Il tema delle occupazioni illegittime eseguite da parte dell’amministrazione pubblica su aree di proprietà privata ha rappresentato per molti anni un argomento di assoluta rilevanza, tanto che molteplici sono state le argomentazioni addotte in campo giurisprudenziale, con un’attenzione particolare anche alle fonti normative.
Sicuramente un importante tassello è stato posto negli anni ottanta dalla giurisprudenza di legittimità, atteso che la Cassazione[1] in tale occasione intervenne procedendo all’elaborazione di due distinti istituti con un fine ben preciso: riconoscere una idonea riparazione, sotto il profilo economico, al privato cittadino spogliato di un proprio bene in assenza di un titolo legittimo e valido.
Si tratta, rispettivamente, dell’occupazione acquisitiva nonché dell’occupazione usurpativa.
L’occupazione acquisitiva
L’occupazione acquisitiva, detta altrimenti appropriativa, inerisce a situazioni connotate da una minore gravità nel senso che l’interesse di pubblica utilità trova cristallizzazione nella dichiarazione di pubblica utilità, venendo a mancare il provvedimento finale ablativo (rectius: decreto di esproprio).
La suesposta fattispecie (occupazione acquisitiva/appropriativa) viene ad essere motivata attraverso la ripresa e l’inversione di un istituto di matrice civilistica: l’accessione[2].
Detto altrimenti, la ratio giustificativa dell’occupazione acquisitiva viene ravvisata nella c.d. “accessione invertita” (ex art. 938 c.c.) laddove, operando in chiave derogatoria rispetto al principio dell’accessione ordinaria (art. 934 c.c.), fa discendere la perdita della proprietà (in capo al privato) dall’intervenuta trasformazione del bene e, dunque, dall’intervenuta realizzazione dell’opera di pubblico interesse.
Di qui, nonostante l’illegittimità dell’iter procedimentale, il privato non avrà diritto alla restituzione del bene, seppur occupato in assenza di decreto di esproprio; potrà, invece, avanzare solo una richiesta di risarcimento del danno, stante la radicale trasformazione del bene in opera di interesse pubblico.
L’occupazione usurpativa
Su un piano diverso si colloca l’occupazione usurpativa, mancando con riferimento ad essa tanto la dichiarazione di pubblica utilità quanto il decreto di esproprio. È ben evidente, pertanto, che ci troviamo dinanzi ad una ipotesi connotata da una maggiore gravità rispetto a quella precedentemente menzionata, non potendo invocarsi neppure l’accessione invertita a supporto della condotta tenuta dall’amministrazione, dovendosi quest’ultima, qualificare quale attività meramente materiale e, come tale, violativa di un diritto dominicale, qual è appunto il diritto di proprietà (art. 832 c.c.).
È chiaro che a variare sia anche la tutela spettante al privato cittadino; difatti, è solo con riguardo all’occupazione usurpativa che viene a profilarsi un illecito permanente, mancando in tal caso anche una valida dichiarazione di pubblica utilità, quale passaggio idoneo a ricollegare la realizzazione dell’opera ad un interesse di utilità collettiva.
Di qui, il privato potrà chiedere la restituzione del bene nonché il risarcimento del danno, correlato al valore effettivo dello stesso.
Gli istituti in questione sono stati, tuttavia, oggetto di studio da parte della giurisprudenza, anche di derivazione comunitaria.
L’orientamento comunitario
In particolare, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ne ha rilevato una loro intrinseca illegittimità sull’assunto che si pongono in netta contrapposizione con il principio di legalità – quale baluardo fondamentale del nostro sistema giuridico – nonché con quanto consacrato dalle fonti normative. Nello specifico, con l’articolo 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, propriamente rubricato “Protezione della proprietà”. Dato normativo, quest’ultimo, a mente del quale: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto del suoi beni” con la precisazione ulteriore che “Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.
Ne consegue che l’esercizio del potere pubblico deve avvenire nel pieno rispetto di quello che è il diritto di proprietà, richiedendosi un giusto e necessario bilanciamento delle due sfere.
E, a detta della Corte Europea[3], non può trovare accoglimento tale contemperamento nelle ipotesi di occupazioni sine titulo, laddove un ragionamento contrario finirebbe con il legittimare l’amministrazione pubblica ad operare in spregio alla legge, così ammettendosi una forma di espropriazione indiretta che garantisca alla P.A. di acquisire ugualmente un bene privato, conservando, in tal modo, l’opera una volta venuta ad esistenza.
Relativamente alla tutela del privato, poi, la Corte Edu sottolinea che accanto alla restituzione del bene deve trovare accoglimento la compensazione per equivalente, ponendosi quest’ultima non già quale rimedio sostituivo bensì alternativo.
Proprio in ragione delle suddette argomentazioni, il legislatore ha tentato di porre una soluzione alle evidenti incompatibilità con la Convenzione europea; soluzione che, almeno in un primo momento, ha avuto luogo per il tramite di un dato normativo, propriamente rappresentato dall’art. 43 D.P.R. n. 327/2001 (Testo Unico Espropri).
Norma, quest’ultima, il cui fine è stato quello di rimediare alla carenza di uno schema legale con riguardo al fenomeno delle acquisizioni compiute in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità o di un valido decreto di esproprio.
Il Testo Unico Espropri
Al riguardo, la norma de qua statuisce che a seguito di valutazione degli interessi confliggenti “l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni”.
Dunque, per il tramite della suddetta disposizione è stata data la possibilità all’amministrazione pubblica di addivenire alla titolarità di un bene originariamente rientrante nella proprietà di un privato, seppur in assenza di un titolo legittimante il trasferimento; possibilità, comunque, non genericamente riconosciuta ma rigorosamente circoscritta dallo stesso dato normativo, trattandosi pur sempre di utilizzazione di bene illegittimamente occupato.
Segue, tuttavia, una pronuncia di incostituzionalità dell’articolo 43 T.U., con la quale il Giudice delle Leggi[4] ravvisa un eccesso di delega[5] (ex art. 76 Cost.) nonché un evidente contrasto tra l’articolo 43 D.P.R. n. 327/2001 e quanto prescritto in sede civile. Rilevando, con riferimento all’ambito civilistico, il diritto di proprietà la cui tutela trova conferma nel disposto normativo di cui all’ articolo 832 c.c., secondo il quale: “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo…”.
È ben evidente la logica finalistica che ha condotto il Giudice alla declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 43 Testo unico Espropri: evitare una riemersione delle conseguenze pregiudizievoli che trovavano terreno fertile nelle ipotesi di espropriazione indiretta[6].
Successivamente il legislatore è nuovamente intervenuto introducendo l’articolo 42-bis D.P.R. n. 327/2001, rubricato “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.
La suesposta norma si pone quale obiettivo quello di fronteggiare positivamente il tema dell’occupazione sine titulo, riconoscendo all’amministrazione pubblica una duplice alternativa: l’acquisto del bene ovvero la restituzione dello stesso al proprietario, previo ripristino dello status quo ante.
Dunque, una vera e propria acquisizione che trova la sua formalizzazione in un provvedimento sanante, il cui scopo è sicuramente di garantire, quale extrema ratio, la soddisfazione di interessi aventi carattere pubblico[7].
L’introduzione di tale istituto, dunque, è di indubbia e pregnante rilevanza, rispondendo positivamente al principio di legalità nonché ai principi invocati dal Giudice comunitario.
L’attività amministrativa viene, infatti, ad essere legalizzata per il tramite di specifici rimedi prontamente cristallizzati dalla norma stessa.
Non a caso, la norma rimette in capo alla stessa pubblica amministrazione occupante la possibilità di scegliere tra acquisizione (sanante) del bene o restituzione dello stesso.
Fermo restando che, in alternativa alla restituzione, al privato è concessa la possibilità di invocare un risarcimento; tutela risarcitoria che, secondo orientamenti costanti[8], va letta nell’ottica di una rinuncia abdicativa del privato, con conseguente acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione occupante.
Acquisizione sanante: la vexata quaestio sulla natura degli importi dovuti al titolare del bene per il periodo di occupazione sine titulo, ex art. 42-bis D.P.R. n. 327/2020
Il problema trae origine dai diversi termini impiegati dal legislatore in riferimento alla stessa disposizione, qual è il disposto normativo di cui all’articolo 42-bis D.P.R. n. 327/2001.
Difatti, con riguardo alla tutela riconosciuta al privato che soffre lo spoglio in assenza di titolo valido e legittimo, il primo comma prevede che l’autorità pubblica che utilizzi un bene per scopi di pubblico interesse, in assenza del provvedimento di esproprio o della dichiarazione di pubblica utilità, può disporne, con efficacia irretroattiva, l’acquisizione al proprio patrimonio indisponibile, corrispondendo al privato un “indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale”. Quest’ultimo liquidato nella misura del 10% del valore venale del bene.
Diversamente, il terzo comma regolamenta una somma ulteriore in favore del soggetto espropriato sine titulo (pari al 5% sul valore determinato dal primo comma), discorrendo di tutela risarcitoria.
Non sono mancati profili di criticità derivanti dall’utilizzo dei due diversi termini nell’ambito della medesima previsione normativa. Perplessità che sono state oggetto di accurata analisi da parte degli interpreti e che hanno trovato una prima risoluzione per mano delle Sezioni unite intervenute nel 2016 con sentenza n. 15283.
Le Sezioni Unite del 2016
Invero, in tale occasione i giudici di legittimità sono intervenuti con riferimento a due problematiche: definizione della giurisdizione in tema di indennizzi e/o risarcimenti nell’ambito dei procedimenti espropriativi nonché qualificazione degli importi dovuti al privato per il periodo di occupazione in assenza di titolo nelle ipotesi di acquisizione sanante ex art. 42-bis T.U. Espropri.
Partendo dalla prima argomentazione posta al vaglio degli Ermellini, questi ultimi sono intervenuti nell’intento di porre una soluzione alla diatriba interpretativa circa la definizione della competenza giurisdizionale in tema di controversie riguardanti la determinazione e liquidazione dell’interesse del cinque per cento (terzo comma, articolo 42-bis).
Il dubbio sorge laddove il legislatore consacra la competenza dell’autorità giurisdizionale ordinaria con riferimento alle “indennità” mentre il terzo comma dell’articolo 42-bis discorre non già di titolo indennitario bensì di titolo risarcitorio; di qui, si è posto il problema di comprendere se andasse riconosciuta la competenza del giudice ordinario anche per le liti riguardanti l’interesse del cinque per cento sul valore determinato in base al pregiudizio patrimoniale.
In proposito, il Supremo Consesso ha inteso sposare la tesi tradizionale[9], riconoscendo “piena competenza al giudice ordinario, nello specifico alla Corte d’Appello in unico grado di giudizio, anche nelle controversie relative alla determinazione giudiziale delle indennità dovute nei procedimenti espropriativi, a fronte della compressione del diritto dominicale subita dal soggetto espropriato”.
Competenza, quella del giudice d’appello, che risponde ad una logica ben precisa: tutelare il principio di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti espropriativi.
Relativamente al secondo quesito, le Sezioni Unite del 2016 depongono a favore di una natura indennitaria degli importi dovuti al privato in ragione della privazione del diritto dominicale, ritenendo che si tratti di una mera imprecisione lessicale che non va ad alterare la connotazione unitaria e, come tale, indennitaria in riferimento ad entrambe le voci contemplate dall’articolo 42-bis.
Più specificatamente, ritengono che “l’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene immobile, così come prescritto dal terzo comma, debba essere qualificato quale voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio di natura patrimoniale di cui al primo comma”.
Di guisa il pregiudizio patrimoniale (corrispondente al valore venale del bene), il pregiudizio non patrimoniale (corrispondente al dieci per cento del valore venale del bene) e, infine, l’interesse del cinque per cento annuo determinato sulla base del pregiudizio patrimoniale ed in considerazione del periodo di occupazione senza titolo rappresentano tutte voci di un importo complessivo, la cui natura è indennitaria.
Precisano, inoltre, che trattasi di indennizzo la cui corresponsione ha luogo dal momento in cui è intervenuta l’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, ex art. 42-bis T.U. Espropri.
L’attuale rimessione della questione alle Sezioni Unite
Di recente la Corte è tornata nuovamente sulla vexata quaestio, invocando un ripensamento del principio di diritto elaborato nel 2016.
In particolare, la Prima Sezione civile dubita della bontà della soluzione offerta dalle Sezioni Unite del 2016 sull’assunto che l’impiego di termini diversi (indennizzo e risarcimento) nell’ambito della medesima previsione normativa (art. 42-bis cit.) non sia frutto di una semplice imprecisione lessicale ma, al contrario, va a sacrificare l’ampio ventaglio di posizioni che i soggetti coinvolti in una procedura espropriativa possono vantare, stravolgendosi, in tal modo, le regole operanti in tema di risarcimento del danno nonché di onere probatorio.
Di qui con ordinanza interlocutoria del 24 dicembre 2020, n. 29625 il primo Presidente ha assegnato alle Sezioni Unite la questione riguardante la definizione della natura giuridica dell’istituto dell’acquisizione sanante, con particolare riguardo agli importi da doversi corrispondere al soggetto espropriato (quale proprietario del bene) a fronte del periodo di occupazione in carenza di titolo legittimo e valido.
Al riguardo, la Corte nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite ha posto l’accento su un duplice profilo.
In prima battuta, sottolinea come l’interpretazione fornita nella pronuncia del 2016 poga in essere una forzatura del dato normativo (art. 42-bis cit.) nel senso che va a riconoscere natura indennitaria ad una somma che lo stesso legislatore (ex terzo comma dell’articolo 42-bis T.U. Espropri) qualifica in termini di risarcimento riconosciuto al privato in considerazione del periodo di occupazione illegittima. Venendo, così, a profilarsi una identità tra poste che, invero, trovano la propria origine in attività di natura del tutto opposta.
Volendo maggiormente precisi, l’indennizzo discende da un danno scaturente da un’attività lecita, di guisa che può trovare accoglimento solo con riguardo ai casi in cui l’esercizio del potere pubblico ablatorio trovi copertura in un provvedimento legittimo. Ipotesi, quest’ultima, che non può dirsi configurata nei casi di occupazione e/o utilizzazione illegittima.
Il risarcimento, invece, è tradizionalmente qualificato quale ristoro di natura patrimoniale corrisposto in ragione di un fatto illecito e, pertanto, di una occupazione compiuta in assenza di titolo valido e legittimo.
A supporto di quanto sopra delineato, l’ordinanza in oggetto riporta i profili di differenziazione che involgono, rispettivamente, l’acquisizione sanante ed il procedimento di espropriazione per pubblica utilità.
Per un verso, evidenzia come il provvedimento emesso ai sensi dell’articolo 42-bis D.P.R. n. 327/2001, quale strumento operante non retroattivamente, sia sintomatico di una attività nuova e legittima della amministrazione pubblica, il cui effetto è distendere la sua efficacia anche ad un arco temporale passato, in cui ancora non era stato adottato. Riconoscendosi allo stesso una impropria operatività che consente di tramutare, per il tramite di una tutela indennitaria, in lecito quanto precedentemente era illecito.
Dunque, viene riconosciuta in capo al privato una tutela in chiave indennitaria nonostante l’occupazione ab origine sia stata compiuta in maniera illegittima.
Per altro, si sofferma sulla espropriazione per pubblica utilità quale iter procedimentale fisiologicamente connotato da una serie di passaggi, tutti normativamente positivizzati, sfocianti poi nell’adozione di un legittimo provvedimento ablatorio; di qui, ben si comprende come la procedura espropriativa induca a ragionare in termini di soli effetti indennitari, trattandosi di attività lecitamente compiuta dall’amministrazione.
In seconda battuta, nell’ordinanza di rimessione viene ad essere analizzato il principio dell’onere probatorio, evidenziandosi le conseguenze discendenti dalla tesi offerta dalle Sezioni Unite del 2016. Si sostiene che una adesione al precedente orientamento finirebbe con il precludere la posizione del soggetto danneggiato in sede probatoria, aprendosi la strada ad una forfettizzazione presuntiva del pregiudizio.
Detto altrimenti, verrebbe ad essere compressa la fondamentale funzione sociale che sorregge la proprietà, ai sensi dell’art. 42 Cost., con conseguente delimitazione in peius della valutazione del danno sofferto dal privato, quale titolare del diritto dominicale sul bene illegittimamente occupato dall’amministrazione
Pertanto, in considerazione dei suesposti dubbi interpretativi, il Supremo Consesso è tornato ad occuparsi della natura giuridica degli importi dovuti al privato a seguito di occupazione e/o utilizzazione sine titulo ex art. 42-bis, sollecitando le Sezioni Unite ad intervenire nell’ottica di un ripensamento del principio espresso nella sentenza n. 15283 del 25/07/2016.
Ripensamento che, come sottolineato nell’ordinanza di rimessione, deve avvenire in considerazione dei principi inerenti la concentrazione della tutela giurisdizionale nonché la competenza giurisdizionale e tenuto conto di quella che è la materia oggetto di esame.
[1] Cassazione, SS.UU. n. 1464 del 1983.
[2] Il principio dell’accessione trova piena e compiuta copertura nell’ambito del codice civile, venendo qui in rilievo gli articoli 934 e ss. c.c… In particolare, l’articolo 934 c.c., propriamente rubricato “Opere fatte sopra o sotto il suolo” positivizza un importante principio a detta del quale supeficies solo cedit, nel senso che il proprietario di un fondo deve considerarsi quale proprietario di tutto quanto è su di esso costruito, edificato ed infisso. Dunque, in forza del suddetto principio il proprietario del suolo acquista qualunque costruzione, piantagione o opera esistente sopra o al di sotto dello stesso. Principio generale che, tuttavia, può andare incontro a deroghe e/o eccezioni. Ipotesi derogatorie che trovano consacrazione nello stesso articolo 934 c.c., laddove il legislatore nell’ultima parte della norma impiega l’espressione: “salvo che risulti diversamente dal titolo o dalle legge”.
Difatti, con riferimento al titolo, ben può accadere che il proprietario del suolo possa trasferire ad altra persona il diritto di fare o mantenere su di esso un immobile, rilevando al riguardo il disposto di cui all’art. 952 c.c.
Diversamente, volgendo lo sguardo alle eccezioni di carattere normativo a rilevare è proprio l’ipotesi dell’accessione invertita, il cui referente normativo è sicuramente rappresentato dall’articolo 938 c.c.
L’accessione invertita è, dunque, una figura che deroga al principio sopra enunciato e, come tale, è comunemente intesa quale norma di carattere eccezionale.
È intesa quale modalità di acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione pubblica che trova fondamento in specifici presupposti, quali: l’illegittima occupazione del bene da parte della P.A. nonché la trasformazione irreversibile del bene. Detto altrimenti, una volta realizzata l’opera pubblica con conseguente trasformazione radicale del suolo di proprietà privata, l’occupazione seppur realizzata in assenza di titolo valido comporta ugualmente l’acquisto della proprietà nelle mani dell’autorità amministrativa. Restando la privato la sola possibilità di addivenire ad un risarcimento del danno, quale ristoro connesso allo spoglio illegittimamente subito.
[3] Sul punto, CEDU, Sciarrotta e altri c/ Italia, Sez. III, ricorso n. 14793/2002.
[4] Corte Costituzionale, sentenza n. 293/2010.
[5] La Corte Costituzionale, al riguardo, sottolinea come l’acquisizione sanante ex articolo 42-bis D.P.R. n. 327/2001 presenti elementi di novità rispetto all’espropriazione per pubblica utilità e ai diversi istituti frutto di elaborazione giurisprudenziale.
[6] Ipotesi, queste ultime, che andavano a scontrarsi con le garanzie costituzionalmente prescritte (articolo 42 Cost.) nonché con il principio di legalità.
[7] Sul punto rileva un importante pronuncia della Corte Costituzionale: sentenza n. 71 del 2015.
[8] Cassazione, SS. UU. n. 735/2015.
[9] In tal senso, Cassazione SS. UU. n. 7191 del 1997.