L’avvento della rivoluzione tecnologica, soprattutto nel settore delle comunicazioni, ha aperto nuove prospettive in sede processuale, connesse alla formazione di innovativi elementi probatori con le conseguenti perplessità che ad essi necessariamente si accompagnano: è possibile ammettere in giudizio elementi probatori quali e-mail, sms ovvero stampe di schermate di dispositivi elettronici come smartphone, tablet o pc? Ed in caso di risposta affermativa con quali modalità? Vi sono differenze fra il processo civile e quello penale?
Proviamo, in questa sede, a fare un po’ di ordine sul tema, evidenziando una rassegna dei più recenti indirizzi giurisprudenziali susseguitisi negli ultimi anni, contribuendo a tracciare un percorso idoneo a delineare l’evoluzione di pensiero su un tema di grande attualità.
La prova tra processo civile e penale
Il processo civile si caratterizza, in ciò differenziandosi dal processo penale, per il cd. principio della tipicità delle prove, in virtù del quale le uniche prove ammesse risultano essere quelle orali e documentali espressamente indicate nel titolo II del Libro VI dal codice civile; nell’iter giudiziario penale vige invece una maggiore apertura a differenti tipologie di prova, come evidenziato dall’articolo 234 c.p.p.[1]
Per tali motivazioni se da un lato, in sede penale, è risultata più agevole la strada per l’ammissione in giudizio di messaggi, photo, video e ed ogni altra forma di riproduzione diffusasi nell’era dell’informatica, dall’altro, il consolidato principio della tipicità in sede civile, rende più ardua un’apertura in tal senso, anche se negli ultimi anni si registra una graduale mitigazione che ha consentito la possibilità di ammettere ulteriori e differenti elementi di prova.
Il processo civile
Per ciò che attiene all’introduzione, in sede civile, di tali innovativi strumenti di prova, apripista giurisprudenziale può essere considerata la Seconda Sezione Civile – Lavoro del Tribunale di Catania che, con un’ordinanza emessa in data 27 giugno 2017, ha sancito la legittimità del recesso intimato dal datore di lavoro al proprio dipendente a mezzo whatsapp, se è assolto l’unico onere prescritto a pena di inefficacia, ossia la forma scritta.[2]
Plurime appaiono però le perplessità in ordine alle modalità di acquisizione dei messaggi elettronici, in primis per ciò che attiene alla disciplina dell’introduzione della prova in giudizio, quindi altresì per eventuali sovrapposizioni con differenti ambiti quali, a titolo esemplificativo, la tutela della privacy.
Con specifico riferimento alla prima delle due tematiche sopra prospettate, la Corte d’Appello di Trento – Sezione civile, con la sentenza nr. 249 del 2015, ha accolto la testimonianza della figlia di due coniugi, avente ad oggetto il contenuto di taluni “short message service”, o più comunemente “sms” memorizzati nel cellulare del padre. Il giudice di secondo grado, nell’affermare che “la deposizione in questione, non smentita da elementi di segno contrario, costituisce, di fatto, prova di una confessione stragiudiziale” ha, in sostanza, messo in secondo piano il vaglio dell’affidabilità della prova, in favore di un’apertura ad una più “agile” introduzione delle prove nel processo. In tal modo è stata affermata la non necessità, ai fini della validità probatoria, dell’acquisizione del supporto informatico contente i file di testo od audio che si intendono produrre in giudizio.
Assunto, quello appena esposto, ripreso ed ulteriormente rafforzato qualche anno dopo, allorquando la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza nr. 5141 del 2019 è giunta ad applicare il medesimo principio direttamente al testo degli sms e non alla sola esposizione orale del loro contenuto.
Nel caso di specie, il giudice di legittimità, pronunciandosi su una vicenda inerente ad una pretesa creditoria, fra i cui elementi probatori erano stati addotti degli sms, ha confermato la corretta applicazione, da parte del giudice del Tribunale di Macerata, del disposto normativo di cui all’art. 2712 c.c.[3] nel cui alveo è stata ricondotta la messaggistica a mezzo cellulare, assimilata quindi alle “riproduzioni informatiche prive di firma”.
Ecco quindi, che trova piena applicazione direttamente agli sms il principio di diritto civile in tema di efficacia probatoria, secondo cui essi possono provare fatti e cose rappresentate “se colui contro il quale sono prodotti non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
Sussiste, tuttavia, una sostanziale differenza fra la casistica degli sms e quella delle scritture private,[4] circa la regola da applicare al disconoscimento di tale conformità: di fatti, se nel secondo caso, la scrittura disconosciuta non è utilizzabile qualora non ne venga richiesta la verificazione ovvero se, richiesta, non si concluda con esito positivo, nel caso del disconoscimento della conformità degli sms (ad esempio alla trascrizione del loco contenuto) invece, “non può escludersi che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova comprese le presunzioni”.[5]
Sul tema del disconoscimento la medesima Corte si era già espressa con la sentenza nr. 3122 del 2015 affermando che “il disconoscimento deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta”. Nel caso di specie il giudice di legittimità, in occasione di una controversia in materia di licenziamento da rapporti di lavoro, non aveva ritenuto specifico e compiuto il disconoscimento della conformità di un DVD, contenente immagini di videosorveglianza, all’originale unicamente per ciò che atteneva alla data indicata sul documento, senza alcun cenno invece alla non corrispondenza del contenuto delle immagini alla realtà fattuale, contestazione questa, ritenuta eccessivamente generica.
Uno dei più recenti indirizzi forniti sul tema dai giudici del Palazzaccio è identificabile nell’ordinanza nr. 19155 del 17 luglio 2019. La controversia de qua concerneva, nello specifico, un decreto ingiuntivo scaturito dal mancato pagamento del contributo per le rette dell’asilo nido da parte del padre, nonostante dal tenore di taluni sms inviati alla madre fosse emerso con chiarezza non solo l’adesione del primo all’iscrizione, ma altresì l’accollo di metà retta.
Anche in tale circostanza, così come visto in precedenza, la contestazione, eccessivamente generica, oltre che tardiva, non è stata adeguatamente argomentata in maniera esplicita e circostanziata e non ha visto “l’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta”.
Nel medesimo solco tracciato in tema di sms, si insinua la sentenza nr. 11606 del 2018 la quale, in via analogica, provvede a ricondurre i messaggi di posta elettronica (e-mail), al genus dei documenti elettronici contenenti la rappresentazione informativa di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti, i quali, ancorché privi di firma, rientrano a pieno titolo fra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche ai sensi del già citato art. 2712 c.c., con le medesime conseguenze, quindi, già esplicate in relazione agli sms.
Per ciò che attiene invece al secondo dei due temi di dibattito sopra menzionati, ovvero agli eventuali profili di incongruenza fra normativa sulla privacy da un lato, ed accoglimento delle prove in giudizio dall’altro, risolutoria è apparsa l’ordinanza emessa dal Tribunale di Torino in data 8 maggio 2013 che, nel silenzio della normativa processuale civile, rimette all’organo giudicante la possibilità di ammettere, o meno, la produzione nel giudizio di elementi probatori quali e-mail ovvero messaggi, ancorché acquisiti violando la normativa in tema di tutela della privacy.[6]
Il processo penale
Per quanto concerne il processo penale, a fronte della citata maggiore apertura alle fonti di prova “di ultima generazione” è possibile riscontrare, in ragione del maggior disvalore sociale delle violazioni commesse nonché della differente rilevanza dei beni giuridici tutelati in tale ambito, un maggior rigore in tema di modalità di acquisizione di ciascuna fonte di prova.
Risolutoria, in tale ottica, è apparsa la sentenza nr. 49016 del 19 giugno 2017, pronunciata dalla V sezione penale della Suprema Corte che, ha ritenuto “ineccepibile” la scelta del giudice di secondo grado di non acquisire la trascrizione delle conversazioni svoltesi tramite registrazione fonetica su whatsapp non tanto per la natura dell’elemento probatorio (attesa l’espressa previsione, ai sensi dell’articolo 234, comma 1 c.p.p., di poter acquisire “documenti che rappresentato fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografi, la fonografia o qualsiasi altro mezzo”),[7] quanto piuttosto per la mancata acquisizione del supporto contenente la registrazione eseguita tramite la suddetta applicazione di comunicazione, attesa la necessità di “controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato”.
In tale ottica acquista quindi rilievo una fondamentale distinzione fra contenuto (l’informazione digitale) e contenitore (il supporto materiale), con quest’ultimo che, al pari di qualsivoglia prova fisica tradizionale necessita di adeguata protezione, nonché di una serie di procedure di acquisizione (approfondite nell’ambito della digital forensics) idonee a garantirne caratteri primari come quelli della non alterabilità e dell’integrità, in un settore, quello degli elementi di prova digitali, che ben si presta a manipolazioni o ad altre forme di alterazione.
In controtendenza con la rigidità del precedente indirizzo, appare invece quanto stabilito, dalla medesima Corte, con la recentissima sentenza n. 1822 del 17 gennaio 2020, in tema di “piena utilizzabilità dei testi contenuti nei messaggi ai fini della decisione, ove ottenuti mediante riproduzione fotografica a cura degli inquirenti”.
Nel caso di specie l’appellante, la cui responsabilità penale in materia di sostanze stupefacenti era stata provata in ragione, fra l’altro, anche di “messaggi contenuti nei telefoni cellulari” inoltrati mediante l’applicativo telegram, si è rivolto alla Suprema Corte, invocando la inutilizzabilità, definita patologica, delle comunicazioni telematiche acquisite tramite la riproduzione fotografica della schermata del cellulare.
La tesi della difesa, per ciò che attiene tale specifico motivo di ricorso, poggia sull’assunto in base a cui la polizia giudiziaria operante avrebbe dovuto procedere all’acquisizione degli elementi probatori tramite il sequestro di cui all’art. 354 c.p.p.,[8] e non, come invece avvenuto, mediante la riproduzione fotografica delle schermate contenenti il testo dei messaggi archiviati sul cellulare, modus operandi quest’ultimo, ritenuto contra legem, poiché commesso in violazione, altresì del principio costituzionalmente garantito, della segretezza della corrispondenza.
Non del medesimo parere è stato l’organo giudicante che, facendo seguito ad un indirizzo già consolidato, ha ricondotto i dati informatici acquisiti dalla memoria del cellulare dell’indagato, nel novero dei documenti di cui all’articolo 234 c.p.p., delineando una netta linea di demarcazione fra il trattamento da riservare loro e quello, ben più stringente, cui invece devono soggiacere la disciplina delle intercettazioni telefoniche e quella della corrispondenza.
Di fatti, se da un lato la disciplina afferente all’attività tecnica, concerne un flusso comunicativo in pieno svolgimento, quindi dinamico, l’acquisizione ex post di dati archiviati nella memoria di un telefono, prescindendo per un attimo dalle modalità con cui la stessa avviene, afferisce invece ad un dato statico, già cristallizzato.
Né tantomeno appare fondata una violazione della segretezza della corrispondenza, allorquando si proceda all’utilizzo di informazioni contenute in messaggi whatsapp o telegram, ovvero in classici sms telefonici, atteso che la nozione di tale violazione, come sottolineato dalla stessa Corte con la sentenza n. 928 del 25 novembre 2015, “implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito” (principio questo che, anche se con taluni distinguo, risulterebbe applicabile altresì alla corrispondenza telematica).
Alla luce da un lato dell’esclusione della messaggistica telefonica dall’alveo della corrispondenza e, dall’altro, della riconducibilità della stessa alla documentazione ex art. 234 c.p.p., è possibile quindi ritenere non necessaria una metodologia di acquisizione, connotata dai caratteri della formalità tipici delle regole applicabili alla corrispondenza, essendo, di contro, sufficiente una qualsiasi modalità di acquisizione idonea alla raccolta del dato, ivi inclusa la riproduzione fotografica.
Conclusioni
La tematica dell’acquisizione delle prove “informatiche” nei giudizi civili e penali, alla luce delle decisioni giurisprudenziali che frequentemente si susseguono, evidenziando altresì cambi di rotta della stessa Cassazione negli indirizzi forniti, appare di rilevante attualità ed in costante fermento, evolvendosi a stretto giro, a ruota di un settore, quello delle ICT, che è destinato ad incidere sempre di più anche su ogni aspetto del diritto, non solo sostanziale ma anche processuale.
[1] “E’ consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo […]”.
[2] Consolidato è l’indirizzo della Corte di Cassazione in merito alla non necessità, per il datore di lavoro che intende licenziare il proprio dipendente, di “adoperare formule sacramentali”, essendo sufficiente la mera comunicazione “al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara” (sentenza nr. 17652 del 13 agosto 2007 della IV Sezione Lavoro della Corte di Cassazione).
[3] “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.
[4] Ai sensi dell’art. 215, comma 2, c.p.c.
[5] Sul punto utile appare il richiamo alla sentenza, della medesima Corte, nr. 11445 del 2001.
[6] In relazione all’utilizzabilità di tali elementi di prova infatti, necessario è il riferimento al Codice in materia di protezione dei dati personali, ex Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 che, al comma 6 dell’articolo 160 (Particolari accertamenti) enuncia: “La validità, l’efficacia e l’utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale”.
[7] In merito la Suprema Corte si era già espressa con le sentenze nr. 16.986 del 24 febbraio 2009 e nr. 6339 del 22 gennaio 2013.
[8] “Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone. Sequestro
Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curano che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell’intervento del pubblico ministero.
Se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose. In relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici, gli ufficiali della polizia giudiziaria adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l’alterazione e l’accesso e provvedono, ove possibile, alla loro immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità. Se del caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti.
Se ricorrono i presupposti previsti dal comma 2, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sulle persone diversi dalla ispezione personale”.