Nel presente documento si indicano i motivi per i quali mediante l’azione di arricchimento senza causa, di cui all’art. 2041 c.c., è possibile chiedere anche il risarcimento del danno da profitto sperato (c.d. “lucro cessante”).
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L’azione di arricchimento senza causa: premessa
Ai sensi dell’art. 2041 c.c., “chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.
L’ingiustizia prevista dalla norma attiene alla “causa”. Se con tale termine ci si riferisce alla “causa” di cui all’art. 1325 c.c., ossia a quella che è la ragione economico – sociale del contratto, allora si deve ritenere che l’arricchimento sia stato originato da un contratto avente una causa “illecita”, ossia contraria a norme imperative (art. 1343 c.c.). L’ingiustizia, infatti, è data non da un comportamento contrario ai principi della morale, bensì da una condotta avente il carattere della “antigiuridicità”, e quindi della illiceità.
In base all’art. 1418 c.c., un contratto con una causa illecita è un contratto “nullo”. Quindi, Tizio, esercitando l’azione ex art. 2041 c.c., recupera quanto Caio abbia “ingiustamente” – ossia illecitamente – conseguito.
Il problema, però, è che, a norma dell’art. 2042 c.c., l’azione ex art. 2041 c.c. “non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”. Essa è stata introdotta nell’ordinamento per dare alle parti la possibilità di tutelare i loro diritti contrattuali solo quando non risultino sussistere i presupposti previsti per l’esperibilità delle azioni “tipiche” di tutela, tra le quali figura, per l’appunto, la nullità. Quindi l’art. 2042 c.c. esprime un principio che non è coerente con il presupposto dell’azione di ingiustificato arricchimento: se per “mancanza di giusta causa” si intende una “causa illecita”, ciò determina la nullità del contratto, e siccome la nullità è una delle azioni giudiziali tipiche (ossia previste dall’ordinamento), allora, in base all’art. 2042 c.c., dovrà essere esperita tale azione, e non l’azione di arricchimento senza causa.
Allora, per recuperare questa coerenza, si deve ritenere che la “giusta causa” di cui all’art. 2041 c.c. si identifichi non con la “causa” di cui all’art. 1325 c.c., bensì con una causa affine a quelle che nel diritto penale sono le “cause di giustificazione”, ossia l’aver agito per: esercizio di un diritto, adempimento di un dovere, legittima difesa, stato di necessità. Di conseguenza, chi ha agito in presenza di una di queste cause, non è tenuto al risarcimento del danno.
Il fatto che l’azione di arricchimento senza causa possa essere esperita solo quando non siano utilizzabili gli strumenti tipici previsti a tutela dell’inadempimento contrattuale, ed il fatto che, come abbiamo visto, quando si parla di assenza di giusta causa, non ci riferisca alla “causa” intesa quale elemento essenziale del contratto, cosa stanno a significare? Che tale azione è fondata su un illecito di tipo extra – contrattuale. Se si trattasse di una responsabilità contrattuale, l’art. 2042 c.c. non imporrebbe l’alternatività tra i mezzi di tutela contrattuale e la medesima azione.
Tesi secondo cui il risarcimento previsto dall’art. 2041 c.c. può avere ad oggetto soltanto il danno emergente
Chi si è arricchito (Tizio) è tenuto all’indennizzo soltanto nei limiti dell’utilità conseguita e “nei limiti della correlativa diminuzione patrimoniale” che Caio abbia subìto.
Il concetto di “diminuzione patrimoniale” (danno emergente) è diverso da quello di “ampliamento patrimoniale” (lucro cessante): il primo individua una restrizione delle risorse tutt’ora presenti nel patrimonio, il secondo designa il conseguimento di un’utilità ad oggi mai avuta.
Ebbene, in base alla norma, Caio non può chiedere a Tizio anche il risarcimento del danno da lucro cessante, ossia da mancato guadagno: essa, infatti, parametra l’entità del danno alla sola “diminuzione patrimoniale”.
Tale principio risulta essere fondato sui seguenti motivi.
1) L’art. 1382 c.c., nel disciplinare la clausola penale per il caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento della prestazione contrattuale, prevede che tale clausola ha l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa “se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore”.
Il lucro cessante è il risarcimento di un danno che eccede quello derivato dall’inadempimento (o ritardo) contrattuale, e quindi è “ulteriore” rispetto a quest’ultimo. Ebbene, la risarcibilità di tale danno può essere convenuta tra le parti solo nell’ambito dei rapporti contrattuali (vedi, per l’appunto, la “clausola” penale), e non anche in ordine alla responsabilità extra contrattuale, qual è quella dell’art. 2041 c.c. .
2) L’art. 1223 c.c. prevede che “il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
L’art. 1223 c.c. parla di “inadempimento” e di “ritardo nell’adempimento”, ossia di due fatti legati ad una “prestazione” da eseguire, e quindi il danno da lucro cessante è risarcibile solo quando ci si trova nell’ambito di un’obbligazione contrattuale, e non anche nel caso di illecito extra contrattuale, qual è quello di cui all’art. 2043 c.c. .
3) Se mediante l’azione ex art. 2041 c.c. si potesse chiedere anche il risarcimento del danno da lucro cessante, il risultato sarebbe che, attraverso un’azione avente un carattere meramente residuale rispetto a quella rappresentata dagli strumenti di tutela tipici (ossia quelli esperibili in ambito contrattuale), si otterrebbe il medesimo risarcimento che normalmente si ottiene con l’azione risarcitoria contrattuale, qual è quella di cui all’art. 1223 c.c. . Ma allora verrebbe meno il carattere stesso della residualità: se con un’azione residuale (extra contrattuale) si può ottenere la stessa tutela risarcitoria che si ottiene con le azioni tipiche (contrattuali), non ha più senso parlare di “residualità”.
Tesi secondo cui il risarcimento previsto dall’art. 2041 c.c. può avere ad oggetto anche il lucro cessante
L’art. 1223 c.c. è inserito nella disciplina riguardante le “obbligazioni in generale”, e non nell’ambito delle obbligazioni contrattuali. In base all’art. 1173 c.c., le obbligazioni – ivi comprese quelle di natura risarcitoria – derivano non soltanto dal “contratto”, ma anche da ogni “fatto” idoneo a produrle in conformità all’ordinamento giuridico, e quindi anche dall’illecito extra – contrattuale di cui all’art. 2041 c. c. .
Pertanto, la situazione è la seguente: la norma generale (ossia il combinato disposto degli artt. 1173 e 1223 c.c.) prevede che il danno da lucro cessante sia risarcibile anche in relazione all’illecito extra – contrattuale; invece la norma speciale (art. 2041 c.c.) prevede che con l’azione di arricchimento senza causa – la quale viene esercitata a titolo di responsabilità extra contrattuale – tale risarcimento non sia chiedibile.
In virtù del principio di specialità delle norme (art. 15 c.p.), la norma speciale deroga alla norma generale, “salvo che sia altrimenti stabilito”. Nel caso di specie, l’art. 1173 c.c., nello stabilire che le obbligazioni, ivi incluse quelle risarcitorie derivano anche dal “fatto illecito”, prevede un principio di carattere generale (“salvo che sia altrimenti stabilito”), che non ammette eccezioni, e quindi esso deve considerarsi quale “norma di chiusura”, ossia come disposizione che assume un carattere inderogabile anche a fronte di una diversa previsione contenuta nella norma speciale. Di conseguenza, per effetto dell’art. 15 c.p., deve ritenersi, contrariamente a quanto previsto dall’art. 2041 c.c., che con l’azione di arricchimento senza causa ivi prevista si possa chiedere anche il risarcimento del danno da lucro cessante.
In ambito contrattuale il danno è chiedibile anche quando esso sia stato generato da un comportamento fraudolento il quale, per quanto grave, non ha condizionato la prestazione del consenso della parte danneggiata, nel senso che quest’ultima avrebbe comunque accettato di stipulare nonostante tale comportamento. L’art. 1440 c.c., nel disciplinare l’annullabilità del contratto a causa del dolo della controparte, prevede che “se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni”. In questo caso, il risarcimento trova la sua ratio nella violazione del generale obbligo di correttezza e buona fede che deve caratterizzare l’instaurarsi – ed anche lo svolgersi – dei rapporti negoziali (artt. 1175 e 1375 c.c.). L’altro contraente, se ha deciso di stipulare nonostante i raggiri usati contro di lui, lo ha fatto perché evidentemente ritiene che l’attivazione del rapporto contrattuale sia per lui più foriero di benefici rispetto ad una non attivazione (altrimenti, egli avrebbe domandato l’annullamento). Quindi l’unica ratio della tutela risarcitoria prevista dalla norma risiede appunto nella necessità di sanzionare la controparte che, con il suo comportamento doloso, abbia violato l’obbligo di correttezza e buona fede, il quale ha certamente un carattere cogente.
Ci si aspetterebbe che in ambito contrattuale il risarcimento possa essere chiesto solo quando il danno si sia concretato nell’aver estorto il consenso negoziale, costituendo quest’ultimo l’essenza stessa del contratto, e non anche nel caso in cui il comportamento (fraudolento) della parte sia stato ininfluente ai fini del consenso stesso.
La considerazione è, quindi, la seguente: se in ambito contrattuale il risarcimento può essere chiesto anche quando il danno è consistito non nella impossibilità di ottenere i vantaggi derivanti dal contratto (vantaggi che la parte, avendo deciso di stipulare, potrà continuare tranquillamente ad ottenere), bensì nella violazione di obblighi aventi carattere generale, ossia che operano a prescindere dal singolo contratto stipulato, allora in ambito extra contrattuale (vedi art. 2041 c.c.) il risarcimento dovrebbe poter essere chiesto per “tutti” i danni riconducibili all’illecito, senza alcuna limitazione, e quindi anche per il lucro cessante.
Inoltre, il principio in base al quale mediante l’azione di arricchimento senza causa ex art. 2043 c.c. si può chiedere il risarcimento anche del danno da lucro cessante, si basa sull’analogia tra tale azione e quella prevista dall’art. 2043 c.c., analogia che viene dimostrata come segue.
Ai sensi dell’art. 2043 c.c., “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Anche tale azione, esattamente come quella di cui all’art. 2041 c.c., trova la sua fonte in una responsabilità di tipo extra contrattuale.
Di conseguenza, come nel caso dell’art. 2041 c.c., così anche nel caso di cui all’art. 2043 c.c. l’ingiustizia del danno non può dipendere né dal fatto che il dolo e/o la colpa hanno viziato il consenso della parte (perché, non essendovi un contratto, non può esserci stata alcuna volontà “negoziale”), né dalla violazione del generale obbligo di correttezza e buona fede, perché questo, ex art. 1375 c.c., costituisce il principale canone di comportamento nell’ambito dei rapporti di natura “negoziale”.
Quindi, per esclusione, l’ingiustizia del danno dipende dal fatto che il danneggiante ha agito in assenza delle cause di giustificazione del diritto penale, esattamente le stesse che caratterizzano il concetto di “danno ingiusto” di cui all’art. 2041 c.c. .
Ebbene, posto che la responsabilità ex art. 2043 c.c. coincide con quella di cui all’art. 2041 c.c. sotto il profilo sia del presupposto (“ingiustizia” del danno) sia della natura (extra contrattuale), va rilevato che l’art. 2043 c.c., quando parla di “danno”, non si riferisce soltanto alla “correlativa diminuzione patrimoniale”, e cioè al solo “danno emergente”, come fa invece l’art. 2041 c.c.: segno che per “danno” si intende anche quello da lucro cessante.
Di conseguenza, l’art. 2041 c.c., quando limita al solo danno emergente la responsabilità risarcitoria, in realtà stabilisce una limitazione che, per l’azione ex art. 2043 c.c., eppur basata sul medesimo presupposto e sulla medesima natura, non è prevista. Esso, quindi, contiene una norma da qualificarsi come illegittima ex art. 3 Costituzione.