Per lavorare su un compito è necessario eseguire con diligenza un procedimento già definito da altri ed il controllo avviene su tale esecuzione; invece, lavorare per risultati attesi significa essere in grado in primo luogo di analizzare il risultato da raggiungere, che si sostanzia in un problema da risolvere, in secondo luogo di individuare il metodo più adeguato per raggiungerlo attraverso le proprie competenze verticali e trasversali.
Il ruolo del c.d. Knowledge Worker
Possiamo affermare, dunque, che un knowledge worker deve individuare, affrontare e risolvere problemi sempre diversi che non hanno una soluzione predefinita e, dunque, nemmeno un’attività proceduralizzata per risolverla o automatizzata per farla svolgere dalle macchine. Raggiungere un risultato atteso è una responsabilità specifica e delegabile del knowledge worker così come non lo è la scelta delle modalità più adeguate per il raggiungimento dello scopo; ciò implica necessariamente avere possesso di capacità multiple e complesse (Rullani 2004).
All’interno di un sistema produttivo, i knoledge workers non controllano i mezzi produttivi né fanno il lavoro fisico; essi producono, controllano ed utilizzano le conoscenze in modo totalmente autonomo ed indipendente e la conoscenza rappresenta il loro apporto specifico e diretto nei centri di produzione. Ciò rende chiaro e indiscutibile il ruolo essenziale ed ormai irrinunciabile che essi ricoprono nel nuovo sistema capitalistico.
Fino agli anni ’60 l’istruzione superiore era accessibile soltanto alle classi sociale privilegiate e ciò creava di un sistema chiuso di conoscenza che consentiva alla classe dominante un controllo diretto sulla cultura, sulle scienze e sulla tecnologia. Con la diffusione dell’istruzione su larga scala, invece, e l’affermarsi di un ruolo produttivo e numerico sempre più centrale dei lavoratori della conoscenza si è reso quasi impossibile il controllo sulla circolazione delle conoscenze che hanno l’intrinseca capacità di moltiplicarsi attraverso la condivisione.
Così il ceto intellettuale, professionale, manageriale e tecnico, nato con l’economia industriale e fordista, nell’economia della conoscenza è diventato una “classe” acquisendo un elevato livello di autonomia culturale. Ciò implica una conseguenza naturale, i capitalisti tengono il controllo su due degli asset fondamentali, ossia sui mezzi industriali di produzione e sui i capitali finanziari, ma perdono quello sulla intelligenza scientifica e culturale a favore dei lavoratori della conoscenza che gestiscono il patrimonio intellettuale in relativa autonomia.
I knowledge workers utilizzano, trasmettono e incrementano il livello di conoscenza dell’epoca pertanto non appartengono alla classe proletaria né a quella dei capitalisti, ma una classe media e sono molto compositi: tecnici e impiegati amministrativi, insegnanti, professori e giornalisti, professionisti della comunicazione e dello spettacolo, scienziati e ricercatori, quadri e dirigenti, medici e ingegneri e così via. I lavoratori della conoscenza possono essere dipendenti del settore privato o pubblico, o essere lavoratori autonomi (soprattutto nelle attività professionali in cui l’esercizio della conoscenza non impone il possesso di notevoli mezzi materiali e finanziari). I knowledge workers non rappresentano un asset strictu sensu; essi non potendo essere né comprati né venduti, non hanno un valore di mercato; tuttavia, in un sistema capitalistico in cui il capitale monetario non può fare a meno della conoscenza, si crea un cambiamento di equilibri essenziale nella corporate governance connesso proprio ai nuovi rapporti di potere tra lavoratori della conoscenza, proprietà aziendale e capitale finanziario.
Il luogo dove nascono i knowledge workers sono le Università. Esse sono la fonte di forza economica basata sulla conoscenza e sono il luogo dove tutto ha inizio e hanno un ruolo centrale spingendosi oltre l’insegnamento e la ricerca con la volontà di essere guida a livello nazionale e internazionale in linea con la programmazione dei rispettivi paesi per la creazione di un’economia sostenibile posizionandosi come principali agenti di crescita economica. Le università necessitano, quindi, di collaborare strategicamente con il tessuto produttivo determinando uno scambio constante di conoscenze per lo sviluppo e l’utilizzo dei risultati della ricerca e dell’istruzione con l’obiettivo dello sviluppo e il mantenimento del vantaggio competitivo del proprio paese.
L’individuazione degli strumenti di commercializzazione della conoscenza
Uno dei problemi è l’individuazione del giusto strumento di commercializzazione delle conoscenze per la determinazione di reali vantaggi economici. Gli spin-off erano visti come una forma chiave di spillover di conoscenza dalle università; tuttavia, la ricerca empirica ha iniziato a mettere in discussione la bontà dello strumento. Uno studio di ricerca Scozzese su 200 USO ha rilevato che il 30% non opera più e il 55% impiega meno di 10 persone, altre ricerche hanno messo in evidenza dati simili. Questi risultati hanno portato alcuni a sostenere che l’importanza data agli spin-off nell’analisi del trasferimento di tecnologia e nell’impatto economico è “fuori luogo” (Harrison, Leich e McMullan, 2013).
È importante sottolineare anche che attualmente ci sono pochi studi che analizzano l’impatto di concessione delle licenze delle Università alle società e se questa è una forma di commercializzazione efficace.
Il trasferimento di conoscenze tra università e tessuto produttivo non è un processo semplice e lineare perché ancora non codificato. Attualmente un forma chiave di commercializzazione della ricerca è il capitale umano prodotto dalle università. La ricerca mostra che le università non sono solo formatrici di scienziati e ricercatori altamente qualificati, esse sono anche catalizzatori di talenti da altre parte della comunità locale (Wolfe & Gertler, 2004). L’attività universitaria non si limita al processo di trasferimento della su base locale ma è anche canale di nuova conoscenza attraverso le reti di ricerca accademica internazionale (OCSE, 1996). Questo ultimo aspetto determina processi e innovazioni collettive consentendo la riduzione della crescente tendenza alla divisione e dispersione delle conoscenze (Foray 2013).
Piuttosto che agire come “cattedrali nel deserto” isolate dalla loro comunità, dovrebbero agire come attori della comunità che facilitano i collegamenti e le reti creando “ancore di creatività” che sono alla base del circolo virtuoso di attrazione e conservazione dei talenti (Wolfe, 2005).
Una ‘nuova’ economia
Diversi paesi, compreso l’Italia, si orientano verso un economia basata sulla conoscenza come strategia di sviluppo. Le esigenze dell’economia hanno incoraggiato una maggiore enfasi su questioni legate ad argomenti scientifici e tecnologici rispetto al passato.
Se leggiamo la Comunicazione della Commissione Ue del 3 marzo 2010 comprendiamo come già dal 2008 fosse stata registrata una forte recessione e che si avvertiva una stringente esigenza di superarla attraverso un programma, il c.d. “Strategia Europa 2020”: “Il tasso medio di crescita dell’Europa era strutturalmente inferiore a quello dei nostri principali partner economici (…). Il fenomeno è largamente dovuto alle differenze tra le imprese, a cui si aggiungono investimenti di minore entità nella r&s e nell’innovazione, un uso insufficiente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la riluttanza all’innovazione di alcuni settori delle nostre società, ostacoli all’accesso al mercato e un ambiente imprenditoriale meno dinamico.” (Strategia Europa 2020)
Si avvertiva, dunque, già a livello europeo, uno scarso interesse nelle R&S e nell’innovazione ma, nonostante il progetto in Italia si è assistito ad un progressivo allontanamento del settore pubblico dagli investimenti sul campo registrando un importante -20% in 10 anni. E ciò nonostante l’estensione degli incentivi fiscali per la R&S privata ed una notevole quantità di finanziamenti alle università con una più elevata qualità della ricerca che hanno subito una riduzione dei finanziamenti del 14% dal 2008.
Ne è derivata una migrazione all’estero di numerose imprese che hanno portato con loro migliaia di giovani ricercatori italiani che rappresentano di certo un’eccellenza mondiale. In questo panorama recessivo si è assistito ad un ulteriore calo (quello delle iscrizioni alle università italiane è relativo al fatto che sono calate le iscrizioni del 20% ed un conseguente indebolimento del sistema universitario che riporterà ad una struttura economica a prevalenza di tecnologie medio- basse e con bassa produttività e ad un’ulteriore contrazione della domanda di lavoro per laureati da parte delle imprese (Istat).
Si pensi che nel programma Horizon 2020 l’Italia ha dato un eccellente contributo in termini di investimenti e di qualità ma a causa del numero inferiore di ricercatori rispetto a Paesi come la Germania ha potuto ottenere un numero inferiore di finanziamenti. (Horizon 2020)
In base allo European Innovation Scoreboard 2020 possiamo notare che l’Italia è tra i Paesi con la più bassa capacità innovativa proprio perché investe meno in Ricerca e Sviluppo, accanto ai Paesi con un alto livello di investimenti che non a caso sono anche quelli che hanno subito meno l’impatto della crisi economica. ( European Innovation Scoreboard 2020)
Una crisi che l’Italia sta attraversando da anni. Oggi il PIL italiano è tornato ai livelli registrati nel 1993 e in termini pro capite a quelli registrati alla fine degli anni ’80. E ciò non dipende, ovviamente, solo dal collasso causato dalla Pandemia ma anche dal fatto che dagli anni ’90 la crescita economica è stata minima a causa dei ritardi nel campo della conoscenza. L’Italia, inoltre, è tra i Paesi con la classificazione più bassa dell’OCSE con una spesa che si assesta sullo 0,9% del Pil contro una media ben più alta dell’1,7% (dati Eurostat).
Conclusioni
Alla luce di tali considerazioni è necessario valorizzare il ruolo fondamentale dell’innovazione come motore della crescita economica e del capitale umano come motore dell’innovazione, al fine di ottenere una risposta globale su più fronti. Da parte del Governo al fine di ottenere riforme che creino un terreno ottimale per lo sviluppo del tessuto produttivo, maggiori strumenti finanziari per agevolare gli investimenti nella R&S, nell’istruzione e nella formazione.
L’università è la fonte di forza economica delle economie basate sulla conoscenza del ventunesimo secolo svolgendo un ruolo fondamentale nella realizzazione di un economia basata sulla conoscenza in qualsiasi paese. Il loro ruolo non si limita all’insegnamento e alla conduzione della ricerca scientifica ma include la commercializzazione ed il trasferimento della conoscenza in linea con la programmazione governativa per promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione per l’aumento della competitività del paese.
L’università italiana dovrebbe investire maggiormente sui knowledge workers per stare al passo di altri paesi maggiormente performanti appartenenti al “nuovo” dinamico ambiente economico e prestare maggiore attenzione alla tutela della proprietà intellettuale.
I knowlwdge workers necessitano di un ambiente favorevole per poter proficuamente operare con le giuste risorse pubbliche/private mantenendo fluide relazioni con il mercato con attenzione massima alle esigenze sociali. Probabilmente per la commercializzazione della ricerca bisognerebbe orientarci verso nuove modalità e nuovi strumenti rendendo più fluido il processo di trasferimento di conoscenza tra l’Università e il tessuto produttivo si può sostenere che figure con competenze trasversali possano avere un ruolo centrale posizionandosi come l’anello mancante tra il mondo accademico “puro” e i mercati.
Riferimenti bibliografici
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