1. La vicenda
La DeA Partecipazione s.p.a. ricorre, avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano (Corte d’appello di Milano, sez. I civile, n. 636 del 2016), la quale ha respinto l’impugnazione della decisione del Tribunale della stessa città (Tribunale di Milano, sentenza n.15833 del 2011), che ha dichiarato nullo l’accordo concluso in data 1° agosto 2007, come modificato il 23 giugno 2008, tra la medesima e la Sopaf s.p.a., nell’ambito della organizzazione di una “cordata” per l’acquisizione di Banca Net s.p.a., poi Banca Network Investimenti s.p.a., in quanto elusivo del divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 cod. civ.,
L’accordo concedeva alla DeA s.p.a. l’opzione put con riguardo alla partecipazione sociale rappresentativa del 14,99% del capitale sociale della banca, da esercitare entro il 31 dicembre 2018 dietro corrispettivo del prezzo di acquisto delle azioni, oltre agli interessi e, dopo la modifica avvenuta nel 2008, anche degli eventuali ulteriori versamenti eseguiti sul patrimonio netto.
La Corte territoriale, in particolare, si trovava a decidere sulla domanda di condanna all’adempimento dell’opzione da parte della DeA s.p.a., a fronte della quale la società concedente, Sopaf s.p.a., aveva svolto eccezione di nullità per contrasto dell’opzione put con l’art. 2265 cod. civ. richiedendo poi, in subordine, la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cod. civ.
Il Tribunale di Milano, facendo leva sui principi cardini posti alla base del divieto di patto leonino, ex. art. 2265 cod. civ., condannava la DeA s.p.a., ravvisando nell’accordo l’intento di trasferire interamente il rischio d’impresa sulla Sopaf s.p.a., escludendo in maniera assoluta e costante l’altra parte da ogni rischio tipico insito nella partecipazione ad una società, potendo la DeA s.p.a. votare in assemblea ogni aumento del capitale e versare qualsiasi importo senza rischio di perdite, essendo il proprio investimento destinato ad essere interamente rimborsato da Sopaf s.p.a.
Sommario:
3.1. Cenni alle teorie sulla causa ed autonomia contrattuale nei patti parasociali
Successivamente, la parte ricorrente – DeA s.p.a. – aveva adito la Corte di Cassazione eccependo non solo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2265 cod. civ. alle società per azioni, ma anche l’inapplicabilità dello stesso ai patti parasociali, in quanto il mancato coinvolgimento della società e la natura meramente esterna ed obbligatoria del patto, escludono di poterlo colpire con la nullità in forza della norma organizzativa in questione.
Inoltre, si deduceva la falsa applicazione degli artt. 1322, 1353,1355, 1362 e 2265 cod.civ., in quanto la Corte territoriale non solo non aveva compiuto una valutazione sulla meritevolezza dell’interesse perseguito dalle parti attraverso l’opzione put, ma aveva anche ravvisato che tale accordo inter partes aveva come effetto l’esclusione della DeA s.p.a. da ogni partecipazione alle perdite, con conseguente disinteressamento di quest’ultima alla valorizzazione della partecipazione sociale.
La questione controversa, pertanto, attiene alla validità e all’efficacia dell’accordo attraverso cui uno dei due soci si obbliga a liberare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’opzione put, entro un termine dato e l’altro socio si obbliga ad acquistare la partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, oltre agli interessi convenzionali e oltre ogni eventuale ulteriore versamento a patrimonio netto che la Dea s.p.a. avesse effettuato in favore di Banca Network Investimenti s.p.a.
2. I patti parasociali
Al fine di una corretta disamina della vicenda occorre evidenziare come il mutato contesto socio-economico, soprattutto nell’ultimo decennio, abbia inesorabilmente sottolineato l’esigenza di approfondire, sia sul piano dottrinale che giurisprudenziale, la materia delle operazioni di investimento in modalità associativa.
Il legislatore, infatti, nel disciplinare la nozione di società, ed in particolare del contratto di società ex art. 2247 cod. civ. sì è limitato ad enunciare, quali requisiti fondamentali, esclusivamente la presenza di conferimenti da parte dei soci di beni o servizi, l’esercizio comune di un’attività economica ed, infine, la presenza dello scopo lucrativo o mutualistico delle stesse, rimandando alle parti la possibilità di determinare, non solo la ripartizione degli utili e delle perdite, ma anche le regole comportamentali che gli stessi dovranno obbligatoriamente tenere verso la società [1].
Il fenomeno dei patti parasociali – regolato dagli artt. 2341 bis e ter del cod. civ. – può, senza ombra di dubbi, dirsi particolarmente diffuso dal momento che anche le realtà societarie di più piccole dimensioni ne sfruttano l’utilità predisponendoli con i contenuti più vari.
Anche la legislazione speciale li conosce e li disciplina a cominciare dalla normativa antitrust, a quella contenuta nel T.U.B., alle disposizioni sul bilancio consolidato ed infine agli artt. 122 e 123 del T.U.F., i quali regolano l’istituto in modo difforme in relazione al tipo societario cui detti patti afferiscono, ovvero a seconda che si tratti di società quotate, non quotate, diffuse oppure chiuse.
Può accadere che i patti parasociali assumano contenuti in conflitto con il divieto di patto leonino ex art. 2265 cod. civ.; istituto, quest’ultimo, che trova la sua ratio legis nell’intento di evitare ad uno o più soci di prevaricare gli altri escludendoli da ogni partecipazione agli utili e alla perdite, minando in tal modo la genuinità della causa societatis. Ed è di tali profili di compatibilità dell’accordo parasociale dianzi descritto con l’art. 2265 cod. civ. che si è occupata la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza che si annota.
3. Il patto leonino
La Corte di Cassazione, in occasione del primo motivo addotto dalla ricorrente, finalizzato a dedurre la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2265 cod. civ. in quanto norma eccezionale e non applicabile alle società per azioni, riafferma l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, finalizzato a considerare la norma in commento, seppur formulata in tema di società semplice, come “transtipica”, dato che si integra con la nozione e con le condizioni essenziali del contratto di società delineato dall’art. 2247 cod. civ. [2]
Detto altrimenti, tale divieto si presenta legato a doppio filo con la compagine sociale, giacché proprio per la sua precipua funzione di escludere sostanzialmente uno o più soci dalla ripartizione delle perdite e degli utili, li pone, di fatto, al di fuori del c.d. rischio d’impresa [3].
Tale limitazione alla partecipazione agli utili e alla sopportazione delle perdite – in ossequio all’interpretazione letterale offerta dalla dottrina [4] e dalla giurisprudenza [5] – deve avere ad oggetto una situazione assoluta e costante; l’effetto preclusivo si attuerà solo in relazione ad una completa esclusione del socio, inteso quale “trait d’union” degli obblighi e dei diritti delineati dal contratto sociale, “da ogni” partecipazione agli utili o alle perdite [6].
Pertanto, ben potrebbero trovare ragion d’esistere all’interno della compagine societaria patti aventi ad oggetto una partecipazione condizionata del soggetto, ovvero finalizzati a non prevedere una completa esclusione dall’assunzione dei rischi e dei vantaggi derivanti dal contratto sociale, ma semplicemente volti a realizzare una loro diversa modulazione, non sussistendo alcun obbligo di rispettare il principio di proporzionalità rispetto ai conferimenti effettuati.
Sul piano sanzionatorio, va innanzitutto affermato come sicuro il dato che l’inosservanza del divieto importa la nullità del patto e non la semplice annullabilità; la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata ex officio del giudice ex art. 1421 cod. civ.
La questione, come affrontata anche da autorevole dottrina [7], attiene alla possibilità di comminare tale effetto invalidante non solo al patto leonino in sé, ma anche all’intero contratto sociale; infatti, a fronte di un primo orientamento dottrinale [8] che afferma, in virtù del brocardo latino “vitiatur sed non vitiat”, la nullità del solo patto leonino, altri autori, ritengono che laddove l’accordo derogatorio ex art. 2265 cod. civ. risulti essenziale per la partecipazione del socio all’interno della realtà societaria, la nullità della clausola leonina si riverberebbe automaticamente sia sulla partecipazione stessa del socio [9] che, seguendo ancora altri autori [10], sul contratto sociale qualora la suddivisione dei ricavi e delle perdite, così come pattuita nella clausola leonina, sia stata l’unica, e sola, ragione concreta per la costituzione della società.
Se non vi è dubbio, sul piano funzionale, che il patto parasociale, pur formalmente estraneo al contratto di società, sia in realtà indissolubilmente collegato ad esso nel realizzare un risultato economico unitario, si potrebbe sostenere, come fatto anche da altro orientamento ermeneutico [11], che il patto rappresenti addirittura una sorta di suo presupposto, ovvero l’elemento fondante senza il quale il soggetto non avrebbe mai stipulato il contratto.
A prescindere dalla collocazione endo/esosocietaria della clausola leonina, ciò che viene in risalto è la logica differenziazione degli effetti che le due teorie propongono.
Infatti, secondo la prima impostazione la nullità del solo patto leonino, e non dell’intero contratto sociale, comporterebbe l’applicazione dei criteri statuali stabiliti dagli stessi soci o, in mancanza, di quelli codicistici finalizzati alla ripartizione degli utili e delle perdite, ovvero la diretta proporzionalità della quota di capitale sociale da ciascuno posseduta.
Ex adverso, la tesi più estrema, afferma che la presenza della clausola leonina non soltanto comporti la nullità della partecipazione del socio ma anche, qualora risultasse fondamentale in base all’art. 1420 cod. civ., dell’intero contratto, con tutte le relative complicazioni che ciò comporterebbe in relazione ai debiti e crediti a seconda del tipo di società in cui si verte, s.p.a, s.r.l, etc.
La pronuncia oggetto delle presenti note ha affermato che il criterio selettivo, per entrambe le tesi sin qui esposte, debba obbligatoriamente ricavarsi attraverso l’analisi della causa negoziale del patto.
Dunque, ciò che deve essere valutato ed accertato, non è solo la semplice sussistenza del carattere “assoluto” e “costante” dell’esclusione dai ricavi e dalle perdite, ma anche se da tale pattuizione acquisti rilievo reale verso l’ente collettivo.
Detto altrimenti: non potrà verificarsi la fattispecie dell’art. 2265 cod. civ. nel caso di semplici accordi negoziali atti al trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorché non comportino, da una parte, un’alterazione della struttura e del funzionamento del contratto sociale e, dall’altra, un mutamento concreto e radicale della posizione del socio all’interno della compagine societaria.
3.1. Cenni alle teorie sulla causa ed autonomia contrattuale nei patti parasociali
Se non vi è dubbio che la causa costituisca elemento essenziale di ogni contratto tipico e atipico, in quanto ogni spostamento patrimoniale deve obbligatoriamente essere sorretto da una valida ed incontrovertibile giustificazione causale [12], a ben vedere, però, il nostro codice civile non fornisce alcune definizione della causa del contratto.
Tale vuoto normativo ha dato la stura alla formazione di tre teorie atte a delineare, nel miglior modo possibile, il concetto di causa del contratto.
Lungi dal porre un excursus ermeneutico fine a se stesso e poco attinente alla tematica che ci si propone di affrontare, nel presente paragrafo si cercherà di delineare, brevemente, l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale che ha portato all’interpretazione, oggi nettamente prevalente, della teoria della causa in concreto; esplicazione quest’ultima che costituisce la cartina di tornasole su cui la giurisprudenza fonda la valutazione di liceità e meritevolezza dei patti parasociali [13].
Premesso, dunque, che la causa è l’interesse economico-individuale concretamente perseguito dalle parti, indubbiamente l’uso di uno schema tipico non garantisce automaticamente la rilevanza dell’interesse perseguito, ma richiede di volta in volta una valutazione concreta.
Tali considerazioni però, proprio in quanto si verte in tema di patti parasociali, espressioni quest’ultime dell’autonomia contrattuale, devono essere combinate ed integrate con lo schema delineato dall’art. 1322 cod. civ., norma che, non solo riconosce ai privati il potere di autoregolamentare i propri interessi personali e patrimoniali attraverso lo schema contrattuale che ritengono più opportuno, tipico o atipico che sia, ma pone anche, quale unico limite a tale prerogativa, la meritevolezza degli interessi coinvolti.
La Corte di Cassazione, infatti, nell’apprezzare e nell’applicare la teoria della causalità in concreto in relazione all’art. 1322 cod. civ., ha evidenziato le differenze sia concettuali che concrete fra l’atipicità, soggetta al contratto di meritevolezza, e la causa del singolo e concreto contratto [14].
Anche i contratti tipici, pertanto, nonostante la meritevolezza astratta dello schema utilizzato, sono sottoposti alla verifica della causa effettivamente perseguita dalla parti. Con la conseguenza che anche il contratto tipico meritevole di tutela in astratto, può essere in concreto privo di causa, cioè di una funzione economico-individuale apprezzabile [15].
La sentenza de qua, ricalcando a tratti una precedente pronuncia in tema di patto parasociale finalizzato al risarcimento aziendale [16], afferma che, per quanto riguarda il giudizio di liceità e meritevolezza del patto, deve essere rilevato, da una parte l’interesse intimo che l’accordo mira a concludere attraverso l’applicazione delle linee guida fornite dalla teoria della causa in concreto, e dall’altra, la qualificazione di meritevolezza e liceità dello stesso nonché, qualora risultasse necessario, l’eventuale collegamento che può assumere con il contratto sociale.
Ciò che deve essere analizzato, rectius vagliato, è la posizione che il patto parasociale riveste in relazione al contratto sociale; infatti, qualora si ponesse quale unica causa della costituzione societaria, ben potrà configurarsi un regime a nullità totale [17] o, all’opposto di nullità virtuale [18], qualora il patto non costituisca la pietra angolare della vita societaria.
4. L’opzione put e il divieto di patto leonino
Con la sentenza in oggetto la Cassazione ha inquadrato la figura negoziale dell’opzione put ricostruendo la struttura dell’accordo e la funzione perseguita dal medesimo.
Si deve precisare, come fatto da autorevole dottrina [19], che nei mercati finanziari sono da tempo diffusi contratti a termine aventi come oggetto strumenti finanziari standardizzati collegati alla variazione delle quotazioni di determinati valori mobiliari ovvero a indici di borsa relativi agli stessi (futures e options) [20].
In particolare, il contratto di option si differenzia dal future essenzialmente perché una delle parti, verso pagamento di un corrispettivo, si riserva la facoltà di scegliere se realizzare o meno lo scambio.
Va tenuto presente che nel nostro ordinamento manca una definizione dei contratti di borsa, anche se la stessa risulta essere presupposta in talune norme quali gli artt. 1536 e 1551 del cod. civ. e l’art. 76 della l. fall.
La dottrina [21], prendendo atto di tali difficoltà, ha comunque avvertito che il tratto comune caratterizzante i contratti di borsa, rispetto agli analoghi modelli negoziali che restano soggetti alla disciplina comune, va ravvisato nel necessario collegamento fra tali contratti ed il mercato in cui essi sono normalmente stipulati. Si è così ritenuto di poter ricondurre alla categoria negoziale in esame i contratti stipulati con l’intervento di un intermediario ufficiale [22] ovvero quelli conclusi secondo i meccanismi predisposti per il mercato ufficiale dei titoli e dei valori od ancora quelli assoggettati, per volontà delle parti, alla disciplina giuridica propria della legislazione speciale e delle regole degli usi di borsa.
A questo indirizzo è, almeno in parte, estraneo quell’orientamento [23] che identificava la nozione di questi contratti con specifico riferimento alle esigenze connesse alla negoziazione dei titoli di credito di massa, quando effettuata in un particolare mercato, sia esso legalmente disciplinato a tal fine ovvero contraddistinto da un’analoga funzione economica.
Inoltre, altra caratteristica ascrivibile ai contratti di borsa, ritenuta essenziale [24], consiste nella considerazione che tali contratti sono sempre stipulati a termine e che, quindi, la loro esecuzione è sempre differita ad una scadenza predeterminata più o meno breve. Tale caratteristica dipende dalla stessa struttura del negozio, in quanto espressione dell’interesse ad un puntuale adempimento comune a tutti gli operatori e riconducibile alle esigenze economiche che si intendono soddisfare con la stipulazione di questi contratti [25].
Nel contratto di opzione, una delle parti, dietro pagamento di un corrispettivo, c.d. premio, acquista la facoltà di comprare (call) o vendere (put) un certo quantitativo di determinate attività finanziarie ad un prezzo prestabilito, c.d. prezzo di esercizio o strike price, entro una scadenza stabilita, c.d. opzione europea, o in qualsiasi momento entro una scadenza prestabilita, c.d. opzione americana [26].
L’individuazione della natura giuridica dei contratti a premio ha sempre prospettato notevoli difficoltà stante la loro natura essenzialmente convenzionale.
Elemento fondamentale e comune è, infatti, lo stato di soggezione in cui si trova il venditore del premio rispetto alla controparte, in quanto egli è vincolato ad attendere la decisione di quest’ultima e quindi a consegnare o meno i titoli negoziati ovvero a ritirarli pagandone il prezzo.
A tale soggezione corrisponde una posizione di potere del compratore del premio, il quale è libero, nel periodo che intercorre fra la conclusione del contratto e la risposta premi, di determinare la portata dell’accordo e, quindi, in sostanza di far venire ad esistenza le obbligazioni proprie del contratto di compravendita.
In relazione alla struttura negoziale, inoltre, risulta con sufficiente chiarezza che si è di fronte ad una fattispecie destinata a completarsi in momenti successi e distinti, in quanto il contratto di compravendita scaturisce da un precedente accordo fra le parti, avente come effetto quello di vincolare il venditore all’accordo originario sino al momento in cui la controparte non dichiara se e come lo stesso deve dispiegare la sua efficacia.
Questa constatazione consente di superare le diverse ricostruzioni prospettate dalla dottrina più o meno recente finalizzate a ricondurre tale fattispecie negoziale o nella sfera dei contratti condizionati o nella categoria delle obbligazioni alternative [27].
Scopo pratico di tali strumenti finanziari risulta essere sia la copertura dei rischi insiti nelle singole operazioni finanziare che vengono trasferiti all’altro contraente, sia il mantenimento di posizioni speculative effettuate in mercati non regolamentati. La negoziazione ed il collocamento dei contratti derivati, per la loro natura di strumenti finanziari, costituiscono un servizio d’investimento da cui derivano tutta una serie di doverose cautele relative, da un lato al trattamento prudenziale degli investitori e, dall’altro, al necessario rispetto delle norme in tema di correttezza e buona fede [28].
Infatti, nei rapporti commerciali e contrattuali di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., tali principi impongono che l’offerta di titoli di partecipazione avvenga con modalità che consentano al contraente-investitore di effettuare una corretta analisi dell’offerta e della convenienza dell’operazione [29], dovendo escludersi che l’intento speculativo normalmente perseguito nelle operazioni di borsa esima l’altro contraente da alcuno degli elementari doveri di correttezza, pena la propria responsabilità [30].
La fattispecie contrattuale esaminata nella sentenza che si annota si rivela, peraltro, più complessa ove si consideri che, specie qualora si entri nel perimetro delle società azionarie, il medesimo soggetto potrebbe essere titolare di diversi titoli ed avere il diritto put solo per alcuni di questi.
Nel caso di specie, ossia di opzione put a prezzo preconcordato, occorre ricostruire la causa in concreto del programma negoziale al fine di valutarne non solo l’esistenza, ma la stessa liceità e meritevolezza, ex art. 1322 cod. civ., all’interno del circuito contrattuale, pena – sempre laddove l’esclusione delle perdite sia strutturalmente assoluta e costante – l’integrazione del divieto ex art. 2265 cod. civ. .
Sennonché, a differenza dell’ordinamento francese ove simili clausole devono semplicemente considerarsi come non apposte consentendo di escluderne a priori l’idoneità ad inficiare la validità della partecipazione sociale, il tenore letterale dell’art. 2265 cod. civ, come giustamente osservato [31], non permette di giungere alla medesima soluzione rendendo, pertanto, doverosa la sua sostituzione con il modello legale corrispondente.
Nello specifico, in riferimento all’opzione put, qualora risultasse integrato il divieto sancito dall’art. 2265 cod. civ., ciò comporterebbe l’applicazione automatica del criterio di proporzionalità delle partecipazione agli utili ed al patrimonio netto risultante dalla liquidazione e la determinazione del prezzo di riscatto secondo le modalità e le misure previste dall’art. 2437-ter cod. civ. .
La ragion pratica del meccanismo contrattuale prescelto risiede esclusivamente nel finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica. Nel momento costitutivo della società o semplicemente quando si intende operare un potenziamento dell’attività d’impresa, il contributo ulteriore al capitale può divenire addirittura essenziale, se non, come si legge nella sentenza “condicio sine qua non del progetto imprenditoriale programmato”.
Prima di passare all’analisi della soluzione prospettata dai giudici della Suprema Corte è d’obbligo, in tale sede, soffermarsi sulla pronuncia di primo grado del Tribunale di Milano, sentenza n.15833 del 2011.
Infatti, il giudice di merito ha ritenuto di non aderire all’orientamento volto a restringere l’ambito di applicazione dell’art. 2265 cod. civ., ed ha affermato che non dovevano considerarsi accoglibili le argomentazioni della parte attrice, volte ad affermare la regolarità del patto parasociale con opzione put, in quanto si fondavano su quell’orientamento ermeneutico [32] che sottolineava la presenza, all’interno del nostro ordinamento, di varie ipotesi nelle quali si riconosce la completa liceità della scissione tra diritti amministrativi sociali e titolarità della partecipazione, nonché dei connessi rischi, quali il pegno, l’usufrutto e il sequestro giudiziario relativi ad azioni ex art. 2352 cod. civ. nonché quelle del riporto ex art. 1550 cod. civ.
Le ipotesi rappresentate che, secondo parte attrice, legittimavano l’opzione put, infatti, non potevano essere ricondotte, ad avviso del Tribunale, al principio generale di correlazione potere/rischio, rappresentando, eventualmente, casi nei quali l’ordinamento consente l’esercizio dei poteri amministrativi a un soggetto non destinato a subire direttamente i risultati dell’attività sociale, e ciò in considerazione di uno specifico interesse del titolare del diritto di voto.
Per tali considerazioni, dunque, il Tribunale di Milano concludeva nel senso che la fattispecie in esame si configurava come elusiva della ratio insita nella disciplina ex art. 2265 cod. civ., in ragione di “motivi” dei contraenti non correlati ad interessi di per sé meritevoli di tutela rispetto al complessivo sistema legale, ma anzi volti proprio a conseguire l’assetto precluso all’autonomia privata [33].
Nella vicenda in esame, era presente una pattuizione con la quale l’opzionario otteneva il diritto di determinare a posteriori (al momento dell’esercizio dell’opzione) il prezzo di vendita, ricomprendendovi non solo l’originario prezzo di acquisto delle partecipazioni oggetto dell’opzione put, ma altresì ogni ulteriore importo e spesa sostenute dall’opzionario socio per gli aumenti di capitale, finanziamenti a fondo perduto o altri conferimenti senza diritto di rimborso, effettuati a favore della società le cui partecipazioni erano oggetto dell’opzione.
Il Tribunale di Milano, al fine di avvalorare ulteriormente la propria tesi sulla illiceità e non meritevolezza di tale clausola all’interno del rapporto intercorrente tra la DeA s.p.a. e la Sopaf s.p.a., richiamava un orientamento piuttosto risalente della Corte di Cassazione [34], che estendeva la ratio di divieto di patto leonino a tutti i tipi di società, e ritenendo che per aversi violazione fosse necessario che il socio venisse privato interamente, degli utili o delle perdite.
L’opzione put, pertanto, a parere dei giudici ambrosiani, per come era stata formulata e per la sua funzione all’interno della contrattazione, integrava il divieto di cui all’art. 2265 cod. civ.
La Corte di Appello di Milano, decidendo sull’impugnazione proposta, verificò non solo la ricorrenza dei requisiti formali dell’esclusione assoluta e costante dagli utili o dalle perdite, bensì anche la circostanza che tale pattuizione risultasse corrispondente o meno ad una funzione causale meritevole di tutela, non contrastante, in concreto, con l’interesse dei soci coinvolti alla buona gestione dell’attività sociale [35], confermando sostanzialmente i motivi della sentenza di primo grado che ravvisavano la nullità dell’accordo parasociale sul presupposto che la causa dello stesso fosse stata la volontà di trasferire interamente il rischio di impresa sulla Sopaf s.p.a, sottraendo così l’altro socio da ogni rischio tipico ed essenziale per lo status socii, con il venir meno dell’alea tipica dell’investimento finanziario, tanto da elidere ogni interesse alla gestione prudente della società ed al mantenimento del valore della partecipazione sociale, proprio per la certezza di vedersi, in ogni caso, liquidato qualsiasi esborso o perdita.
5. L’iter argomentativo della Suprema Corte
Enunciati i contrastanti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che si sono succeduti nel tempo sulla questione, la Corte di Cassazione, come si anticipava, ha richiamato il principio secondo il quale in ipotesi di opzione put a prezzo preconcordato occorre ricostruire la causa concreta del programma contrattuale per valutare se esista, se sia lecita e se sia meritevole di tutela.
Il rispetto di tali condizioni comporterà, la non integrazione del divieto ex. art. 2265 cod. civ., ed il superamento del controllo ex art. 1322 cod. civ., laddove l’esclusione delle perdite non sia strutturalmente assoluta e costante, né integri la funzione essenziale o causa concreta, avendo riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Nel supportare tale assunto, la Cassazione declina una serie di fattispecie quali i titoli obbligazionari, para-obbligazionari, i nuovi strumenti partecipativi, etc., affermando la pressoché netta distinzione tra rischio di impresa e potere sull’impresa.
Ciò che deve essere vagliato, proprio in relazione all’opzione put nella compagine delle società per azioni, è la funzione di garanzia e l’interesse alle buone sorti della società.
Come si è osservato, la Corte di Cassazione non è nuova a simili pronunce; infatti, già con la sentenza n. 8927 del 1994 aveva prospettato una similitudine degli interessi sottostanti a quelli rinvenibili nel pegno della partecipazione sociale ove al creditore, indipendentemente dalla qualifica di socio, è concesso il diritto di voto, al fine del miglior controllo, in funzione di garanzia, del suo credito.
Inoltre, la Cassazione, come anche recentemente osservato [36], aveva precisato che il patto leonino può considerarsi nullo in presenza di due condizioni ben precise: quando il socio venga escluso, in via alternativa, da “ogni” partecipazione agli utili o alle perdite, ovvero quando il patto costituisca parte del contratto sociale, risultando la posizione del socio caratterizzata dall’esclusione totale e costante dagli utili o dalle perdite o entrambe.
Il finanziatore divenuto socio con clausola put ha, senza ombra di dubbio, l’interesse a favorire le buone sorti, la conservazione e la crescita della società, nonché del proprio investimento, avendo quale fine ultimo non solo il semplice recupero del valore del proprio denaro, ma anche, e soprattutto, di vederlo incrementato grazie al successo dell’impresa.
Tale interesse coinvolge anche la parte debitrice poiché, logica vuole, che anch’essa, grazie al successo dell’impresa, potrà restituire l’importo pattuito.
La Corte di Cassazione, inoltre, mette in risalto un importante antefatto per specificare la funzione dell’opzione put nella situazione de qua. Infatti, fu la stessa Sopaf s.p.a., in quanto portatrice del diritto esclusivo di trattativa, a costituire la cordata finalizzata all’acquisizione della Banca Bipielle Net s.p.a., e che, in occasione dell’acquisizione, furono conclusi fra le parti, compresa la DeA s.p.a., accordi miranti all’enunciazione della comune volontà di realizzare il piano industriale reputando, qualora se ne fossero presentate le esigenze, la quotazione quale metodo preferibile per rendere liquido il complessivo investimento effettuato nella società.
Tale elemento fattuale evidenzia non solo la complessità dell’operazione, ma anche la possibilità, qualora le azioni fossero state vendute con offerta al pubblico, del possibile cambiamento radicale della prospettiva di guadagno di tutti i soci.
Ancora, lo schema causale dell’operazione complessiva, nonché dell’opzione put in sé considerata, sottolinea ancor di più la vasta gamma di rischi che sono tradizionalmente ricondotti allo schema delineato dall’art. 2265 cod. civ.
Nella costruzione del contratto, infatti, il socio finanziatore non si divincola da tutti i diritti ed obblighi del suo status in relazione alla ripartizione degli utili e delle perdite.
Anzi, sulla base delle coordinate suesposte in merito alla teoria della causa in concreto e all’autonomia contrattuale delle parti ex art. 1322 cod. civ., si coglie un interesse meritevole di tutela: il finanziamento partecipativo risulta diretto ad un’operazione strategica volta al potenziamento ed incremento del valore della partecipazione sociale.
Altro fattore da non trascurare seguendo l’impostazione di un’altra pronuncia del Tribunale di Milano [37], è quello temporale.
Infatti, l’opzione put, avente una durata limitata nel tempo, consente di ipotizzare una non permanente sottrazione della partecipazione ad eventuali perdite del socio. Il dato temporale risulterebbe quindi essenziale per delineare ed identificare la possibile lesione del carattere aleatorio posto alla base della vita societaria.
La Suprema Corte di Cassazione si è, dunque, posta in posizione del tutto divergente rispetto al lungo percorso, prevalentemente dottrinale, che, pur intravedendo talune evidenti similitudini tra l’opzione put con l’istituto del patto leonino, pareva ormai orientato, in modo pressoché pacifico, nell’affermare che tale contratto integrasse una violazione del divieto posto dall’art. 2265 cod. civ.
Con la pronuncia in esame la Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: “E’ lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo determinato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”.
Orbene, la questione ruota, in primo luogo, intorno alla dicotomia potere/rischio insita nell’art. 2265 cod. civ., ovvero se la ratio di tale norma risulti o meno unitaria e, successivamente, sul peso che quest’ultima assume in relazione alle partecipazioni sociali.
A ben vedere, infatti, l’orientamento dottrinale maggioritario [38], specifica, da un lato, che se è fuori questione la nullità della clausola statuaria finalizzata ad escludere un azionista dalla partecipazione agli utili o alle perdite, dall’altro, tale causa di invalidità non può essere comminata in caso di accordi negoziali aventi come scopo il semplice trasferimento di diritti ad altri.
Sotto tale aspetto, soprattutto in relazione ad un’operazione negoziale che prevede uno scambio di azioni a prezzo predeterminato con sopportazione del relativo rischio, non può trovare giustificazione una mera applicazione diretta del divieto sancito dall’art. 2265 cod. civ, quanto piuttosto una verifica sulla concreta funzione dell’operazione, distinguendo, quindi, tra l’ipotesi in cui essa si esaurisce nella finalità di eluderlo oppure persegua altri interessi meritevoli di tutela.
Tale orientamento si riconduce alla ratio unitaria del divieto sancito ex art. 2265 cod. civ., ritenendo che la disciplina trovi ragion d’essere nella necessaria, quanto fondamentale, partecipazione del socio al rischio d’impresa in forza di ragioni tipiche di politica economica, soprattutto in riferimento alla conduzione della società.
Il carattere unitario, pertanto, si fonda su un principio di ordine pubblico ed economico volto a garantire, non solo, la corretta conduzione della società nell’interesse dei terzi, ma anche, dell’intera collettività, impedendo che un socio possa influenzare la gestione dell’impresa pur non sopportando il rischio economico della decisione adottata dalla società [39].
Detto altrimenti: il divieto ex art. 2265 cod. civ. assurge, in tal modo, a norma fondamentale all’interno dell’architettura tipologica del contratto sociale, configurandosi come una disposizione di ordine pubblico economico diretta a tutelare il buon funzionamento della società come enti economici collettivi e a garantire una regolare ed equilibrata formazione della loro volontà.
Si tratta, a ben vedere, di un divieto avente una funzione senz’altro apprezzabile, da analizzare in senso sostanziale, in quanto tale imitazione all’autonomia delle parti nella stipulazione dell’accordo si pone a difesa dei rapporti economici e dell’utilità sociale, come espressamente sancito dall’art. 41 Cost.
Risulta, infatti, palese, seguendo tale interpretazione, che il socio esonerato o dalle perdite o dagli utili sarebbe portatore di un interesse disomogeneo rispetto a quello degli altri [40].
Le esigenze di certezza dei rapporti giuridici impongono, senz’altro, che dalla partecipazione alla decisione e quindi alla possibilità di indirizzare la gestione sociale, debba necessariamente discendere un’assunzione di rischio e di responsabilità, seppur nei limiti della propria quota.
Per converso, altro filone interpretativo [41], seguito in parte dalla sentenza in note, afferma che il divieto di patto leonino non avrebbe una ratio unitaria, bensì differenziata, non essendo posto a presidio di una necessaria correlazione tra partecipazione alla gestione sociale e partecipazione al rischio di impresa, trovando applicazione esclusivamente ai patti statuari.
Si sosteneva, dunque, che la norma avesse diverso fondamento a seconda se si riferisse all’esclusione dagli utili o, invece, dalla perdite.
Infatti, qualora il patto avesse ad oggetto l’esclusione dagli utili si paleserebbe una nullità per violazione della prescrizione descritta dall’art. 2247 cod. civ., il quale prevede espressamente che il contratto di società debba avere ad oggetto un’attività economica finalizzata alla divisione degli utili.
All’opposto, in caso di pattuizione avente ad oggetto l’esclusione dalla partecipazione alle perdite, si configurerebbe una nullità per illiceità della causa, con automatica violazione del principio di equivalenza, tipico dei contratti sinallagmatici.
Nello specifico, la Cassazione rileva come la ratio unitaria dell’art. 2265 cod. civ., sia stata in realtà messa in crisi da quelle numerose fattispecie negoziali, come i c.d. prestiti “a tutto rischio” e gli stessi strumenti finanziari partecipativi, che attribuiscono diritti amministrativi a prescindere dalla qualifica di socio.
Infatti, seppur le esigenze dei rapporti giuridici pongano la necessaria corrispondenza fra gestione e rischio, non si possono sottovalutare, parimenti, le attuali ricostruzioni in ambito di società di capitali formatesi all’indomani della riforma del diritto societario del 2003.
Si deve ricordare, infatti, che l’ordinamento, accanto alle modalità “classiche” di finanziamento dell’impresa, sia a titolo di partecipazione al capitale di rischio, di debito, ovvero attraverso l’ausilio di strumenti finanziari che possono essere emessi dalla società, ritiene meritevole di tutela anche quegli accordi la cui causa concreta è mista, prevedendo, quindi, un sistema alternativo di reperimento delle risorse rispetto al tradizionale credito bancario.
Le ricostruzioni sin qui esposte, però, devono rapportarsi necessariamente alla particolarità del caso di specie. Infatti, il fulcro essenziale della vicenda ruotava intorno alla meritevolezza dell’opzione put e se tale pattuizione comportasse quell’esclusione assoluta e costante tipica del divieto ex art. 2265 cod. civ.
Sul primo versante, la Corte di Cassazione formula una lucida quando lapidaria analisi della fattispecie, affermandone, giustamente, la meritevolezza, in quanto il finanziatore, divenuto socio con clausola put a prezzo predeterminato, di certo ha un perdurante interesse, quanto meno, a recuperare il proprio denaro e, pertanto, non può essere indifferente alla composizione e all’entità del patrimonio della società, nonché ad un esito positivo del programma di quotazione della società su di un mercato regolamentato.
Sicché, la complessa operazione delineata inferisce esclusivamente alla sfera interna dei soci e non all’intera società, né è riscontrabile un’alterazione della struttura e del funzionamento del contratto sociale. Il socio/finanziatore acquisisce tutti i diritti e gli obblighi che la legge stabilisce per tale status, non ricorrendo, per com’è costituita la fattispecie, una violazione del divieto di patto leonino sancito dall’art. 2265 cod. civ.
1 L. GENGHINI, Le società di capitali e cooperative, Tomo I – Volume III, CEDAM 2012, p. 59 ss.
2 R. SANTAGATA, Il divieto dpi patto leonino, in Trattato società di persone, Milano, 2015, UTET, Cap. XVIII, p. 381.
3 E. SIMONETTO, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959, p. 139.
4 E. CIVERRA, Il finanziamento delle società di capitali, Milano, 2013, p. 143;
5 Cassazione civile, sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8927; Cassazione civile, sez. I, 1 ottobre 2008, n. 24376.
6 G. PENZO, Opzione put e violazione del divieto di patto leonino: nuovi spunti sul requisito di assolutezza, Società n. 3/2018, p. 295 ss.
7 F. GALGANO, Trattato di diritto civile, Vol. IV, Padova 2010, p. 101.
8 N. ABRIANI, Il divieto del patto leonino, Milano, 1994, pp. 88 ss.
9 G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, Diritto delle società, Nona edizione, Milano, 2017, p. 78 e ss.
10 F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013, p. 1419.
11 G. FERRI, Delle società, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1981, Sub art. 2265 c.c., p. 202.
12 SANTORO PASSARELLI, Dottrina generale del diritto civile, Napoli, 1971, p.172.
13 Orbene, secondo un primo orientamento (BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, p. 166 ss.), c.d. teoria oggettiva, la causa si deve identificare come la funzione economico-sociale del contratto. Ogni tipo di contratto, infatti, ha la funzione di disciplinare situazioni ricorrenti nella pratica sociale e commerciale, pertanto la si dovrà intendere come la funzione, socialmente apprezzabile, che quel tipo di contratto è chiamato a svolgere ogni qualvolta si presenti la situazione tipica.
La valutazione della liceità della causa si considera effettuata a priori dal legislatore nel momento della tipizzazione e riguarda esclusivamente quei negozi in grado di svolgere una funzione economico-sociale apprezzabile e compatibile con l’ordinamento. All’opposto, i contratti atipici, frutto dell’autonomia creatrice delle parti, dovranno essere sottoposti ad un controllo di liceità.
Tale impostazione, però, presta il fianco a critiche difficilmente superabili, in quanto così argomentato si trascurerebbero del tutto gli scopi perseguiti dalle parti attraverso il contratto. L’art. 1343 cod. civ. troverebbe applicazione solo rispetto ai contratti atipici, adducendosi, pertanto, un’innaturale assioma tra liceità della causa e schema astratto disciplinato dal Legislatore.
Inoltre, resterebbe priva di spiegazione la disposizione delineata dall’art. 2126 cod. civ. che disciplina la nullità del contratto di lavoro per illiceità della causa.
L’orientamento oggi del tutto maggioritario ( FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965; BIANCA, Diritto Civile, Vol. III Il contratto, Milano, 1987, p. 425 e ss.; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006.) c.d. teoria della causa in concreto, non potendosi neanche condividere la c.d. tesi soggettiva la quale faceva leva sulle motivazioni delle parti sovrapponendo la causa del contratto con i motivi personali, nasce come tentativo di superare i limiti delle due precedenti teorie operando una sintesi fra i rispettivi elementi caratterizzanti.
Infatti, tale teoria definisce la causa quale funzione economica-individuale del contratto, riconducendo la funzione economico-sociale alla concretezza del singolo contratto e alla funzione realmente perseguita dalle parti nella singola fattispecie contrattuale. Detto altrimenti, la funzione da apprezzare è quella che le parti intendono concretamente realizzare ricorrendo ad uno schema tipo, delineato dall’ordinamento, o ad uno schema originale, elaborato dalle stesse parti contraenti.
Questo approccio, accolto anche dalla Corte di Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490), pone una netta distinzione fra causa, motivi e tipo, dovendosi intendere la prima come operazione contrattuale complessiva volta alla realizzazione dell’interesse concreto che le parti intendono compiere; la seconda, come le ragioni private che spesso rimangono inespresse all’interno dello schema contrattuale; ed infine la terza come la struttura di certe tipologie contrattuali, individuate dal Legislatore in quanto particolarmente ricorrenti nella prassi contrattualistica.
La conseguenza dell’accoglimento di tale teoria non sono di poco conto poiché l’accertamento si dovrà compiere non solo sulla meritevolezza giuridica dell’interesse perseguito dalle parti, ma anche sull’esistenza e sulla liceità della causa in concreto a prescindere dalla tipicità o meno del contratto.
14 Cassazione, Sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490.
15 Si ribadisce che l’angolo prospettivo attraverso cui deve svolgersi l’analisi non può non trovare il suo naturale sbocco se non attraverso il sentiero delineato dalla tesi della causalità in concreto, dovendola intendere non come “ciò che il contratto è idoneo a fare”, bensì come sintesi degli interessi reali e concreti che le parti intrinsecamente espongono per il raggiungimento di quello specifico affare.
Ciò che deve essere valutato è dunque “l’utilità del contratto e la sua idoneità ad espletare una funzione commisurata agli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto negoziale” (Cassazione civile, S.U. n. 4628 del 2015 sul preliminare di preliminare).
Ex adverso, si avrà “immeritevolezza” ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., non quando la disposizione contrasti con norme imperative, in quanto in tal senso si applicherebbe automaticamente la disposizione racchiusa all’interno dell’art. 1418 cod. civ., ma dalla contrarietà della fattispecie contrattuale ai principi di solidarietà, parità, e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati. Il giudizio di “immeritevolezza”, in definitiva, non costituisce che una parafrasi moderna del secolare ammonimento di Paolo nei Libri LXII ad edictum, ovvero non omne quod licet, honestum est (DIG. 50, XVII, 144).
16 Cassazione civile, sez. I, 7 maggio 2014, n. 9846.
17 F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013, p. 1419.
18 N. ABRIANI, Il divieto del patto leonino, Milano, 1994, pp. 88 ss.
19 G.F. CAMPOBASSO, Contratti, Titoli di credito, Procedure concorsuali, Quinta edizione, Milano, 2017, p. 212.
20 Gli strumenti finanziari derivati sono strumenti il cui valore dipende dall’andamento di un’attività sottostante (c.d. underlying asset).
Ai sensi del combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’articolo 1 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, recante il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (TUF) per «strumenti finanziari derivati» si intendono:
- Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), “swap”, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, o ad altri strumenti derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti (art. 2, co. 2, lett. d));
- Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), “swap”, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a merci il cui regolamento avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto (art. 2, co. 2, lett. e));
- Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), “swap” e altri contratti derivati connessi a merci il cui regolamento può avvenire attraverso la consegna del sottostante e che sono negoziati su un mercato regolamentato e/o in un sistema multilaterale di negoziazione (art. 2, co. 2, lett. f));
- Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), “swap”, contratti a termine (forward) e altri contratti derivati connessi a merci il cui regolamento può avvenire attraverso la consegna fisica del sottostante, diversi da quelli indicati dalla precedente alinea che non hanno scopi commerciali, e aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, considerando, tra l’altro, se sono compensati ed eseguiti attraverso stanze di compensazione riconosciute o se sono soggetti a regolari richiami di margini (art. 2, co. 2, lett. g));
- Strumenti derivati per il trasferimento del rischio di credito (art. 2, co. 2, lett. h));
- Contratti finanziari differenziali (art. 2, co. 2, lett. i));
- contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), “swap”, contratti a termine sui tassi d’interesse e altri contratti derivati connessi a variabili climatiche, tariffe di trasporto, quote di emissione, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali, il cui regolamento avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto, nonché altri contratti derivati connessi a beni, diritti, obblighi, indici e misure, diversi da quelli indicati alle lettere precedenti, aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, considerando, tra l’altro, se sono negoziati su un mercato regolamentato o in un sistema multilaterale di negoziazione, se sono compensati ed eseguiti attraverso stanze di compensazione riconosciute o se sono soggetti a regolari richiami di margini (art. 2, co. 2, lett. j)).
Secondo il comma 2-bis dell’articolo 1 del TUF, il Ministro dell’economia e delle finanze, con proprio regolamento, individua:
- Gli altri contratti derivati di cui al comma 2, lettera g), aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, compensati ed eseguiti attraverso stanze di compensazione riconosciute o soggetti a regolari richiami di margine;
- Gli altri contratti derivati di cui al comma 2, lettera j), aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, negoziati su un mercato regolamentato o in un sistema multilaterale di negoziazione, compensati ed eseguiti attraverso stanze di compensazione riconosciute o soggetti a regolari richiami di margine.
21 BIANCHI D’ESPINOSA, L., I contratti di borsa. Il riporto, in Tratt. Cicu – Messineo, Milano, 1969, 45 e ss.
22 Artt. 5 e ss. del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. n.58/1998, come recentemente modificato dal D.Lgs. n.68/2018).
23 LUZZATO, G., L’origine e l’evoluzione storica delle borse valori, Milano 1956, 21 ss.
Secondo questa impostazione, che merita di essere condivisa, il riferimento all’oggetto del contratto si giustifica per il fatto che questi titoli, in quanto emessi in serie, pertanto fungibili, e destinati alla circolazione, rispondono ad una tipica funzione di investimento, e sono normalmente negoziati in un apposito mercato.
A fronte di questa realtà è allora agevole intendere le ragioni per cui lo schema della compravendita a termine si dimostra l’unico idoneo ad offrire, in linea di principio, soluzione normativa ai problemi posti dalla negoziazione dei titoli di credito di massa. Soluzione che, in armonia con i principi, fa capo ad uno schema negoziale destinato sempre a consentire il trasferimento dei titoli dietro pagamento del loro prezzo.
La fungibilità e la genericità, pertanto, consentono che i titoli siano negoziati, nel mercato di borsa, con il sistema dell’asta e, al di fuori del mercato, con il semplice riferimento al loro prezzo di mercato desunto dal listino di borsa.
24 VIVANTE, C., Trattato di diritto commerciale, IV, V edizione, Milano, 118 ss.
25 A livello di legislazione comunitaria si è cercato di armonizzare le discipline riguardanti le operazioni relative alla quotazione degli strumenti finanziari nonché agli obblighi di informazione degli emittenti autorizzati, al fine di favorire la creazione di un mercato unico europeo dei prodotti e servizi finanziari.
Attraverso la dir. 2003/71/CE e, successivamente, con la dir.2004/39/CE (c.d. direttiva MiFid sui servizi di investimento) come modificata poi dalla dir. 2006/31/CE, si è introdotta, infatti, non solo una nuova categoria di strumenti finanziari, ma anche due nuovi servizi di investimento riservati: la consulenza in materia di investimenti e la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione.
Obiettivo ultimo di tale excursus normativo è quello di migliorare la competitività nei rapporti fra Borse e intermediari finanziari rendendo, pertanto, la categoria dei contratti di borsa più aderente alle esigenze dinamiche del mercato.
26 CLARIZIA, Le options tra disciplina codicistica e regolamentazione pattizia, A cura di RIOLO, I derivati finanziari, Milano, 1993, p. 119.
27 SERRA, A., I contratti di borsa a premio, Milano, 1971, 157 ss., 210 ss e 224 ss; LOMBARDI, A., La risoluzione per impossibilità sopravvenuta – Il diritto privato oggi, serie a cura di CENDON., P., Giuffrè, 2007, p. 55 ss.
28 Ci si riferisce alla ormai dominante, sia in dottrina [DI MAJO, Dell’obbligazione in generale, in Comm. Scialoja – Branca (artt. 1173 – 1176), Bologna – Roma, 1988, 335] che in giurisprudenza (Cass. 1 marzo 2000, n. 2252; Cass. 5 novembre 1999, n. 12310; Cass. 28 gennaio 1998, n. 831.) concezione “oggettiva” della buona fede quale fonte d’integrazione del contratto. Il moderno orientamento assegna alla buona fede il ruolo di regola di condotta alla quale devono attenersi i soggetti di qualunque rapporto obbligatorio.
Per ciò che concerne la natura delle norme che prevedono obblighi di informazione gravanti sugli intermediari finanziari nella prestazione dei servizi di investimento, si deve osservare che il dato normativo, D.lgs., 24 febbraio, n. 58, art. 23 stabilisce, tra principi generali e le regole di comportamento, che l’intermediario deve comportarsi, nei rapporti con il cliente, secondo diligenza, correttezza e professionalità. Le disposizioni che impongono all’intermediario finanziario di comportarsi secondo buona fede, correttezza e diligenza hanno carattere imperativo, essendo dettate sia per l’interesse del singolo cliente, ma anche a tutela dell’interesse generale dei mercati finanziari.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (Cass. S.U. 19 dicembre 2007, n. 26724), supportato da attenta dottrina (PIETROBON, Il dovere generale di buona fede, Padova, 1969, 51), essendo il contratto di intermediazione finanziaria assimilabile al contratto di mandato, non vi è dubbio che ci siano una serie di obblighi reciproci fra i due soggetti stipulanti. Il peculiare legame che si crea tra il contratto-quadro (contratto di intermediazione) e le singole operazioni contrattuali stipulate tra l’intermediario e i clienti, fa sì che queste ultime siano solo singoli momenti attuativi del primo. Gli obblighi di comportamento dell’intermediario si collocano, a ben vedere, sia nella fase precedente alla stipula che nella fase esecutiva.
Pertanto, in caso di violazione degli obblighi comportamentali, quali, ad esempio, la mancata informazione sull’andamento e i rischi dell’operazione sottoscritta, non si avrà nullità ex art. 1418 cod. civ., ma una risoluzione ex art. 1453 cod. civ.
29 Per i mercati mobiliari regolamentati un elenco sintetico dei contratti a termine è fatto dall’art. 203 TUF, che elenca: strumenti finanziari derivati e analoghi, operazioni a termine su valute, operazioni di prestito titoli, operazioni di pronti contro termine e di riporto. I contratti a termine si contrappongono ai contratti a pronti. L’utilità dei contratti a termine risiede nella possibilità di eliminare il rischio di oscillazione dei prezzi a pronti e di fissare già fin d’oggi il prezzo di merci o di titoli per vendite o per acquisti che si dovranno effettuare a una data futura. La dottrina giuridica italiana ha fatto dei contratti a termine una categoria generale comprendente contratti a termine (future) e contratti a premio (option). A differenza dei mercati esteri, dove le negoziazioni sono sempre state generalmente a pronti, tutte le negoziazioni delle azioni nelle borse valori italiane fino agli anni Novanta erano a termine e a fermo. Con l’introduzione del mercato telematico e la generalizzazione dell’utilizzo della Monte titoli la contrattazione a termine è stata abbandonata, allineando il sistema di regolamento a quello dei mercati esteri.
30 Cassazione civile, 3 luglio 2014, n. 15224.
31 R. SANTAGATA, Dai patti di retrocessione a prezzo garantito alle azioni “redimibili” (una rilettura del divieto del patto leonino della s.p.a. riformata), Riv. dir. comm. Fascicolo 4, 2013, p. 537.
32 E.BARCELLONA, Clausole di put & call a prezzo predefinito, Milano, Giuffrè, 2004, 33 ss.
33 Secondo una parte della dottrina (E. BARCELLONA, Clausole di put & call a prezzo predefinito, Milano, Giuffrè, 2004.), la fattispecie decisa si dovrebbe inquadrare tra quelle che la stessa qualifica come clausole put “a prezzo predefinito”, perché con questa locuzione si intendono quelle opzioni di vendita di azioni o partecipazioni sociali il cui prezzo è predeterminato al momento della conclusione del contratto dell’opzione senza la previsione di aggiustamenti relativi all’effettivo valore delle partecipazioni al momento dell’esercizio del diritto potestativo.
34 Cassazione civile, 29 ottobre 1994, n. 8927.
35 F. RIGANTI, Patto leonino e clausola put in un recente intervento della Corte d’Appello milanese, Riv. Giur. it. n. 4/2015, UTET, p. 898 ss.
36 G.U. VACCARI, Riv. Banca Borsa tit. cred., Fasc. 6, Part. II, Giuffè, 2015, p. 737.
37 Tribunale di Milano, del 6 settembre 2015, sentenza n. 9301.
38 C. ANGELICI, La società per azioni Principi e problemi, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale Cicu-Messineo, Milano, Giuffrè 2012, p. 31, 245 ss., 260, 271.
39 N.PIAZZA, voce << Patto leonino >>, in Enc. Dir., XXXII, Milano, Giuffrè, 1982, p. 528
40 A. DEL BIANCO – D. PROVERBIO, Opzione put e divieto di patto leonino, Riv. Società n. 6/2014, p. 693 ss.
41 E. BARCELLONA, Clausole di put & call a prezzo predefinito, Milano, Giuffrè, 2004, 33 ss.; 65 – 74.