Impresa familiare con convivente more uxorio: questione alla Corte Costituzionale

Le Sezioni Unite Civili hanno affrontato una questione di massima importanza, sollevata dalla Sezione Lavoro, riguardante la legittimità costituzionale dell’art. 230 bis c.c. Infatti, la norma stabilisce che il familiare che lavora in modo continuativo nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento e alla partecipazione agli utili e ai beni, ma esclude il convivente more uxorio tra i familiari.
La questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata rilevante e non manifestamente infondata in base alle censure riguardanti il trattamento differenziato tra il convivente e il familiare, in relazione agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione italiana, all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
I giudici hanno evidenziato l’inapplicabilità retroattiva dell’art. 230 ter c.c., introdotto dalla Legge Cirinnà, e il dubbio di legittimità costituzionale riguarda la possibilità di interpretare l’art. 230 bis c.c. in modo costituzionalmente e convenzionalmente conforme.

Corte di Cassazione-sez. un.civ.-ord. n. 1900 del 23-10-2023

La vicenda

La questione giuridica nasce da una decisione della Corte d’appello di Ancona che confermava la decisione assunta dal Tribunale di Fermo, che aveva respinto la richiesta di parte attrice di accertare l’esistenza dell’impresa familiare legata all’azienda agricola nel periodo dal 2004 al 2012, data del decesso del compagno.
Parte attrice aveva sostenuto di aver convissuto con il compagno dal 2000, nonostante il fatto che fosse già sposato con un’altra donna.
La stessa aveva affermato di aver lavorato continuativamente nell’azienda del compagno dal 2004 fino al 2012 e chiedeva il riconoscimento della sua quota di partecipazione all’impresa familiare.
Il giudice di prime cure aveva respinto la richiesta sostenendo che il riconoscimento della quota di partecipazione all’impresa familiare presuppone un rapporto di coniugio o parentela e che dunque doveva escludersi la convivenza. La Corte d’Appello aveva confermato questa decisione, aggiungendo che l’art. 230 bis cod. civ. non trova applicazione nei confronti del convivente more uxorio.
Per questi motivi, la ricorrente presentava ricorso per cassazione.

I motivi del ricorso

Con il primo motivo, la ricorrente contesta l’omesso esame di un fatto cruciale ai fini della controversia, sostenendo una violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, del codice di procedura civile. La questione centrale riguarda il rapporto di lavoro con la Regione Lombardia e la sua presunta irrilevanza sulla partecipazione della ricorrente all’azienda familiare. La ricorrente afferma che il suo impiego, iniziato nel 1989 e proseguito con variazioni contrattuali nel corso degli anni, non ha impedito il suo coinvolgimento diretto nell’organizzazione dell’azienda agricola.
Con il secondo motivo, la ricorrente solleva un’eccezione basata sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis del c.c., richiamando l’art. 360, comma 1, n. 3, del c.p.c. La ricorrente sostiene che la Corte territoriale ha erroneamente trascurato l’evoluzione delle sensibilità sociali sulla convivenza more uxorio.
Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 230 bis e 230 ter del c.c. e dell’art. 11 delle Preleggi. Affrontando il principio di irretroattività in ambito civile, la ricorrente sostiene che tale principio non è presidiato da una norma costituzionale e può essere derogato in base a criteri di ragionevolezza e giustizia.

Il ragionamento della Sezione Lavoro

Il Collegio della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha emesso un’ordinanza interlocutoria (n. 2121/2023) che solleva questioni fondamentali riguardo all’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare e la sua connessione con la convivenza more uxorio.
L’ordinanza, depositata il 24 gennaio 2023, ha innescato un dibattito importante riguardo all’interpretazione dell’art. 230 bis c.c. in relazione alla convivenza, enfatizzando che la norma richiede l’esistenza di una famiglia legittima e, quindi, non si applicherebbe alla famiglia di fatto.
Tuttavia, la Corte ha proposto una revisione di tale orientamento, considerando gli interventi legislativi e le evoluzioni giurisprudenziali e sociali, in particolare con il riferimento all’introduzione dell’art. 230 ter c.c. tramite la legge Cirinnà del 2016. Questa disposizione prevede una partecipazione agli utili dell’impresa familiare per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente.
Inoltre, la Corte ha richiamato alcune pronunce della Corte costituzionale che riconoscono la rilevanza della convivenza more uxorio in diverse circostanze, come nel caso della lesione di diritti fondamentali, il diritto sociale all’abitazione e il diritto alla salute. Anche nel contesto penale, sono state sottolineate le sentenze che riconoscono benefici al convivente more uxorio.
La Corte ha, inoltre, sottolineato l’impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina del 2016, considerando l’evoluzione della società e la crescente diffusione della convivenza more uxorio. Riconoscere la partecipazione di chi ha prestato in maniera continuativa il proprio lavoro nell’impresa familiare diventerebbe, secondo la Corte, una necessità per evitare conflitti con i principi costituzionali e la giurisprudenza della Corte EDU, nonché con il diritto UE.
Questo nuovo approccio suggerisce la necessità di un intervento nomofilattico per interpretare l’art. 230 bis, comma terzo, c.c. in chiave evolutiva, tenendo in debita considerazione i cambiamenti culturali.
In base a queste considerazioni, la questione giuridica è stata rimessa alle Sezioni Unite.

Le argomentazioni delle Sezioni Unite

La Sezioni Unite hanno sostenuto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230 bis c.c. è rilevante e non manifestamente infondata in ottica costituzionale e convenzionale.
In particolare, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale è strettamente legata alla costituzionalità dell’art. 230 bis c.c. Il verificarsi di un’accertata incostituzionalità nella mancata inclusione del convivente more uxorio come familiare avrebbe conseguenze dirette sull’accertamento dei fatti e sulla partecipazione della ricorrente all’impresa familiare.
Mentre, sulla non manifesta infondatezza occorre ricordare che l’art. 230 bis c.c. definisce il quadro normativo per la regolamentazione dell’impresa familiare. La disposizione, introdotta nel 1975, mira a fornire una tutela minima ai rapporti di lavoro nell’ambito familiare che non rientrano in specifiche discipline di protezione.
L’impresa familiare, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, disciplina situazioni non rientranti nell’archetipo del lavoro subordinato. La normativa cerca di limitare il lavoro gratuito, enfatizzando la continuità senza richiedere la presenza costante in azienda. Il legislatore, consapevole delle situazioni particolari di lavoro nell’ambito familiare, ha voluto garantire diritti e tutele ai familiari collaboratori, in mancanza di altra forma giuridica di protezione. Tali diritti includono la partecipazione agli utili dell’impresa, il diritto al mantenimento.
Secondo la dottrina, i presupposti per l’applicazione dell’art. 230 bis c.c. comprendono l’esistenza di un’impresa individuale, la continuità nella prestazione lavorativa nell’interesse dell’impresa, e la prestazione di lavoro nella famiglia con un collegamento funzionale all’attività di impresa. La norma è dunque in grado di assicurare diritti una tutela minima in assenza di altre forme di protezione giuridica.
La questione controversa riguarda l’individuazione dell’ambito soggettivo di cui all’art. 230 bis c.c., che limita la tutela alla famiglia legittima.
Prima della riforma del 2016, parte della dottrina aveva considerato la possibilità di applicare analogicamente o estensivamente l’art. 230 bis al convivente more uxorio, ma la giurisprudenza aveva escluso siffatta estensione. Tuttavia, con la sentenza Cass. 15 marzo 2006, n. 5632, un’interpretazione giuridica diversa indicava che l’attività lavorativa svolta nella convivenza more uxorio poteva rientrare nell’ipotesi della comunione tacita familiare e dell’impresa familiare.
La legge 20 maggio 2016, n. 76, ha poi introdotto l’art. 230 ter c.c., riconoscendo i diritti del convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente. Tale disposizione si applica anche alle unioni civili, includendo le persone dello stesso sesso, ma delineando una disciplina diversa per i conviventi stabili rispetto ai familiari.
La questione dell’interpretazione retroattiva dell’art. 230 ter c.c. è preliminare, e la giurisprudenza ha generalmente escluso l’efficacia retroattiva delle norme come l’art. 230 bis c.c.
La conclusione preliminare evidenzia la natura duplice della scelta del legislatore nel riconoscere diritti ai conviventi di fatto attraverso l’art. 230 ter c.c. La legge riconosce l’esigenza di tutela presente nella società, ma al contempo delinea una disciplina specifica per i conviventi stabili, caratterizzata da una minor tutela rispetto ai familiari.
Innanzitutto, si evidenzia come l’art. 230 ter c.c.non ha introdotto una nuova disciplina per i conviventi che lavorano nell’impresa dell’altro, ma ha delineato un quadro generale che accompagna la disciplina dell’art. 230 bis.
Un punto importante è la sentenza della Cassazione del 4 maggio 2022, n. 14151, riguardante la definizione di convivenza di fatto e il suo impatto sulla materia degli assegni divorzili. La sentenza sottolinea il carattere atipico e polimorfo della convivenza more uxorio, conservandone il tratto distintivo nei legami affettivi di coppia e nei reciproci obblighi di assistenza morale e materiale.
L’introduzione dell’art. 230 ter c.c. è finalizzata a colmare un vuoto di tutela esistente nell’ordinamento italiano, mirando a proteggere il lavoro prestato dal convivente nell’impresa familiare.

La giurisprudenza costituzionale

Con la sentenza n. 476 del 1987, la Corte costituzionale ha riconosciuto l’istituto dell’impresa familiare come strumento per tutelare il lavoro nei contesti familiari.
La sentenza n. 138 del 2010 ha affermato la legittimità costituzionale delle unioni omosessuali, riconoscendo il diritto alla convivenza stabile tra persone dello stesso sesso. La sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito che l’art. 2 Cost. rappresenta il riferimento costituzionale per le famiglie di fatto. La creazione di una nuova famiglia, anche se non formalmente riconosciuta, è vista come un’espressione di scelta esistenziale libera e consapevole, che solleva da obblighi post-matrimoniali reciproci. La recente sentenza n. 35385/2023 conferma che, nonostante le differenze tra matrimonio e convivenza, entrambi generano obblighi di solidarietà anche dopo la loro cessazione (v. assegno di mantenimento).

Conclusioni

L’ordinanza evidenzia una serie di censure di incostituzionalità nei confronti dell’art. 230 bis c.c., in particolare, sulla mancanza di inclusività nei confronti del convivente di fatto. L’art. 230 ter c.c., che concede al convivente di fatto una tutela differenziata e inferiore rispetto al coniuge o al familiare, viene altresì coinvolto nelle censure.
Le censure si basano in concreto sulla presunta violazione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., che garantiscono l’uguaglianza, il diritto al lavoro e la tutela del lavoratore. L’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, insieme all’art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, viene citato per sottolineare la possibile non conformità dell’art. 230 bis alle normative europee e convenzionali.
L’impossibilità di interpretare la disposizione in modo conforme alla Costituzione e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea richiede un esame approfondito dinanzi al Giudice delle Leggi.
In definitiva, le Sezioni Unite suggeriscono il rinvio degli atti alla Corte costituzionale con  conseguente  sospensione del giudizio a quo.

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