La famiglia rappresenta, indubbiamente, un luogo di incontro e di solidarietà oltre che la sede di crescita e di autorealizzazione dei membri che ne sono parte.
Al suo interno, ciascuno, nel rispetto reciproco, conserva le proprie peculiarità, ricevendo tutela e riconoscimento dallo Stato, non solo come membri, ma soprattutto come persone, soggetti di diritto e titolari di quei diritti inviolabili che spettano loro in quanto uomini e donne.
Nel nostro ordinamento, in particolare, tale riconoscimento della famiglia e dei diritti ad essa inerenti viene realizzato, in primo luogo, dagli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, dal quale consegue che il rispetto della dignità, della personalità e, più in generale, dei diritti di ogni membro della famiglia assume i connotati di un diritto inviolabile[1].
La tutela della famiglia da parte dell’ordinamento giuridico
Qualora un fatto lesivo alteri tale complessivo assetto, provocando una riduzione o un annullamento dei benefici che dal rapporto parentale derivano, non può non trovare ristoro il danno non patrimoniale, ai sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c., consistente nello sconvolgimento delle abitudini di vita.
Proprio a tale riguardo, mentre non vi sono mai stati dubbi riguardo la risarcibilità del pregiudizio posto in essere da un soggetto terzo al nucleo familiare (in tal caso si parla di illecito “esofamiliare”), la giurisprudenza, solo in tempi più recenti, ha ritenuto che il pregiudizio patito da un familiare a causa di un comportamento di un altro membro della famiglia potesse essere risarcito.
Ebbene tale danno non patrimoniale, che si realizza all’interno del nucleo familiare, tra familiari, è definito come illecito “endofamiliare”.
In particolare, è stato spiegato che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio, quali quelli previsti dall’articolo 143 c.c. in tema di collaborazione, coabitazione, assistenza e fedeltà (i primi tre estesi alle unioni civili dall’art. 1 comma 11 L. n. 76/2016) hanno natura giuridica vera e propria.
Pertanto, viene superata la tesi per cui la violazione dei doveri coniugali è sanzionabile solo con i rimedi tipici del diritto di famiglia (ad esempio, articoli 129 bis, 151,156,342 ter c.c.; 709 ter c.p.c.; 570 c.p.; 12 sexies L. n. 898/1970): dalla natura giuridica degli obblighi suddetti discende infatti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare quindi luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento[2].
D’altronde, non poteva essere accettabile che diritti classificati come inviolabili ricevessero una tutela difforme a seconda che i loro titolari si ponessero o meno all’interno di un contesto familiare.
Tale tipologia di danno ruota intorno a elementi rappresentati dalla compromissione di valori fondamentali dell’individuo e si connota talvolta, come pregiudizio del minore derivante da privazione della figura genitoriale, consistendo, esso, nel mancato svolgimento della funzione genitoriale, le cui conseguenze si riverberano sulla vita affettiva, sociale e, eventualmente, professionale del minore[3];
altre volte, invece, come grave lesione di diritti di rango costituzionale connessi proprio allo status[4] familiare e altre volte, infine, come violazione di regole proprie di ogni unione affettiva caratterizzata da stabilità e serietà[5], c.d. danno endo coniugale.
Con tale ultima espressione ci si riferisce proprio all’illecito subito dal coniuge per la violazione di diritti di rilevanza costituzionale o di beni che, comunque, trovano un fondamento costituzionale, oltre ai casi penalmente rilevanti.
A titolo esemplificativo, in quest’ultima categoria di danno risarcibile fra coniugi rientrano:
- i comportamenti violenti, discriminatori o sleali lesivi dell’integrità psicofisica della persona, come, ad esempio, il tenere all’oscuro il coniuge circa la propria impotenza o lo stato di gravidanza causato da altri;
- ovvero i casi di mancata assistenza materiale (es. abbandono in stato di bisogno del coniuge);
- o, ancora, ed è il caso forse più frequente, quella pluralità di comportamenti lesivi della dignità e dell’onore o della reputazione di un coniuge. A titolo di esempio, si pensi alla violazione dell’obbligo di fedeltà quando questo sia così grave da offendere la dignità e la rispettabilità del consorte.
L’infedeltà e la sua risarcibilità
Ebbene, proprio con riferimento all’ultimo punto esaminato bisogna comprendere come e in quali casi può essere risarcito il danno da infedeltà.
In tutti questi contesti si crea una crisi dell’unione di coppia (spesso dando vita a lunghi e sofferenti cause di separazione e divorzio) tale da generare forti situazioni di aspro contrasto con riguardo a emozioni, interessi economici e affetti, sentimenti e risentimenti; tali situazioni, saranno ben più aspre e drammatiche, laddove si siano verificati uno o più tradimenti del proprio partner.
In questi casi, nelle corti giudiziarie, oltre che sostenere una richiesta di addebito in sede di separazione personale dei coniugi, sarà possibile avanzare una richiesta risarcitoria laddove, determinati comportamenti del coniuge fedifrago, abbiano inciso sui beni essenziali della vita, essi producono un danno ingiusto.
Come detto, per tutti questi conflitti nati da illeciti all’interno della famiglia, tra i coniugi, il giudizio di separazione offre l’istituto dell’addebito che, però, spesso non risulta del tutto efficiente.
Questo perché la giurisprudenza è assai cauta nel pronunciare l’addebito a carico di uno dei coniugi, ritenendo imprescindibile non solo la prova di un torto attraverso un’attenta ponderazione dei doveri che derivano dal matrimonio, ma richiedendo, altresì, la prova dell’efficienza causale di questa violazione rispetto all’intollerabilità della convivenza, talvolta difficile da dimostrare.
In tali casi, di conseguenza, il rimedio offerto dall’azione risarcitoria rappresenta una valida alternativa possibile per “punire” l’altro coniuge e offrire un ristoro e un sollievo ai patimenti subiti.
Con riferimento all’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, nello specifico, la giurisprudenza ha consentito di riconoscere un danno risarcibile nel caso di una condotta infedele disonorevole, cioè posta in essere con “modalità tali da determinare, con riferimento all’evidenza sociale della condotta fedifraga e ai rapporti manifestati verso il coniuge tradito, la lesione del bene dell’onore, a causa del discredito sociale della condotta”[6].
Tuttavia, il riconoscimento della risarcibilità del danno provoca una serie di effetti processuali molto onerosi per l’attore.
Non a caso, dal punto di vista squisitamente processuale è necessario dimostrare la diffusione della conoscenza del tradimento, da ricercare, ovviamente, anche in soggetti esterni al nucleo familiare attraverso i mezzi di prova ritenuti più opportuni (si pensi, ad esempio, alla testimonianza di persone vicine ai coniugi).
Infatti, il giudice dovrà sempre verificare, ai sensi dell’art. 2043 c.c., la colpevolezza dell’autore dell’illecito (sia essa sotto forma di colpa o di dolo), la concreta esistenza del danno, l’obiettiva gravità della condotta e l’assolvimento degli oneri probatori (nesso causale) da parte di chi richiede il risarcimento.
Recentemente, la Corte di Cassazione[7], proprio in merito al particolare onere richiesto in relazione al danno endofamiliare nel rapporto di coniugio, si è occupato di un caso in cui, a seguito della violazione da parte della moglie dei doveri coniugali e dopo l’allontanamento di essa dalla casa familiare, il marito cadeva in un forte stato depressivo.
La vicenda nasceva dalla sentenza della Corte d’appello di Salerno nella quale:
- veniva dichiarata la separazione personale dei coniugi con addebito al coniuge che aveva posto in essere il tradimento poiché tale comportamento risultava essere stato “causa determinante della intollerabilità della convivenza matrimoniale”;
- veniva confermata la sentenza impugnata nella parte in cui era stata rigettato la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti della moglie per non avere, il marito, provato il danno ingiusto e il nesso causale con una condotta illecita della moglie, non riscontrabile nella sola infedeltà coniugale, essendo la dedotta depressione di cui egli soffriva riferibile alla separazione in sé, piuttosto che al tradimento della moglie.
Il marito, visto il rigetto della domanda procedeva a proporre ricorso in Cassazione, ma la Corte del gravame rigettava il ricorso, ritenendolo fondato su un motivo inammissibile.
Ciò in quanto gli Ermellini hanno ritenuto che tale motivo di ricorso fosse teso a sollecitare una impropria rivisitazione di un apprezzamento di fatto operato dai giudici di merito, il cui esito, per applicazione di un principio di diritto acquisito nella giurisprudenza di legittimità, è incensurabile.
Secondo la Corte, invero, la natura giuridica del dovere di fedeltà, derivante dal matrimonio, implica che la sua violazione può essere sanzionata sia con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, ma anche attraverso il risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva.
Tuttavia, la Corte precisa che per aversi il risarcimento la condizione di afflizione indotta nel coniuge deve superare la soglia della tollerabilità e si deve tradurre, “per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità personale”[8] e che, come detto, “La sussistenza di tale condizione in concreto costituisce oggetto di accertamenti e valutazioni di fatto riservate al giudice di merito”.
Nella specie veniva escluso il risarcimento del danno da illecito endofamiliare, quale conseguenza della violazione da parte della moglie dei doveri coniugali, atteso che mancava la prova del nesso tra il tradimento subito e lo stato depressivo in cui l’uomo era caduto.
Nesso causale: la prova del danno endoconiugale
Come anticipato, in caso di episodi di infedeltà, può accadere che, per le modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, essi diano luogo ad una lesione della salute del coniuge (ad esempio, come nel caso della sentenza poc’anzi menzionata, uno stato depressivo).
In tali ipotesi, accanto ai mezzi istruttori tradizionali, quali le prove testimoniali e documentali, ovvero, in taluni casi, lo stesso ricorso alle presunzioni, anche il contributo della psicologia e della psichiatria forense può rivestire indubbia importanza sotto il profilo della prova e della valutazione del pregiudizio non patrimoniale.
Tali consulenti, infatti, consentono di appurare, attraverso approfondite indagini diagnostiche, in che misura il comportamento ingiusto altrui abbia prodotto, oltre che una eventuale patologia psicologica-psichiatrica, un sostanziale sconvolgimento delle abitudini e delle attività realizzatrici dell’individuo e, magari, del restante nucleo familiare.
Ai fini della prova di tale nesso di causalità, si sottolinea che, un professionista specializzato in materie psicologiche-psichiatriche[9], a differenza di una figura professionale quale un medico legale, il quale è competente solo nell’esecuzione di accertamenti di carattere clinico medico volti a valutare la presenza di un danno biologico, può diagnosticare non solo la sussistenza di uno stato patologico psichico nel paziente, ma anche una presunta sofferenza nell’ambito del danno “dinamico relazionale” o “esistenziale”.
Tali consulenti, quindi, oltre che rappresentare per un giudice uno strumento valido per comprendere il reale danno subito da un coniuge a seguito del tradimento, possono altresì esserlo per valutare, identificare e quantificare con rigore scientifico anche il danno c.d. endoconiugale.
[1] Infatti, “il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile”, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare e dovendo dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti in ragione dei rapporti che si innervano nel tessuto familiare riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto, dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia sul piano da essi disciplinato sia sul diverso, ma parallelo terreno della responsabilità aquiliana” (Cass. Civ., sez. I, 10/05/2005, n. 9801 e, da ultimo, Cass. Civ., sez. I, 09/03/2020, n. 6518, entrambe in www.dejure.it).
[2] Così Trib. Reggio Emilia, sez. II, 24/06/2020, n.558, in www.dejure.it, La stessa Corte precisa, altresì, che “il risarcimento di tale danno può essere effettuato solo nel caso in cui venga violato un diritto fondamentale di rango costituzionale, quale la dignità della persona, e la violazione sia di particolare gravità, essendo posta in essere con modalità insultante, ingiuriosa ed offensiva”.
[3] Infatti, La Cassazione, ormai è concorde (ex multis si cita Cass. Civ., sez. III, 10/06/2020, n. 11097, in www.dejure.it) ritenere che “il diritto del figlio ad essere educato e mantenuto (artt. 147 e 148 c.c.) è eziologicamente connesso esclusivamente alla procreazione. Alla formula costituita dall’endiade: “diritto ad essere educato e mantenuto” non può attribuirsi un valore soltanto descrittivo. Essa contiene e presuppone il più ampio ed immanente diritto, desumibile dalla lettura coordinata degli artt. 2 e 30 Cost., di condividere fin dalla nascita con il proprio genitore la relazione filiale, sia nella sfera intima ed affettiva, di primario rilievo nella costituzione e sviluppo dell’equilibrio psicofisico di ogni persona, sia nella sfera sociale, mediante la condivisione ed il riconoscimento esterno dello status conseguente alla procreazione. Entrambi i profili integrano il nucleo costitutivo originario dell’identità personale e relazionale dell’individuo e la comunità familiare costituisce la prima formazione sociale che un minore riconosce come proprio riferimento affettivo e protettivo. Nell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonte integratrice dello statuto dei diritti fondamentali di rango costituzionale delle persone, è specificamente contenuto, al comma 3, il diritto per il bambino alla protezione e alle cure necessarie al suo benessere nonché quello d’intrattenere relazioni e contatti diretti con i propri genitori. La privazione di entrambi gli elementi fondanti il nucleo dei doveri di solidarietà del rapporto di filiazione costituisce una grave violazione dell’obbligo costituzionale (nel senso rafforzato dall’integrazione con la fonte costituzionale costituita dal diritto dell’Unione Europea e dalla Convenzione di New York del 20.11.89 ratificata con L. n. 176 del 1991, sui diritti del fanciullo) sopra delineato. Si determina, pertanto, un automatismo tra procreazione e responsabilità genitoriale, declinata secondo gli obblighi specificati negli artt. 147 e 148 c.c., che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore”. La Corte sottolinea anche che l’illecito endofamiliare di protratto abbandono della prole da parte del genitore è una forma di illecito in cui si produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico-esistenziale, ovvero che “investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa”. Così, anche Cass. Civ., sez. I, 22 novembre 2013 n. 26205, in www.dejure.it, qualifica tale danno come violazione di quel diritto alla relazione filiale da cui discende “il nucleo costitutivo originario dell’identità personale e relazionale dell’individuo” e il cui danno consiste “nelle ripercussioni personali e sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stati desiderati ed accolti come figli“. La persona che subisce la violazione di tale diritto entra in una “condizione di sofferenza personale e morale” che imprime “un tracciato di disagio di sofferenza nello sviluppo psicofisico“.
[4] Un caso pittoresco riferito a al danno endo familiare da status è stato trattato, ade esempio, da Trib. Torre Annunziata, sez. I, 24/10/2016, n.2643, in www.dejure.it, nel quale, si legge in sentenza che “il coniuge si mostrava in pubblico in compagnia del suo amante, che incontrava anche sotto casa per poi salire sulla sua auto, che presentava come suo fidanzato; inoltre aveva affermato a terzi di essere divorziata, sul proprio profilo Facebook si attribuiva lo stato di “separata” prima dell’instaurazione del procedimento de quo e, con terzi, nel riferirsi al marito, lo chiamava “il verme” e affermava che aveva tendenze omosessuali, da questi negate”. Tutti questi elementi, in modo condivisibile, sono stati sufficienti, nel caso de quo, a ritenere lesa la dignità e la reputazione del coniuge, attesa la oggettiva lesività della sfera psico-fisica, per la sofferenza morale e psicologica subita dal medesimo, con conseguente diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c..
[5] Infatti, con specifico riferimento al danno non patrimoniale da adulterio, anche recentissimamente la Suprema Corte ne ha sancito la risarcibilità, alla condizione, però, dell’avvenuta lesione di un diritto inviolabile della persona, costituzionalmente protetto, e sempre purché la lesione superi la soglia della tollerabilità (ex multis, Cass. Civ., sez. III, 07/03/2019, n.6598, in www.dejure.it)
[6] “Trattato sulla responsabilità civile” a cura di Paolo Cendon, nel II volume, di Gabriele Positano, Capitolo CXI: “Responsabilità civile e endofamiliare: profili generali (rapporti I e IV libro c.c., 143-147 c.c, 20, 30 Cost., mutamenti storici-sociologici, responsabilità penale e civile” (pagg. 2263-2294), Utet, Milanofiori Assago, Collana: Omnia. Trattati giuridici, 2020.
[7] Cass. Civ., sez. VI, 19/11/2020, n.26383, in www.dejure.it
[8] Si veda anche Cass. Civ. n. 6598/2019.
[9] In tal senso Cass. Civ., sez. III, 10/06/2020, n.11097, in www.dejure.it, la quale non ha ritenuto idoneo ai fini della CTU un medico legale che, per il caso concreto, ha agito autonomamente senza farsi coadiuvare da uno specialista in psichiatra.