determinabile e da riferirsi pur sempre alla religione cattolica, in quanto già religione di Stato.
Così anche la Suprema Corte, per cui: “Lo Stato italiano attua una “concezione democratica della laicità”, nel senso che garantisce la libertà di non credere, ma riconosce il valore della religiosità in generale come mezzo di perfezionamento morale e la rilevanza del fenomeno sociale rappresentato dalla grande diffusione del cattolicesimo, i cui principi appartengono al patrimonio storico del popolo italiano (artt. 7 e 8 della Costituzione). Dopo il nuovo Concordato, la religione cattolica non è più la religione ufficiale dello Stato, ma resta sempre il culto più largamente praticato in Italia, sicché non sarebbe coerente rispetto alle linee fondamentali della Costituzione, l’abolizione di qualsiasi tutela. Ne deriva la compatibilità del reato di bestemmia con i nuovi accordi intervenuti tra Santa Sede e Italia”[23].
Dunque, la norma non sarebbe stata esautorata del proprio contenuto né incorsa in una depenalizzazione de facto ma, in continuità con la ratio normativa, rimaneva volta alla tutela del culto maggioritario della società italiana. Contrastavano con tale indirizzo alcune decisione dei giudici di merito, secondo cui “l’abolizione del “formale” riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato aveva fatto cadere la previsione incriminatrice”[24], e “Dopo l’entrata in vigore del nuovo concordato e del relativo protocollo addizionale, l’art. 724 c.p. non può più trovare concreta applicazione, poiché la tutela apprestata da tale norma non riguarda genericamente il sentimento religioso o il valore della religiosità, ma proprio la religione cattolica quale religione ufficiale dello Stato”[25].
Tale orientamento muta radicalmente con un successivo intervento del Giudice delle leggi che, a distanza di sette anni, in un clamoroso revirement dichiara la parziale illegittimità dell’art. 724 c.p.: “È costituzionalmente illegittimo l’art. 724 comma 1 c.p., limitatamente alle parole: “o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato”[26].
Sul punto, la Corte ha ritenuto che: “L’esame della legittimità costituzionale del reato di bestemmia … con riferimento al principio di uguaglianza senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e al principio di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8, primo comma, della Costituzione) presuppone la ricostruzione del bene giuridico protetto dalla norma oggetto di sindacato … Il riferimento alla religione dello Stato-religione cattolica … si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell’epoca, era riconosciuto al sentimento religioso collettivo cattolico quale fattore di unità morale della nazione. Lo Stato, espressione e garante di tale unità, aveva, comprensibilmente, la “sua” religione ed era interessato a sostenerla e difenderla. Il secondo elemento … è rappresentato dalla configurazione del reato di bestemmia congiuntamente alle manifestazioni oltraggiose verso i defunti e dalla sua collocazione nel “titolo” quanto mai eterogeneo delle “contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi” … come atto di malcostume”. Tuttavia, “anche in conseguenza dei nuovi principi costituzionali di libertà e di uguaglianza dei cittadini e di laicità dello Stato, il reato di bestemmia è stato sottoposto a una riconsiderazione … Nella sentenza n. 79 del 1958 viene operata una prima conversione del bene giuridico protetto. La religione cattolica è configurata non più come la religione dello Stato in quanto organizzazione politica, ma dello Stato in quanto società: la protezione speciale della “religione dello Stato” si giustificherebbe per la rilevanza che ha avuto ed ha la religione cattolica in ragione della antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi totalità del quale ad essa sempre appartiene”.
Il riferimento alla religione di Stato di cui all’art. 724 c.p. avrebbe operato dunque in senso a-tecnico, non come qualificazione ufficiale della religione cattolica, bensì come riconoscimento della sua diffusione uniforme nella società italiana.
Successivamente “con la sentenza n. 14 del 1973, … oggetto della tutela penale [diviene il] “sentimento religioso”, elemento base della libertà di religione che la Costituzione riconosce a tutti. Si apre così, attraverso il riferimento al concetto di sentimento religioso, una prospettiva che investe l’atteggiamento dell’ordinamento verso tutte le religioni e i rispettivi credenti e va quindi al di là del riferimento alla sola religione cattolica”. Ciononostante, l’espressa limitazione della previsione legislativa alle offese contro la sola religione cattolica si riteneva ancora giustificata, data l’ampiezza delle reazioni sociali della maggior parte della popolazione italiana e data l’appartenenza della maggior parte della popolazione italiana al culto cattolico.
Così aveva sancito anche l’orientamento espresso dalla Suprema Corte a seguito della riforma dei Patti Lateranensi, con cui si era affermato che “il reato de quo deve ritenersi tuttora sussistente in quanto le recenti modifiche dei rapporti fra Chiesa e Stato italiano attengono solo al concordato, non anche al trattato, il cui art. 1 prevede la religione cattolica come religione dello Stato e comunque, come ha chiarito la Corte costituzionale, l’art. 724 c.p. va interpretato nel senso che esso intende tutelare il sentimento religioso in genere, in sé e per sé, indipendentemente dall’essere o meno la religione cattolica religione dello Stato”[27]. Diversamente per i reati che presupponevano invece l’esistenza di una vera e propria religione di Stato, come l’art. 402 c.p., per il quale “Se la corte cost. con sentenza dell’8 luglio 1988 n. 925 ha ritenuto tuttora legittima la punizione della bestemmia non sembra che gli argomenti utilizzati siano estensibili al reato di vilipendio punito dall’art. 402 c.p.; è perciò possibile sostenere che sia venuto meno il presupposto dell’art. 402 c.p. e cioè la religione di Stato”[28].
Una volta terminato l’excursus storico della giurisprudenza sul punto, la Corte ritiene, al contrario, che “non può essere condivisa la tendenza – risultante da alcune pronunce della giurisdizione penale di legittimità e di merito volta ad attrarre senza residui la norma dell’art. 724 del codice penale solo all’ambito dei reati di mal costume. … Si potrà dire che la bestemmia – anche per la nostra legislazione – è un atto di inciviltà nei rapporti della vita sociale che non colpisce necessariamente soltanto i credenti, ma non si può trascurare che esso è caratterizzato dal suo attenere alla sfera della religione. La religione e i credenti sono pur sempre cose diverse dalla buona creanza e dagli uomini di buona creanza. Per questa ragione, i parametri costituzionali invocati l’uguaglianza di fronte alla legge senza discriminazioni di religione (art. 3) e l’uguale libertà di tutti i culti (art. 8, primo comma) sono pertinenti”.
Al contrario, l’oggetto della tutela è il sentimento religioso e non il buon costume, sicché l’art. 724 c.p. non punisce la volgarità, ma l’offesa a tale valore, le blasfemie. E come tale, comporta la tutela del bene giuridico della coscienza religiosa, da riconoscersi ad ogni fede: “Il superamento della contrapposizione fra la religione cattolica, … e gli altri culti “ammessi”, sancito dal punto 1 del Protocollo del 1984, renderebbe, infatti, ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si basasse soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose. … [Ciò] significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza. Il primo comma dell’art. 8 della Costituzione trova così la sua piena valorizzazione”.
Ciò posto, la Corte Costituzionale ritiene incompatibile con i principi appena enunciati soltanto la seconda parte dell’art. 724, comma 1, c.p.. Infatti, “La fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale è scindibile in due parti: una prima, riguardante la bestemmia contro la Divinità, indicata … con un termine astratto, ricomprendente sia le espressioni verbali sia i segni rappresentativi della Divinità stessa, il cui contenuto si presta a essere individuato in relazione alle concezioni delle diverse religioni … La bestemmia contro la Divinità, come anche la dottrina e la giurisprudenza hanno talora riconosciuto, a differenza della bestemmia contro i Simboli e le Persone, si può considerare punita indipendentemente dalla riconducibilità della Divinità stessa a questa o a quella religione, sottraendosi così alla censura d’incostituzionalità. … riguardando la bestemmia contro la Divinità in genere e così proteggendo già ora dalle invettive e dalle espressioni oltraggiose tutti i credenti e tutte le fedi religiose, senza distinzioni o discriminazioni … L’altra parte della norma dell’art. 724 considera invece la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica[29], con conseguente violazione del principio di uguaglianza”.
A ben vedere, l’impostazione prescelta dalla Corte Costituzionale risulta coerente con il valore giuridico riconosciuto dall’ordinamento al principio di libertà religiosa, che non ha ad oggetto soltanto la libertà di praticare il proprio culto, in pari condizioni e con pari dignità delle altre credenze, ma comporta anche il dovere in capo allo Stato di tutelare il sentimento religioso. Tale sentimento è un fondamentale bene della vita per i credenti, meritevole di tutela e protetto dall’ordinamento giuridico. Inoltre, la religione ha rilevanza anche quale legame tra i cittadini della collettività, ossia quale formazione sociale nella quale si svolge, si forma e si sviluppa la personalità dell’individuo.
Risulta parimenti degna di tutela la parallela esigenza di buon costume di tutte le condotte che i cittadini pongono in essere in pubblico.
La successiva giurisprudenza penale conforme al disegno costituzionale.
A seguito della celebre pronuncia della Corte Costituzionale, la giurisprudenza sul punto fu quanto mai scarsa, per via della precaria sopravvivenza dell’art. 724 c.p. nell’ordinamento penale, che soltanto dopo quattro anni dall’intervento del Giudice delle leggi esso sarebbe stato depenalizzato[30].
Ciononostante, possono valorizzarsi talune pronunce di merito che intervennero a delineare i confini del reato, così come emerso dalla declaratoria costituzionale.
Anzitutto, si rilevò che, per effetto della parziale declaratoria di incostituzionalità, nell’art. 724 c.p. era venuto meno il riferimento ai Simboli e alle Persone venerati dal culto cattolico, sopravvivendo soltanto la punibilità delle offese alle Divinità. Di conseguenza, la giurisprudenza successiva si interrogò se, ai fini della punibilità della bestemmia nella religione cristiana cattolica, dovesse distinguersi tra le offese rivolte a Dio e offese di altro tipo, rivolte ad esempio contro i Santi, la Madonna e i Profeti, ovvero gli oltraggi ai simboli del culto, quali il crocifisso, il rosario o la particola consacrata. A ben vedere, infatti, può considerarsi come bestemmia soltanto l’offesa rivolta contro qualcosa (rectius: qualcuno, essendo esclusi gli oggetti sacri, come meglio in seguito) che ha natura divina secondo la religione considerata, dovendosi invece escludere tale qualifica agli oltraggi rivolti contro persone umane, sebbene di fondamentale rilievo spirituale.
In particolare, vi furono casi in cui non poté considerarsi punibile l’offesa alla Madonna, in quanto “In relazione alla bestemmia nei confronti della Madonna va, invece, preso atto che la Corte costituzionale, con sentenza 18 ottobre 1995 n. 440, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione … e con l’art. 8 della Costituzione … dell’art. 724, primo comma, del codice penale, limitatamente alle parole “o i simboli o le persone venerati nella religione di Stato” … Per effetto di tale pronuncia, poiché la Madonna è per la religione cattolica persona venerata, strettamente collegata alla divinità come madre di Dio, ma non confondibile con essa”.
Per cui, posto che la Madonna non può intendersi come Divinità, rimanendo pur sempre un essere umano, “l’offesa empia nei suoi riguardi non integra più nel nostro ordinamento la contravvenzione de qua. Da quest’ultima, per siffatta offesa, l’imputato va assolto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”[31].
Ebbene, per i motivi appena illustrati, per quanto deprecabile, non può ritenersi illecita l’offesa alla Madonna, ai Santi e ai Profeti, figure che, differentemente dalle altre religioni monoteiste, per le quali primaria ed esclusiva importanza è attribuita alla Divinità, sono invece tipiche del cattolicesimo e popolano il pantheon di tale culto, rendendolo per certi versi l’architettura più complessa del mondo ed un’originalissima commistione tra monoteismo e politeismo. Per gli stessi motivi, l’offesa al Cristo e allo Spirito Santo, in quanto componenti di natura divina del dogma trinitario, deve essere invece considerata bestemmia e parificata a quella resa nei confronti del Dio padre, poiché effettivamente consistente in un oltraggio ad un essere divino.
In secondo luogo, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale parziale e della più ristretta configurazione del reato di bestemmia che ne discende, la giurisprudenza ha ritenuto peraltro lecito interrogarsi sulla possibile riconducibilità della bestemmia non punibile ai sensi dell’art. 724 c.p. nell’ambito di applicazione del reato di turpiloquio di cui all’art. 726, comma 2, c.p., che sanziona penalmente chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, usi un linguaggio contrario alla pubblica decenza.
In proposito, deve osservarsi che “tra le due fattispecie non esisteva (e non esiste) rapporto di specialità in senso logico-formale che postula l’esatta continenza degli elementi della figura normativa speciale (nell’ipotesi la bestemmia) nella figura generale (nell’ipotesi il turpiloquio). … Il codice penale Zanardelli non prevedeva il reato di bestemmia, e il relativo fatto era ritenuto, in dottrina e giurisprudenza, non punibile[32] se non nei casi in cui esso integrasse il turpiloquio … casi rimasti peraltro isolati nell’applicazione pratica. Autorevole dottrina, coeva al codice vigente, ammette addirittura il concorso di reati, ancorché nell’unico fatto, tra bestemmia e turpiloquio, osservando che per bestemmiare non è necessario offendere anche la pubblica decenza. A ciò si aggiunga il dato testuale per cui l’incriminazione della bestemmia, sia pure sotto un profilo marginale, si presenta contenutisticamente più estesa di quella sul turpiloquio, abbracciando … le condotte commesse [non soltanto in luogo aperto al pubblico ma] “pubblicamente”. Ciò detto, è da ritenersi che, in concreto, nell’attuale contesto storico-sociale dell’Italia, la massima parte delle offese empie, già riconducibili alla parte caducata dell’art. 724 del codice penale, saranno sussumibili, quali manifestazioni verbali di inciviltà tali da menomare i principi minimi della costumatezza, della pudicizia e del decoro come avvertiti attualmente dalla popolazione, nella sfera di applicazione dell’art. 726 del codice penale”[33].
Sicché, posto che la bestemmia è species del più ampio turpiloquio, la bestemmia non punibile può ritenersi inclusa nell’ambito di applicazione dell’art. 726 c.p.. Il reato di turpiloquio risulta così sussidiario e integrativo di quello di bestemmia, e finalizzato a reprimere fatti che non rientrano in quest’ultima ma comunque affini ad essa e idonei ad offendere la pubblica decenza, mediante la volgarità di espressioni gesti e linguaggio. Tuttavia, contrariamente all’avviso di quella dottrina richiamata, i due reati non sembrano poter concorrere ex art. 81 c.p., proprio in ossequio del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., in quanto ricorre il rapporto di genere a specie tra le due norme, nonché del principio di assorbimento quale ulteriore criterio risolutivo dei conflitti apparenti di norme incriminatrici.
Con la conseguenza che, ogni qualvolta un’unica condotta sia connotata da offese empie, dirette verso la Divinità, e al contempo da un linguaggio volgare e indecente, il disvalore penale di tale condotta potrà essere contrassegnato esclusivamente nel perimetro dell’art. 724 c.p..
Infine, “Se, come ha avuto modo di precisare una risalente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, 27/03/1992, n. 7979, P.M. in proc. Cannarella) oggetto della norma non è la tutela del sentimento religioso e di quello cattolico in particolare, ma quella del buon costume contro i comportamenti pubblici volgari e sconvenienti, non si può prescindere tuttavia dal fatto che l’indicazione nel capo di imputazione delle espressioni lesive dell’interesse tutelato debbano essere espressamente indicate, non potendosi altrimenti apprezzare la sussistenza stessa dell’illecito”. Di conseguenza, il fatto non sussiste ove “non [sia] dato comprendere infatti, dal tenore della contestazione come formalizzata … quali siano con esattezza gli addebiti posti a carico. … La genericità del capo di imputazione … [si] riflette[…] sulla sussistenza stessa del fatto contestato dal momento che non sono state riportate le espressioni “offensive” considerate integratrici della fattispecie” [34].
La trasformazione in illecito amministrativo e i recenti approdi della Cassazione civile.
Il sistema così delineato è poi radicalmente mutato a seguito della depenalizzazione della fattispecie prevista all’art. 724 c.p. e all’art. 726, secondo comma, c.p..
Infatti, con il d. lgs. 30.12.1999, n. 507[35], in attuazione della legge delega 25.6.1999, n. 205[36], il legislatore ha mutato il reato di bestemmia ex art. 724 c.p. in un illecito amministrativo. L’art. 724 c.p., così come modificato dall’art. 57 del decreto citato, prevede ora che chiunque commetta le condotte di offesa al culto “è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire centomila a seicentomila”, oggi da € 51,65 ad € 309,87. L’illecito così formulato viene espressamente qualificato quale illecito amministrativo, pur se la cornice edittale rimane pressoché invariata.
Secondo poi l’art. 4 del medesimo decreto di depenalizzazione, “Salvo quanto previsto dal comma 2, le sanzioni amministrative per le violazioni depenalizzate a norma dell’articolo 1 sono applicate dalle autorità amministrative competenti ad irrogare le altre sanzioni amministrative già previste dalle leggi che contemplano le violazioni stesse”. Giova poi segnalare che l’art. 59 d. lgs. N. 507/1999 ha altresì aggiunto il novello art. 19-bis alle disposizioni attuative del Codice penale, che oggi prevede che “L’autorità competente a ricevere il rapporto e ad applicare le sanzioni per le violazioni amministrative previste dagli articoli … 724 … del codice penale è il prefetto”.
Quanto allo strumento processuale, la bestemmia è di regola sanzionata mediante l’apposito strumento procedimentale dell’ordinanza-ingiunzione ex art. 18 e ss. l. n. 689/1981. Inoltre, lo stesso d. lgs. n. 507/1999 prevede, all’art. 98, che “Dopo l’articolo 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689 [che prevede, quale strumento avverso la sanzione amministrativa, l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione: n.d.r.] è inserito il seguente: “Art. 22-bis (Competenza per il giudizio di opposizione). – Salvo quanto previsto dai commi seguenti, l’opposizione di cui all’articolo 22 si propone davanti al giudice di pace …”.
Tale norma è stata poi abrogata dal decreto sui riti, il d. lgs. 1.9.2011, n. 150. Oggi, l’art. 22 l. n. 689/1981 prevede che “Salvo quanto previsto dall’articolo 133 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104[37], e da altre disposizioni di legge, contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento e contro l’ordinanza che dispone la sola confisca gli interessati possono proporre opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. L’opposizione è regolata dall’articolo 6 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150”, secondo cui “Le controversie previste dall’articolo 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, sono regolate dal rito del lavoro, … L’opposizione si propone davanti al giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione … l’opposizione si propone davanti al giudice di pace”.
Infine, quanto ai profili processuali, con riguardo all’annosa questione circa il possesso della personalità giuridica da parte della Prefettura ovvero la sua natura di mero organo del Ministero dell’interno, quale ufficio territoriale del Governo, la Suprema Corte, proprio con riguardo ad un caso di sanzioni amministrative pecuniarie adottate dalla Prefettura e impugnate dinanzi al Giudice di pace di Bari, ha avuto modo di precisare che “In tema di sanzioni amministrative, l’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, conferisce all’autorità, ancorché periferica, che ha emesso l’ordinanza-ingiunzione un’autonomia funzionale dalla quale discende la sua qualità di parte, che non è limitata al giudizio di primo grado, ma si estende all’intero arco del processo e dunque anche alla fase di impugnazione”[38].
Ciò premesso, si deve ritenere che gli approdi giurisprudenziali della Cassazione penale sopra illustrati possano e debbano valere anche per l’odierna fattispecie di illecito amministrativo e, dunque, debbano limitare la sua sanzionabilità alle sole condotte prima punibili secondo la giurisprudenza di legittimità penalistica. Militano in favore di tale soluzione numerosi elementi.
In primo luogo, milita in tal senso la giurisprudenza successiva alla depenalizzazione dell’art. 724 c.p., che ha sempre confermato l’orientamento della precedente Cassazione “restrittivo”, limitato alla sola Divinità. In particolare, giova segnalare un caso in cui, a fronte dell’allestimento nella città di Bologna, da parte di un’associazione gay, di uno spettacolo-mostra obiettivamente offensivo verso la Madonna[39], la Procura di Bologna aveva presentato richiesta di archiviazione[40], poi accolta dall’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bologna[41]. Nonostante le critiche mosse contro l’applicazione fiscale dell’art. 724 c.p. da parte della Procura e del GIP del Tribunale di Bologna[42], a fronte del forte sentimento di attaccamento che i fedeli del culto cattolico rivolgono alla Madonna, la giurisprudenza di merito ha continuato a ritenere non punibile l’offesa a tale figura, relegando l’art. 724 c.p. all’esclusivo ambito della Trinità, ossia della Divinità stricto sensu.
Del resto, diversamente ragionando si giungerebbe all’assurdo risultato per cui, visto che la norma è stata modificata nella parte della sanzione, il precetto andrebbe interpretato nel senso precedente e contrario a quello costituzionalmente conforme operato dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 440/1995, ossia nel testo originario. Eppure, non vi è alcuna ragione giuridica per cui dovrebbe eludersi il dettato della Corte, tantomeno per via della conversione in illecito amministrativo, che parimenti è soggetto ai principi che hanno ispirato la pronuncia del 1995.
In secondo luogo, può essere valorizzata la circostanza che, nonostante la diversa natura e qualificazione giuridica formale, anche il previgente illecito penale era punito esclusivamente in via pecuniaria, mediante un’ammenda molto simile a quella attuale, per cui si deve ritenere che nonostante la modifica normativa, sia rimasto inalterato il disvalore della condotta agli occhi dell’ordinamento giuridico.
Aggiuntivamente, soccorre l’applicazione dei principi generali del diritto, posto che il divieto di discriminazione tra diversi culti e il principio di eguaglianza impongono di trattare in modo paritario tutte le religioni. Inoltre, il principio di libertà religiosa impone allo Stato non soltanto di garantire la libertà di culto o di non culto, ma anche di assicurare al sentimento religioso, avente rilievo costituzionale, un minimum di tutela, mediante la predisposizione di apposite sanzioni contro le condotte aggressive o lesive. Si deve dunque ritenere che le soluzioni pretorie così come ricostruite dalla Cassazione penale della fine degli anni Novanta possano valere anche in relazione al novellato art. 724 c.p. proprio per garantire una tutela uniforme e paritaria del sentimento religioso di qualsiasi culto.
Al contempo, il principio di libertà di manifestazione del pensiero, con gli anni sempre più preminente nel bilanciamento dei valori costituzionalmente rilevanti, nonché la direttrice culturale volta alla tendenziale abrogazione dei c.d. reati di opinione[43], impongono una lettura restrittiva dell’ambito punitivo.
Pertanto, l’illecito amministrativo di bestemmia può ritenersi relegato, al pari dell’allora illecito penale, alle sole blasfemie avverso le Divinità di tutte le religioni, e non può invece trovare applicazione alle offese rivolte alle altre figure, simboli ed oggetti di venerazione presenti nei pantheon e nelle gerarchie cosmiche delle rispettive tradizioni.
Infine, posto che la sanzione amministrativa che punisce la bestemmia ha un limite edittale massimo di € 309,00, ci si è chiesti se il Giudice di pace civile potesse applicare l’art. 113, secondo comma, c.p.c., secondo cui “Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede duemilacinquecento euro”. Sul punto, aggiunge l’art. 339, comma 3, c.p.c., “Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia”. Ebbene, secondo un orientamento ormai consolidato, proprio in tema di sanzioni pecuniarie disposte dal Prefetto con ordinanza-ingiunzione, la Corte di Cassazione civile ha disposto che “In seguito all’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 23 della l. n. 689 del 1981, intervenuta con il d. lgs. N. 40 del 2006, la sentenza che definisce il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, compresa quella del Giudice di pace, è soggetta all’appello e non al ricorso per cassazione. L’appello per le cause di valore non superiore a euro 1.100,00 non è sottoposto alle limitazioni di cui all’art. 339, comma 3, c.p.c. poiché, per espressa disposizione dell’art. 23, comma 11, della legge citata, come modificato dall’art. 99 del d. lgs. N. 507 del 1999, non è applicabile l’art. 113, comma 2, c.p.c., sicchè non è possibile una pronuncia secondo equità”[44].
Quanto invece ai poteri del Giudice civile in materia di sanzioni, soccorre in tema l’art. 6, comma 12, d. lgs. n. 150/2011 (e prima della sua abrogazione ad opera dello stesso decreto sui riti, l’art. 23 l. n. 689/1981), dispone che “Con la sentenza che accoglie l’opposizione il giudice può annullare in tutto o in parte l’ordinanza o modificarla anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta, che è determinata in una misura in ogni caso non inferiore al minimo edittale”. La disposizione, quale unicum del diritto civile italiano, attribuisce al giudice civile il potere non soltanto di disapplicare il provvedimento amministrativo illegittimo, conoscendone l’invalidità incidenter tantum, ma anche di rideterminare la sanzione che tale atto irroga, senza circoscrivere tale potere entro limiti edittali o temporali.
In conclusione, il giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione della Prefettura, che dispone l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria per bestemmie ed offese ai culti religiosi, si svolge dinanzi al Giudice di pace ma non ha natura di giudizio di equità, pur mantenendosi al di sotto del limite monetario di € 2.500,00 e pur potendo il giudice rideterminare la sanzione entro i limiti edittali previsti dalle legge. Si tratta bensì di un giudizio che ha ad oggetto una valutazione di buon costume, inerente espressioni dei privati sanzionate dalla pubblica Autorità, e dunque in via eccezionalmente derogatoria alla libera manifestazione del pensiero. Come tale, deve essere considerato sempre un giudizio da decidere secondo diritto.
[1] Cass. pen. VI, 3.5.1979 – 7.12.1979, n. 10537.
[2] Cass. pen. III, 19.11.1985 – 26.2.1986, n. 1692, Malesardi.
[3] Cass. pen. VI, 4.9.1968 – 30.10.1968, n. 1201.
[4] Cass. pen. III, 19.11.1985 – 26.2.1986, n. 1692, Malesardi.
[5] P. Viareggio, 22.6.1985, Mastelloni, GM 85, I, 1129, nt. Punzi-Nicolò.
[6] Più in generale, stabilisce il quarto comma dell’art. 266 c.p. che “Agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: 1) col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; 2) in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; 3) in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata”.
[7] Cass. pen. VI, 4.4.1985, n. 3076, pronuncia nella quale la Suprema Corte ha escluso la configurazione del reato di bestemmia poiché avvenuto alla sola presenza del vigile urbano che contestava l’infrazione alle norme di circolazione stradale; conf. a Cass. pen. 13.6.1961.
[8] Cass. Sez. Un., 27.3.1992 – 15.7.1992, n. 7979, Cannarella.
[9] Cass. pen. 3.4.1956; conf. Cass. pen. 4.4.1985.
[10] Cass. pen. VI, 15.10.1975; Cass. pen. VI, 23.1.1973 – 16.3.1973, n. 2164.
[11] Cass. pen. 16.1.1958.
[12] Cass. pen. III, 7.12.1985, n. 11738.
[13] Cass. pen. VI, 20.5.1980, n. 11049.
[14] Cass. pen. 3.8.1962.
[15] Cass. Sez. Un., 27.3.1992 – 15.7.1992, n. 7979, Cannarella, CP 92, 2713.
[16] Cass. pen. Sez. Un. 15.7.1992, n. 7979.
[17] Recepito in Italia mediante la legge 25.3.1985, n. 121 di “Ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede”.
[18] Cass. pen. VI, 19.6.1972 – 7.12.1972, n. 8120, Felicetti e Caldora.
[19] Corte Cost., 30.12.1958, n. 79, RIDPP 59, 173, nt. Conso.
[20] Corte Cost., 27.2.1973, n. 14, GP 73, I, 145.
[21] Corte Costituzionale, 28.7.1988, n. 925.
[22] conf. Corte Costituzionale, ord. n. 52/1989.
[23] Cass. pen. III, 4.2.1986 – 3.3.1986, n. 1782, Mastelloni.
[24] cfr. P. Viareggio, 22.6.1985, Mastelloni, GM 85, I, 1129, nt. Punzi-Niccolò; Trib. Bologna, 27.7.1985, Addobbati, GM 85, 1129; Trib. Torino, 2.1.1986, Giannini, DE 87, II, 78.
[25] P. Genova, 18.1.1991, Cannarella, Giur. Merito, 1991, 1109, nt. Arceri.
[26] Corte Costituzionale, 18.10.1995, n. 440, CP 96, 42, nt. Palazzo.
[27] Cass. pen. 2.9.1985, Capozzi, CP 87, 63, nt. Musselli e Ciampi.
[28] App. Venezia, 8.6.1989, Scorsese.
[29] Anche sotto il profilo terminologico, la locuzione “nella religione dello Stato” sembra riferirsi unicamente ai Simboli e alle Persone, non invece alla Divinità, che è trasversale ad ogni culto.
[30] Cass. pen. III, 9.2.1998, n. 1536; Cass. pen. VI, 6.3.2006 – 4.4.2006, n. 11690.
[31] Pretura circondariale di Avezzano, 6.11.1996, “Bestemmia contro la Madonna”.
[32] Fino all’avvento del T.U. di pubblica sicurezza 6 novembre 1926 n. 1848, che all’art. 232 ne reintrodusse nell’ordinamento generale l’incriminazione.
[33] P. Avezzano, 6.11.1996, “Bestemmia contro la Madonna”. Nella stessa pronuncia il Pretore ha ritenuto che non fosse sussimibile sotto la fattispecie di cui all’art. 726 c.p. la condotta incriminata, offensiva della Madonna, in quanto pur sussistendo un rapporto di specialità tra i due reati, essa si era concretizzata nella sola bestemmia e il disvalore penale di quest’ultima doveva ritenersi sussulto unicamente nella fattispecie di cui all’art. 724 c.p. (nella parte caducata dalla Corte Costituzionale). Ciò a conferma del fatto che la “bestemmia” alla Madonna e alle altre figure della religione, oltre a non essere più punibile ex art. 724 c.p., non è, di per sé simpliciter, punibile quale turpiloquio, in quanto il disvalore della bestemmia rientra nel solo art. 724 c.p., mentre ai fini della punibilità a titolo di turpiloquio, è dunque necessario che la condotta concreta si sia esplicata in dichiarazioni indecorose e indecenti ulteriori.
[34] Cass. pen. I, 18.2.2009 – 11.3.2009, n. 10734.
[35] Recante “Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio”.
[36] Legge che, all’art. 18, ha abrogato il secondo comma dell’art. 726 c.p..
[37] Ossia le materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
[38] Cass. Civ. I, 16.5.2005, n. 10208.
[39] La sfortunatamente celebre ed obiettivamente provocatoria mostra della c.d. “Madonna che piange sperma”, dal nome della manifestazione.
[40] Procura di Bologna, 29.7.2007.
[41] G.I.P. del Tribunale di Bologna, 13.11.2007.
[42] Nello stesso decreto motivato con il quale il GIP di Bologna disponeva l’archiviazione, egli diffusamente procedeva altresì a differenziare la fattispecie di cui all’art. 724 c.p. da quella prevista all’art. 404 c.p., rubricata “Offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose”. Si tratta di un reato di vilipendio, che punisce chiunque, in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto o destinate necessariamente all’esercizio del culto, ovvero commette il fatto in occasione di funzioni religiose in luogo privato da un ministro del culto, ovvero ancora pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibili o imbratta cose che formino oggetto di culto, siano destinate al suo esercizio o siano consacrate. Il vilipendio non si identifica, dunque, con una critica anche aspra nei confronti della religione, ma con una condotta che ecceda dai limiti del decoro e della correttezza, vile, tale da negare alla confessione religiosa che si vilipende qualsiasi valore etico o sociale, privandola di rispetto, fiducia e prestigio, inducendo chi ascolta al disprezzo. È richiesto il dolo generico di offendere.
Ciò posto, il GIP di Bologna ritenne che la condotta di offesa alla Madonna, al pari di tutte le condotte di blasfemia ingiuriosa o triviale che connotano la bestemmia, non potesse rientrare nel vilipendio alla religione di cui all’art. 404 c.p., poiché oggetto dell’offesa della bestemmia è una figura, una persona, una divinità, mentre nel vilipendio è la stessa confessione religiosa, il suo complesso di dogmi e credenze, la sua stessa moralità.
[43] Fra i quali rientrano certamente i reati di vilipendio di cui all’art. 403 e ss. c.p., che hanno ad oggetto una manifestazione del pensiero e di critica, ancorché eccedente i limiti del decoro. Al contrario, la contravvenzione di cui all’art. 724 c.p. potrebbe non rientrare nei reati di opinione, in quanto non punisce la condotta blasfema tanto per il suo contenuto e per la contrarietà ai precetti religiosi, quanto per il suo carattere di offensività al sentimento degli altri, per la sua volgarità. Inoltre, posto che il bene giuridico offeso consiste nel sentimento religioso delle persone credenti, l’ideale persona offesa è proprio il credente, e non invece, come nei reati di opinione, la personalità dello Stato e i suoi valori. Più in generale, non s’intende affermare la veridicità del messaggio spirituale, ma semmai soltanto la rilevanza che la religione ha nella vita delle persone. Ciononostante, la somiglianza con i reati di opinione è di tutta evidenza, e la tendenza a depenalizzare tali reati si ripercuote anche sulle fattispecie incriminatrici come quella di cui all’art. 724 c.p., fattispecie che, punendo condotte contrarie alla decenza e alla buona creanza, consistono comunque in un’espressione verbale di critica ed offesa.
[44] Cass. Civ. II, ord. 22.10.2018, n. 26613.