Il diritto all’assegno divorzile dal 1942 ad oggi: quando spetta e cosa è cambiato

in Giuricivile, 2019, 10 (ISSN 2532-201X)

Il matrimonio, rileva la Suprema Corte, “non è più una sistemazione definitiva”.

All’indomani della pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 11504 del 10 maggio 2017, quello che si è scatenato è stato un vero e proprio terremoto giudiziario che, superando la quasi trentennale concezione “patrimonialistica” del matrimonio, ha radicalmente stravolto un principio giurisprudenziale ormai granitico in tema di assegno divorzile.

La presente analisi si soffermerà, precipuamente, sulla disamina dell’attuale dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di assegno divorzile, previsto nel vigente art. 5, comma 6, L.D., presupposto indefettibile del quale, come vedremo, è l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge beneficiario dell’assegno post-matrimoniale ovvero l’impossibilità di poterseli procurare per ragioni oggettive”.

Occorre partire, innanzitutto, dal nostro Codice Civile del ’42 e, più precisamente, dall’art. 156 c.c., unica disposizione giuridica che disciplina gli effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi. Orbene, il succitato articolo sancisce la possibilità, in sede di separazione consensuale o giudiziale dei coniugi, di stabilire un assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole al fine di garantirgli il mantenimento dello stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Solo con l’entrata in vigore della Legge sul Divorzio, n. 878/1970, il legislatore ha finalmente poi riconosciuto, all’art. 5, la stessa possibilità in capo al coniuge divorziato che si trovi in una situazione economicamente svantaggiata rispetto all’altro[1].

Il tenore letterale della norma in commento – che ab origine non differenziava i criteri di attribuzione da quelli di quantificazione – così recitava: “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione”.

Ad oggi, invece, la disciplina contenuta nell’art. 5 L.D. è quella risultante dalla novella intervenuta a seguito della L. del 6 marzo n. 74/1987, dove al comma 6 il legislatore ha meglio precisato che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Fondamentale, nell’operazione di cambiamento apportata con la L. n. 74/1987, è stata, pertanto, l’attribuzione al suindicato assegno divorzile di una funzione meramente assistenziale per il tramite dell’inserimento nel suddetto art. 5, comma 6, della medesima legge, dell’espressione “qualora egli non abbia adeguati redditi propri”, così dettando i criteri per la sua determinazione e subordinando la concessione dell’assegno alla circostanza che la parte beneficiaria non abbia mezzi adeguati o non abbia modo di procurarseli per poter mantenere il precedente tenore di vita.

Come si evince dalle disposizioni sopra richiamate, art. 156 c.c. e 5 l. div., i presupposti e i criteri per la determinazione dei due assegni, di mantenimento e di divorzio, sono solo in parte diversi, anche se dottrina e giurisprudenza hanno col tempo cercato di avvicinare le due ipotesi, stante la simile ratio sottesa ai due istituti.

Al proposito, si è, infatti, parlato di solidarietà post coniugale, al fine di rendere uniforme la disciplina del divorzio a quella della separazione.

Presupposto legale per l’attribuzione sia dell’assegno di separazione che di quello divorzile è oggi identico, e consiste nel non avere mezzi/redditi adeguati (condizione che in sede di divorzio la legge considera equivalente al non poterseli procurare per ragioni oggettive).

Ciò, evidentemente, nel segno di una sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale che poggia su legami di assistenza e di solidarietà reciproca connessi alla formazione di una famiglia e alla vita nella famiglia stessa per un tempo che può essere più o meno lungo, legami che permangono anche oltre la crisi dei rapporti interpersonali.

In altri termini, il principio di solidarietà economica tra i coniugi sopravvive, nel nostro ordinamento, alla fine del matrimonio e si protrae anche dopo il divorzio.

Sulla solidarietà post-coniugale

Tuttavia, se già in passato non vi erano dubbi in merito alla funzione solidaristica dell’assegno divorzile, incertezze sussistevano, di contro, in merito alla definizione ed all’interpretazione del concetto di “solidarietà post-coniugale”.

Ed invero, l’assenza di una chiara indicazione del legislatore sul punto ha indotto la giurisprudenza a dividersi in due contrapposti orientamenti.[2]

Il primo filone interpretativo ruota attorno alla nota sentenza della Corte di Cassazione del 17 marzo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro), ai sensi della quale l’obbligo di un coniuge di somministrare periodicamente, a favore dell’altro, un assegno intanto sorgeva in quanto il coniuge preteso beneficiario fosse privo di mezzi adeguati oppure non potesse procurarseli per ragioni oggettive.[3]

Sul punto il Collegio, richiamando l’equivalente espressione usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c., aveva sostenuto che tale difetto di mezzi o redditi adeguati sussisteva allorquando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non avesse redditi propri che gli consentissero di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.

Una interpretazione radicalmente diversa viene, invece, da una successiva sentenza della Suprema Corte, la n. 1652, del 2 marzo 1990, (Relatore Senofonte).

Nella stessa si sostenne, infatti, che nel giudizio relativo all’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione circa l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi economici, ovvero la possibilità-impossibilità di poterseli procurare, doveva essere compiuta con riferimento non al tenore di vita di cui si era goduto durante il matrimonio, bensì rifacendosi ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale.[4]

Sulla scorta di questa seconda impostazione era, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente ad assumere un ruolo decisivo, nel senso che l’ex coniuge sarebbe stato tenuto ad “aiutare” l’altro solo nel caso in cui quest’ultimo non fosse stato economicamente indipendente ed, in ogni caso, nei limiti in cui detto aiuto si fosse reso necessario a sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio.

Una simile conclusione, in buona sostanza, aderiva, da un lato, a quella impostazione di un sistema che non lasciava spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale ormai definitivamente estinto, e salvaguardava, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovavano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche.[5]

Le Sezioni Unite del 1990

Orbene, le Sezioni Unite, chiamate a risolvere tale contrasto aderirono, con le note sentenze del novembre 1990, n. 11490 e 11492, al primo dei due orientamenti sopraesplicati, precisando che “l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da  intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.

Pertanto, alla luce di quanto sin qui detto, si evince come l’orientamento interpretativo che ha prevalso dal 1990 in poi, e, nello specifico, sino all’ultima e dibattutissima sentenza della Suprema Corte n. 11504/2017 di cui si parlerà in seguito, ha proposto una certa continuità tra assegno di separazione e assegno di divorzio, valorizzando, nel giudizio di adeguatezza economica, il pregresso tenore di vita goduto nell’arco della vita coniugale.

Presupposti di attribuzione e criteri di determinazione

Nell’ambito del sistema normativo sopra sintetizzato il tenore di vita matrimoniale assurge, pertanto, a parametro di partenza per l’attribuzione dell’assegno.

Ad ogni modo, la dottrina ha avuto modo di precisare che i restanti criteri, contemplati dal citato art. 5 l. 898/70, costituiscono dei correttivi che permettono di adeguare al ribasso l’assegno divorzile.[6]

La giurisprudenza, dal canto suo, ha sostenuto nel tempo che il giudizio relativo all’accertamento del diritto all’assegno di divorzio, deve articolarsi in due momenti:

  • Fase dell’an debeatur: ossia quella del riconoscimento del diritto all’assegno, subordinato, si rammenta, all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
  • Fase del quantum debeatur: che consiste, in caso di esito positivo nell’accertamento di cui sopra, nella concreta determinazione dell’entità dell’assegno (anche basandosi, per quest’ultima parte, sui parametri indicati nell’art. 5, comma 6, l. div.).

Pertanto, il Giudice, al fine di determinare l’assegno divorzile, dovrà tener conto, sulla base delle prove in suo possesso, in primis della situazione economica familiare esistente al momento della cessazione della convivenza matrimoniale, operando un confronto con quella attuale del coniuge richiedente, onde verificare la inadeguatezza dei mezzi di quest’ultimo; una volta compiuta detta indagine e ritenuti eventualmente sussistenti i requisiti per il riconoscimento del diritto, procederà ad una più concreta determinazione quantitativa dell’assegno attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri i quali operano come fattori di moderazione della somma considerata in astratto.

A tal fine, l’interprete dovrà esaminare ogni elemento utile positivo o negativo (es. esistenza di debiti, costituzione di una nuova famiglia). Ulteriori indicatori della reale condizione economica, patrimoniale e reddituale delle parti potranno essere, ad esempio, l’incremento o il decremento dei redditi dei coniugi dopo la separazione, ovvero le potenzialità economiche di eventuali investimenti bancari o assicurativi, ovvero la proprietà di ulteriori beni immobili produttivi di reddito, o, infine, i ricavi della vendita di immobili reinvestiti e produttivi di nuovi profitti.[7] Diversamente i medesimi criteri possono, se del caso, addirittura azzerare detta somma in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (giurisprudenza consolidata a partire da Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809).

La giurisprudenza successiva si è allineata, in maniera pressoché unanime, alla posizione espressa dalle Sezioni Unite precisando che il tenore di vita da tenere in considerazione sia non soltanto quello effettivamente goduto in costanza di matrimonio, ma anche quello che poteva ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate in costanza del matrimonio stesso.

E’ stato, altresì, precisato che il tenore di vita non va confuso con lo stile di vita[8], essendo possibile che i coniugi, pur in presenza di rilevanti possibilità economiche, decidano di adottare un stile di vita relativamente frugale.[9]

In ogni caso, per la valutazione del potenziale standard di vita della coppia in costanza di matrimonio, ossia il tenore di vita, occorre conoscerne le condizioni economiche, dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi può legittimamente disporre e solo a queste fare riferimento, a nulla rilevando il più modesto stile di vita in concreto mantenuto dagli stessi coniugi nel corso del loro mènage.[10]

 

Orbene, questo appena delineato è il quadro interpretativo che ha fatto da sfondo dagli anni ’90 e che ha avuto per assunto quel necessario raffronto tra “mezzi adeguati” e “tenore di vita”; ciò, evidentemente, per assicurare una certa continuità e solidarietà post-coniugale che sopravvive, secondo questa impostazione, alla fine del matrimonio, protraendosi anche oltre il divorzio.

Tenore di vita in senso “potenziale” e non solo “reale”, dovendosi operare, tale raffronto, tenendo in considerazione anche tutte quelle aspettative legittimamente maturate in costanza di matrimonio.

Una simile impostazione rispecchia, evidentemente, la realtà del periodo, ancorata a quella concezione patrimonialistica del matrimonio il quale è stato per lungo tempo inteso come “sistemazione definitiva”.

Una questione di ragionevolezza

Ci si è chiesti, tuttavia, se fosse costituzionalmente ragionevole la norma vivente sul “medesimo tenore di vita matrimoniale” quale criterio per parametrare l’assegno divorzile.

La questione, pertanto, è stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale mediante un’ordinanza di rimessione ad opera del Tribunale di Firenze, la n. 239 del 22 maggio 2013, la quale ha posto al centro l’annosa questione della protezione del coniuge debole di fronte ad una giurisprudenza consolidata che, tuttavia, presenta non poche criticità.[11]

Ed invero, a seguito di un giudizio civile di divorzio, il Tribunale di Firenze ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della l. 898/70, così come modificato dalla novella dell’87, secondo la cui interpretazione la locuzione “mezzi adeguati” dovrebbe necessariamente essere valutata in raffronto al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.

Tanto pare collidere, ad avviso del Tribunale, con la natura stessa del divorzio che mira ad estinguere il rapporto matrimoniale tanto sul piano personale quanto su quello economico-patrimoniale.

Ed invero, un simile riferimento al pregresso tenore di vita si risolverebbe in una sorta di “ultrattività” del vincolo matrimoniale ormai estinto, oltre che in una “palese contraddizione logica e giuridica”.

Tale interpretazione, inoltre, contrasta con la nostra Costituzione in quanto verrebbe meno la finalità meramente “assistenziale” dell’assegno di divorzio il quale finirebbe con l’attribuire l’obbligo a garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole.

L’interesse al mantenimento di una vita agiata non costituisce, infatti, secondo il Giudice remittente, contenuto di una situazione giuridica soggettiva qualificabile come diritto fondamentale ed, in quanto tale, meritevole di protezione.

Una simile impostazione finirebbe col trattare indistintamente la situazione del coniuge con quella del divorziato, ed inoltre, farebbe perdurare illimitatamente nel tempo tale obbligo di mantenimento del coniuge divorziato, seppur autosufficiente, differentemente da quanto avviene, per assurdo, con il dovere di mantenimento verso i figli che cessa con il raggiungimento dell’autosufficienza economica degli stessi.[12]

La Corte Costituzionale, tuttavia, nel risolvere l’annosa questione si è rifatta alla giurisprudenza vivente, sia confermando la plausibilità e validità delle due fasi relative all’accertamento del diritto all’assegno, sia sostenendo che il parametro del tenore di vita rileva soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della misura della prestazione assistenziale, da determinarsi poi in concreto bilanciando, caso per caso, quel parametro con tutti gli altri indicati nello stesso art. 5 della legge sul divorzio, sino al loro eventuale azzeramento[13].

Tanto costituisce la conferma di quell’orientamento stabilitosi ben venticinque anni fa per mezzo delle Sezioni Unite, e seguito poi dalla giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale l’assegno divorzile ha natura assistenziale e dovrebbe costituire per il coniuge economicamente debole un rimedio al deterioramento delle precedenti condizioni economiche in dipendenza del divorzio[14].

La sollevata questione di costituzionalità, pertanto, non è stata scevra da ostacoli in quanto, pur ammettendo un effettivo contrasto tra la norma vivente con la Costituzione, il reale problema era capire quale soluzione potesse costituire una valida alternativa a quella del criterio del tenore di vita equipollente, posto che solo quest’ultimo rispondeva, secondo la giurisprudenza prevalente, ad un’esigenza di certezza e sicurezza dei rapporti giuridici.

Ed invero, se da un lato il riferimento al tenore di vita sembrerebbe garantire, al coniuge economicamente più debole, una più adeguata tutela, soprattutto per le ipotesi in cui lo stesso abbia dedicato un considerevole lasso di tempo alla famiglia, d’altro canto, tuttavia, siffatta impostazione parrebbe scarsamente funzionale alla realizzazione di una un’equilibrata ripartizione delle risorse della famiglia dopo la rottura del matrimonio, impedendo sia la pari dignità sociale dei coniugi che, addirittura, il raggiungimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge debole.

Ed inoltre, l’orientamento secondo cui l’adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente andrebbe commisurata al tenore di vita matrimoniale appare difficilmente sostenibile “perché denunzia una ultrattività del matrimonio, ormai sciolto, in contrasto con qualsivoglia logica, vuoi perché snatura il dato normativo riformato, diretto a prestare aiuto all’ex coniuge bisognoso, non già a consentirgli lo stesso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale[15].

Le esigenze appena illustrate, in effetti, sono emerse da tempo in altri ordinamenti europei nei quali la valorizzazione del principio dell’autoresponsabilità ha condotto a limitare significativamente l’assistenza fornita al coniuge economicamente debole al termine di matrimoni di breve durata, soprattutto qualora non siano presenti figli non autosufficienti[16].

In conclusione, se la dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze conferma, da un lato, la ragionevolezza del “diritto vivente” in materia di assegno divorzile, non esclude, dall’altro, l’opportunità di una attenta considerazione delle motivazioni addotte dal giudice remittente e di una complessiva esigenza di ripensamento della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio.

Tra autoresponsabilità e solidarietà coniugale

Ed invero, se la ratio della disciplina di cui all’art. 5 della citata legge si risolve nella tutela del coniuge economicamente più debole, il quale va sostenuto nella fase sopravvenuta di riorganizzazione del nuovo assetto di vita, vero è che una simile tutela parrebbe garantita anche semplicemente assicurando, allo stesso, un’autonomia e sufficienza economica tale da permettere la conduzione di una vita libera e dignitosa.

Si è ritenuto, perciò, di dover affiancare al vecchio parametro del tenore di vita quello innovativo dell’autoresponsabilità economica, al fine di contemperare l’ineludibile esigenza di tutela del coniuge economicamente debole con quella di limitare la persistenza di vincoli di solidarietà economica tra gli ex coniugi.

Occorre premettere, tuttavia, che l’introduzione repentina di un approccio caratterizzato da profili di assoluta novità – quale quello dell’abbandono del riferimento al parametro del tenore di vita coniugale in favore di quello dell’indipendenza economica del richiedente – porta con sé il rischio di dare vita ad un sistema di regole che difficilmente potrebbero condurre a soluzioni capaci di fornire un’adeguata tutela al coniuge che al termine di un matrimonio di lunga durata abbia investito un considerevole periodo di tempo nell’assolvimento dei compiti domestici e di accudimento dei figli o che, in veste di genitore “collocatario”, sia chiamato ad un significativo e prolungato impegno nella cura dei figli per il periodo successivo alla rottura dell’unione matrimoniale[17].

La condivisibile istanza di valorizzare il principio dell’autoresponsabilità e dell’indipendenza economica, quali criteri capaci di limitare l’accesso alla tutela fornita dall’art. 5 l. div., dovrebbe, pertanto, essere perseguita senza negare la funzione assistenziale che permea la disciplina dell’assegno divorzile.

Pertanto, se da una parte la complessità delle trame di rapporti generati dal sovrapporsi nel tempo di nuclei familiari ricomposti successivamente al divorzio e la crescente rilevanza assunta dal principio dell’autoresponsabilità sembrano attuare una parziale e graduale erosione del diritto dell’ex coniuge a mantenere il tenore di vita coniugale, dall’altra le esigenze di apprestare un’adeguata tutela al coniuge che abbia dedicato o sia chiamato a dedicare una significativo periodo di tempo alla cura della famiglia confermano la persistente attualità del diritto vivente, la cui eventuale futura modificazione non sembra poter prescindere da un intervento delle Sezioni Unite.

Orbene, la svolta è avvenuta proprio con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 11504, del 10 maggio 2017 la quale, partendo dalla premessa che “una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano dello status personale dei coniugi, ha stabilito che  “il diritto all’assegno divorzile va riconosciuto alla persona dell’ex coniuge  non già in ragione del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, ma soltanto in considerazione di esso ove si valuti positivamente la sussistenza del presupposto della mancanza dei mezzi adeguati o dell’impossibilità di poterseli procurare per ragioni oggettive”.

Ciò posto, giova precisare che alla luce della suindicata pronuncia, frutto dei profondi mutamenti intervenuti nel costume sociale, nel giudizio di accertamento del diritto all’assegno il parametro di riferimento per valutare l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi, ovvero la possibilità-impossibilità a poterseli procurare, non può coincidere con il tenore di vita matrimoniale.

Le ragioni di una simile conclusione, che chiude definitivamente le strade all’orientamento precedente, trovano la loro conferma nella parte motivazionale della sentenza in questione, qui di seguito succintamente riportata.

Come già si era sostenuto in passato, seppur senza grandi risultati, il parametro del “tenore di vita” appare collidere con la natura stessa dell’istituto del divorzio che estingue definitivamente il rapporto matrimoniale sia dal punto di vista personale che da quello economico-patrimoniale.

Un richiamo al pregresso tenore di vita si risolverebbe, pertanto, in un’indebita “ultrattività” del vincolo matrimoniale.

La Cassazione riprende, in un certo senso, le critiche precedentemente mosse nella già citata ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Firenze, ai sensi del quale una simile impostazione conduce ad esisti “palesemente irrazionali”.

Inoltre, un primo indice di riforma in tal senso si ravvisa già nella novella dell’87 la quale, volendo escludere, nel giudizio sull’an debeatur, valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche dei coniugi in favore di quelle attuali del soggetto richiedente, ha inteso adeguare la disciplina sul divorzio al principio di autoresponsabilità sopra esplicato che tiene conto, si rammenta, delle necessità del soggetto preteso beneficiario e non delle condizioni del soggetto onerato al versamento dell’assegno.

Un simile riferimento al preesistente tenore di vita sembrerebbe più utile, di contro, nella seconda ed eventuale fase del giudizio, ovvero quella relativa alla determinazione dell’entità dell’assegno già riconosciuto.

Diversamente, significherebbe svilire la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in favore di quella di assicurare, al coniuge richiedente, la conservazione di un tenore di vita agiato; interesse che, in questa maniera, finirebbe con l’assumere valenza giuridica, e non più meramente economica.

Nuova concezione del matrimonio matrimonio quale atto di liberalità

Infine, pare opportuno evidenziare che l’orientamento promosso dalle Sezioni Unite del 1990 che valorizzava il pregresso tenore di vita altro non era se non lo specchio della situazione sociale del tempo che certamente non intendeva il matrimonio un atto di liberalità e auto-responsabilità ed, in quanto tale, dissolubile. La recente introduzione dell’istituto del divorzio, infatti, doveva fare i conti con una realtà sociale ancora caratterizzata dall’esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, perché sorti in epoca anteriore alla riforma, pertanto, la vecchia concezione patrimonialistica del matrimonio quale “sistemazione definitiva”.

Sulla scorta delle suesposte argomentazioni, pertanto, la Suprema Corte è giunta ad escludere, nel giudizio di valutazione del diritto all’assegno divorzile, il criterio del preesistente tenore di vita in cambio di quello dell’autoresposabilità, affermando che non è configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento dell’indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente assistenziale – dell’assegno divorzile.

Il giudizio sull’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente dovrà pertanto risolversi in un accertamento circa l’eventuale indipendenza economica dello stesso, o sulla sua idoneità ad esserlo, condizioni, queste, che certamente farebbero venir meno il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile.

Nuovo criterio: l’indipendenza economica

Il problema è stato, a questo punto, stabilire cosa debba intendersi per “indipendenza economica” e, sul punto, pare opportuno rimandare al alcune pronunce di merito che, all’indomani della innovativa sentenza, hanno fatto applicazione del suindicato nuovo principio.

Orbene, il Tribunale di Milano, ad esempio, nell’ordinanza del 22 maggio 2017 ha stabilito che per indipendenza economica debba intendersi, in realtà, “la capacità per una determinata persona, adulta e sana, di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)”. La soglia stabilita dal Tribunale, perché possa dirsi raggiunta l’indipendenza economica, è di 1.000,00 euro ed inoltre, il Giudice, nel compiere questa analisi, ben può adottare come parametro di riferimento quello rappresentato dall’ammontare degli introiti che, per legge, se non superato consente all’individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato.

Questo perché, l’assegno divorzile non deve tradursi in una impropria misura, finalizzata a colmare eventuali sperequazioni tra i redditi degli ex coniugi, ma nella verifica delle posizioni, le quali devono essere lette secondo il principio della auto-responsabilità economica di ciascuno dei coniugi, come persone singole; fermo restando l’onere probatorio dell’esistenza del diritto sul richiedente, e sempre salvo l’ulteriore irrinunciabile principio del «non pregiudicare» la possibilità per l’onerato di condurre anch’esso una vita dignitosa.

Il Tribunale di Venezia, poi, nel di poco successivo decreto n. 4443/2017, ha richiamato anche ulteriori indici dai quali è possibile desumere l’indipendenza economica, ovvero il possesso di redditi propri, l’effettiva capacità e possibilità lavorativa, la disponibilità di un patrimonio mobiliare ed immobiliare, nonché di una stabile abitazione.

Ed invero, proprio sulla scorta di tali argomentazioni, il Tribunale di Venezia ha rigettato la richiesta avanzata dalla moglie laureata, considerate le sue capacità e possibilità effettive di lavoro, oltre alla stabile disponibilità della casa familiare assegnatele.

Tale requisito dell’indipendenza ed autosufficienza economica, inoltre, va parametrato tenendo in conto una molteplicità di elementi ulteriori, che devono essere valutati caso per caso, quali, ad esempio, il costo della vita del luogo in cui il soggetto richiedente risiede.

Giova poi precisare, come sostenuto dal Tribunale di Palermo, che detti indici di riferimento individuati dalla recentissima ed innovativa giurisprudenza valgono non solo ai fini del riconoscimento in astratto del diritto all’assegno divorzile, ma anche nell’eventuale fase successiva, riguardante la determinazione in concreto dell’entità dell’assegno. Tanto, evidentemente, in rispetto di quel più generale principio della solidarietà economica che riguarda, si precisa, non solo il coniuge preteso beneficiario, ma anche l’obbligato alla prestazione dell’assegno divorzile che non può e non deve risolversi in una rendita parassitaria ed ingiustificata.[18]

Giova oltretutto richiamare un’ulteriore pronuncia della Cassazione immediatamente successiva alla nota sentenza n. 11504/2017 di cui si è sin qui discusso, ovvero la n. 11538/2017 che altro non è se non una precisazione della precedente, in cui viene specificato che “l’assegno divorzile deve essere disposto in favore della parte istante la quale disponga di redditi insufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa”, condizione da valutarsi, in ogni caso, avendo a mente i criteri indicati nella prima parte dell’art. 5 della legge sul divorzio.

Trattasi, in buona sostanza, di una pronuncia che mira a fare chiarezza circa le modalità con le quali va fornita la prova della non autosufficienza di chi richiede il mantenimento, prova che non spetta all’ex coniuge richiedente l’assegno nel caso in cui la non autosufficienza può essere desunta anche da altri fattori.[19]

Dal 2017 al 2018: nuovo cambiamento di rotta

Fermo restando tutto quanto sopra, occorre dare atto che il suddetto generico riferimento ai “mezzi adeguati” ha nell’immediato avviato a vari orientamenti contrapposti che, tuttavia, convergono sulla divisione dei criteri e sulla limitazione della discrezionalità data ai giudici.

Così nel luglio del 2018, le Sezioni Unite sono nuovamente intervenute, chiarendo l’incertezza interpretativa formatasi in merito.  Con la sentenza n. 18287 del 2018, i giudici del Supremo Collegio di legittimità riportano ordine negli orientamenti giurisprudenziali, affermando che i criteri riportati nella l. 898 all’art. 5 co.6 debbano essere considerati univocamente. Il legislatore impone una prima indagine su uno squilibrio dei coniugi, attraverso documentazione fiscale e attraverso poteri istruttori officiosi, dalla quale può derivare senz’altro un primo profilo assistenziale dell’assegno, o dalla quale può emergere una situazione squilibrata. Tuttavia, in entrambe le ipotesi il parametro alla stregua del quale decidere sull’assegno non può basarsi solo su questo, dovendo necessariamente prendersi in considerazione anche altri elementi quali il contributo del coniuge richiedente nella gestione familiare nella creazione del patrimonio coniugale e personale. Questo contributo nasce dalle decisioni comuni, dalla gestione del rapporto coniugale, dall’assolvimento dei doveri indicati nell’art. 143 c.c.

In tal senso, dunque, la decisione finale non sarà deputata a garantire la mera funzione assistenziale (che valorizza l’elemento testuale dell’adeguatezza dei mezzi e della capacità o incapacità di procurarseli), ma terrà conto anche quanto il coniuge richiedente ha sacrificato, o meglio investito nella gestione e nella vita familiare, indi considerando in egual modo una funzione compensativa e perequativa.

Lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare.  Il profilo assistenziale deve essere, pertanto, contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale si inserisce la fase di vita post-matrimoniale, in chiave perequativa-compensativa”.

In funzione della natura assistenziale e compensativo-perequativa dell’assegno divorzile, che discende dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, il riconoscimento del diritto all’assegno coniugale deve consentire al coniuge più debole  il raggiungimento, in concreto, di un livello reddituale commisurato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, tenuto conto delle aspettative professionali sacrificate. In particolare, il giudizio volto all’attribuzione dell’assegno dovrà essere espresso alla luce di una valutazione compativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, valutato il contributo fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune  e personale dei singoli coniugi, considerati la durata del matrimonio e l’età dell’avente diritto.[20]

L’arresto delle Sezioni Unite ha senza dubbio disegnato nuovi confini nella geografia dell’assegno di divorzio.

Verso un nuovo cambiamento

Ci si è chiesti se alle anzidette funzioni dell’assegno, quella assistenziale, quella compensativa e perequativa, vada attribuita pari misura oppure se sia più opportuno applicare una gerarchia interna alle stesse. O meglio, occorre chiedersi, giunti a questo punto, se l’assegno divorzile, che eventualmente venga al richiedente riconosciuto alla stregua del positivo accertamento degli anzidetti criteri, debba necessariamente assolvere tutte e tre le funzioni in ogni caso.

Ebbene, le tessere del complesso mosaico delineato dalla norma di riferimento (l’art. 5, comma 6, l. div., nel suo periodare intricato, non è di immediata comprensione), dopo la frattura operata da Cass. 10 maggio 2017, n. 11504, sono state dal Supremo Collegio ricomposte valorizzando nuovi profili in precedenza non tenuti in considerazione, nel segno di un rinnovato equilibrio tra contrapposte esigenze e valori di riferimento.

La Cassazione è intervenuta di recente, con ordinanza del 10 aprile 2019 n.10084, soffermandosi sul tema della durata del matrimonio quale ulteriore criterio di riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, attribuendo ad esso un ruolo di rilievo nella composita valutazione che il giudizio di adeguatezza dei mezzi presuppone.

L’ordinanza annotata si dimostra particolarmente interessante giacchè in essa si dichiara che la soluzione ivi adottata in tema di assegno divorzile dalla Corte di Appello, poi oggetto di impugnazione, appare conforme sia all’invocata decisione della I Sezione di questa Corte n. 11504 del 17 maggio 2017 che alla successiva pronuncia delle Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018 in quanto ha accertato tanto la condizione di non autosufficienza economica della ricorrente, tanto la sussistenza dei parametri indicati dall’art. 5 L.D, come sono stati valorizzati dalle Sezioni Unite con la citata pronuncia dell’11 luglio 2018.

Allora, prima di ripercorrerne sinteticamente il contenuto per evidenziare i profili salienti, si evidenzia come la Suprema Corte dichiari possibile ricondurre l’orientamento espresso contemporaneamente al contenuto di due provvedimenti che, oggettivamente, sono sulla base di uno dei contrasti più rilevanti avvenuti tra il 2017 e il 2018 in ambito di giurisprudenza della famiglia. Da un lato, la decisione del 2017, che è stata indicata come una sorta di “svolta epocale” in materia di assegno divorzile, avendo eliminato il riferimento al tenore di vita precedente e avendo sancito l’assoluta necessità della verifica del requisito della mancanza dei mezzi adeguati, prima di calcolare l’entità dell’assegno stesso (cd. giudizio bifasico); dall’altro lato, la decisione a S.U. del 2018, apertamente critica nei confronti del precedente contro il quale, in fin dei conti, è stata emessa e che ha riportato l’assegno divorzile alla triplice valenza assistenziale, perequativa e compensativa, eliminando espressamente la necessità del giudizio bifasico.

Ciò premesso, nell’ordinanza in commento si legge che, pur a fronte di un’unione coniugale di breve durata, tale profilo non è ritenuto ostativo dal Supremo Collegio ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile. A ben vedere, sarebbe più agevole, oltre che più logico, riconoscere l’assegno laddove il matrimonio abbia avuto lunga durata, poiché in tale contesto è decisamente più frequente individuare quel complesso di rinunce e sacrifici cui si è sottoposto il coniuge in favore della famiglia e che ha potenzialmente contribuito alla speculare crescita reddituale e patrimoniale dell’altro coniuge che ha provveduto al rafforzamento della propria posizione professionale e lavorativa.

Sicchè, tale elemento avrebbe potuto o dovuto differentemente orientare la decisione del giudice. In realtà, ciò appare comunque corretto in quanto, come precisato, anche laddove il matrimonio non abbia avuto un lungo svolgimento, la comprovata inadeguatezza dei mezzi può comunque superare tale dato. La durata del matrimonio[21] torna allora piuttosto a incidere solo sulla quantificazione (e in effetti, l’assegno attribuito in concreto nella fattispecie dalla Corte d’appello di Cagliari era decisamente contenuto).[22]

Per la Cassazione, l’età, l’assenza di specializzazione professionale ed il difficile contesto territoriale con un mercato del lavoro in crisi giustificano l’esborso a carico dell’ex coniuge più debole.

In questi casi dunque, può sostenersi che la funzione assistenziale dell’assegno divorzile mantenga un valore assorbente e tenda a prevalere rispetto alla ulteriore e parimenti rilevante funzione perequativa che pure gli è stata attribuita dal Supremo Collegio.

Conclusioni

Si è dovuto attendere a lungo, ben 27 anni, prima che anche il nostro ordinamento giuridico recepisse un principio di giustizia già presente nel resto dei Paesi europei, senza il quale il panorama del diritto di famiglia appariva alquanto iniquo, e a tratti retrogrado.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504 depositata lo scorso 10 maggio 2017, infatti, ha scalfito l’orientamento consolidatosi fino ad oggi in tema di assegno di mantenimento dovuto in caso di divorzio. Le conclusioni a cui sono giunte le Sezioni Unite costituiscono ormai diritto vivente, avendo negli anni successivi trovato larga applicazione, a riprova che l’assegno di divorzio non rappresenta soltanto uno strumento atto a bilanciare i rapporti tra i coniugi ma continua ad esplicare un’importantissima funzione anche sociale, essendo di fatto l’unico istituto previsto dall’ordinamento per attribuire al soggetto che si trovi nelle condizioni indicate dalla legge (e dia riscontro dei presupposti che sono stati stabiliti per il riconoscimento dell’assegno stesso) la concreta possibilità di una vita dignitosa anche successivamente al venir meno dell’unione coniugale.

Volendo trarre le fila della nostra trattazione, in principio, (1990-2017) l’assegno di divorzio serviva a garantire il mantenimento del tenore di vita. Dal 2017 al 2018, permetteva al coniuge più debole di essere economicamente autosufficiente, salvo poi cambiare ancora fino ad oggi. Un nuovo cambio di rotta che vede introduce un assegno destinato a compensare i sacrifici fatti ed il contributo dato dall’ex coniuge durante il matrimonio.

Il percorso evoluzionistico non è ancora finito, forse. La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha infatti approvato una legge di riforma della legge sul divorzio.

Legittimo domandarsi…

Non solo: partendo dal caso di specie, la Corte ha avanzato i nuovi principi che devono ispirare la normativa, nonché guidare il giudice nella valutazione dell’an e del quantum debeatur in tutti i casi futuri.

E che dire di quelli, invece, già decisi?

Sarebbe davvero interessante capire se sia effettivamente possibile riottenere quanto corrisposto indebitamente, alla luce dei nuovi principi che governeranno la materia.

La domanda che ora gli interessati si pongono è: “Il nuovo orientamento della Corte di Cassazione ha efficacia retroattiva?”. Si pensi al fatto che per anni e anni numerosi coniugi sono stati costretti a corrispondere un assegno di mantenimento quantificato in relazione al tenore di vita tenuto durante la vita matrimoniale, criterio che sarà abbandonato da oggi in poi nella definizione delle nuove controversie.

Presumibilmente, sarà possibile incidere sugli assegni di mantenimento già definiti, in quanto ordinariamente questi sono sempre modificabili, a patto che sopravvengano fatti nuovi nella situazione economica e familiare dei due coniugi coinvolti. Bisognerà dunque capire se il sopraggiungere di un diverso orientamento della Corte di Cassazione sia assimilabile ai fatti nuovi cui fa riferimento il codice di procedura civile.

E, in secondo luogo, se l’eventuale incidenza della decisione giurisprudenziale ricada solo sull’entità del futuro assegno, o anche su un eventuale diritto di regresso del coniuge gravato per tutto quanto corrisposto in passato alla luce di un criterio che ormai appare sorpassato.

Un ulteriore considerazione che merita di essere trattata concerne un puro dato matematico e probabilistico. Siffatta sentenza, difatti, pur non essendo legge e non avendo il peso di una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, costituisce un precedente importante per paralizzare molte richieste di assegni divorzili, soprattutto se troppo esose.

La stessa non arriva come un fulmine a ciel sereno. Basti pensare che, circa trent’anni fa, venivano riconosciuti assegni di divorzio nel 60% dei casi, mentre lo scorso anno solo nel 19% dei casi. Questo a testimonianza del fatto che l’orientamento dei Giudici del divorzio è andato progressivamente cambiando, in maniera sempre più restrittiva.

Se questo indirizzo giurisprudenziale diventerà maggioritario, gli ex coniugi più ricchi brinderanno. E infatti, la sentenza in commento riguarda, in particolare, i casi in cui c’è grande sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi.

Ma allora, di fronte a questo nuovo indirizzo giurisprudenziale, ci si potrebbe domandare se possa avere un senso, per il soggetto meno abbiente, stipulare un patto prematrimoniale volto a tutelarlo in caso di divorzio. La risposta è NO, perché l’ordinamento giuridico italiano non prevede, allo stato, la validità di tali patti. Esiste da anni un apposito disegno di legge, che però non ha sortito alcun risultato.

Legittimo domandarsi, inoltre, se l’ex coniuge che eroga già un assegno di divorzio a favore dell’altro coniuge possa chiedere in giudizio la revisione in pejus dell’assegno in forza della nuova sentenza. La risposta è .


[1] V. GIORGIANNI, L’assegno “divorzile” ai tempi della crisi: criteri e requisiti per la sua determinazione, in Famiglia e Diritto, III, 2016, 259.

[2] G. DOSI, Presupposti dell’assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente, in http://www.osservatoriofamiglia.it/moduli/17506929.

[3] cfr. FINOCCHIARO, L’assegno di divorzio e la nozione dei redditi adeguati, in Vita not., 1990, 61; v. altresì GABRIELLI, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. dir. civ., 1990, II, 537; ROSSI CARLEO, Il diritto di famiglia, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, VI, 1, Torino 1999, 408.

[4] Sul punto, v. LUMINOSO, La riforma del divorzio: profili di diritto sostanziale (prime riflessioni sulla l. 6 marzo 1987 n. 74), in Dir. fam., 1988, 449; BARBERA, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 2001, 32; BONILINI, L’assegno post matrimoniale, in Bonilini-Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, nel Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2004, 528; cfr. inoltre NAPPI, Assegno divorzile e principio di solidarietà post coniugale, in Dir. fam., 1990, 441.

[5] G. DOSI, Presupposti dell’assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente, in http://www.osservatoriofamiglia.it/moduli/17506929.

[6] F. ASTIGGIANO, Assegno divorzile e condizioni economiche dei coniugi, in Famiglia e Dirittto, 2014, 12, 1113; cfr. Cubeddu, I contributi e gli assegni di separazione e divorzio, in Il nuovo diritto di famiglia (a cura di Ferrando), I, Bologna, 2007, 889 ss.

[7] L’intervento delle SS.UU. della Corte di Cassazione evidenziava in special modo che il venir meno della convivenza tra i coniugi determina, di regola, un aggravio dei costi legato al fatto che alcune risorse, prima utilizzabili in comune, devono essere divise. Conseguentemente veniva ritenuto possibile per il giudice non disporre l’assegno a carico del coniuge che sarebbe tenuto ma che in concreto non ne abbia le capacità economiche; sul punto, vedasi sent. Cass civ., 29.11.1990 n. 11490, inedita.

[8] Cass. civ. Sez. I, Sentenza del 16 ottobre 2013, n. 23442; Sul punto, cfr., tra le altre, Cass. n. 10356/2005, in Giur. it., 2006, 938.

[9] F. ASTIGGIANO, Assegno divorzile e condizioni economiche dei coniugi, in Famiglia e Diritto, 2014, 12, 1112.

[10] V. AMENDOLAGINE, “Tenore” e “Stile” di vita non possono considerarsi tra di loro sinonimi quando si tratta di determinare l’assegno divorzile, in Corr. Giur., 2014, 11, 1349.

[11] A. MORRONE, Una questione di ragionevolezza: l’assegno divorzile e il criterio del “medesimo tenore di vita”, in Famiglia e Diritto, 2014, 7, 687.

[12] F. DELL’ANNA MISURALE, contributo inedito.

[13] Corte Costituzionale, 11 febbraio 2015 n.11

[14] TOTARO, Gli effetti del divorzio, in Tratt. dir. fam. diretto da Zatti, I, II, II ed., Milano, 2011, 1637, chiarisce che “si tratta di un indirizzo tanto consolidato da costituire diritto vivente”; sul punto v. anche SANTOSUOSSO, Il matrimonio. Libertà e responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2011, 787.

[15]BONILINI, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595; in senso contrario Bianca, Diritto civile, 2.1, Milano, 2014, 294.

 

[16] Sul punto v. “Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto”, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Bologna, 2008, 229.

[17] E. AL. MUREDEN, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Famiglia e diritto. 2017, 7, 636.

[18] Tribunale di Palermo, sentenza del 12 maggio 2017, Est. Ruvolo, Nel caso in cui sussista il diritto all’assegno divorzile, esso deve essere determinato al solo fine di consentire all’avente diritto il raggiungimento dell’indipendenza economica (e non anche il tenore di vita precedentemente goduto)

[19] Con la segnalata sentenza n. 11538/2017 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un uomo che, reputando esagerato il versamento in mancanza di prova circa l’inesistenza assoluta di possibilità di lavoro, ne chiedeva la revisione.

[20] V. anche Cass. civ. sez. I del 15 marzo 2019 n. 12021.

[21] La durata del matrimonio non va intesa in senso formale e legale (dal giorno di nozze alla data della sentenza di divorzio), bensì in senso sostanziale come periodo nel quale sia effettivamente esistito il consortium vitae ed i coniugi si siano a vicenda prestati assistenza e collaborazione.

[22] F. DANOVI, Assegno divorzile: l’inadeguatezza dei mezzi supera il matrimonio breve e senza rinunce, in Famiglia e Diritto, 2019, 6, 566.

”, così dettando i criteri per la sua determinazione e subordinando la concessione dell’assegno alla circostanza che la parte beneficiaria non abbia mezzi adeguati o non abbia modo di procurarseli per poter mantenere il precedente tenore di vita.

Come si evince dalle disposizioni sopra richiamate, art. 156 c.c. e 5 l. div., i presupposti e i criteri per la determinazione dei due assegni, di mantenimento e di divorzio, sono solo in parte diversi, anche se dottrina e giurisprudenza hanno col tempo cercato di avvicinare le due ipotesi, stante la simile ratio sottesa ai due istituti.

Al proposito, si è, infatti, parlato di solidarietà post coniugale, al fine di rendere uniforme la disciplina del divorzio a quella della separazione.

Presupposto legale per l’attribuzione sia dell’assegno di separazione che di quello divorzile è oggi identico, e consiste nel non avere mezzi/redditi adeguati (condizione che in sede di divorzio la legge considera equivalente al non poterseli procurare per ragioni oggettive).

Ciò, evidentemente, nel segno di una sostanziale continuità tra vita coniugale e vita post-coniugale che poggia su legami di assistenza e di solidarietà reciproca connessi alla formazione di una famiglia e alla vita nella famiglia stessa per un tempo che può essere più o meno lungo, legami che permangono anche oltre la crisi dei rapporti interpersonali.

In altri termini, il principio di solidarietà economica tra i coniugi sopravvive, nel nostro ordinamento, alla fine del matrimonio e si protrae anche dopo il divorzio.

Sulla solidarietà post-coniugale

Tuttavia, se già in passato non vi erano dubbi in merito alla funzione solidaristica dell’assegno divorzile, incertezze sussistevano, di contro, in merito alla definizione ed all’interpretazione del concetto di “solidarietà post-coniugale”.

Ed invero, l’assenza di una chiara indicazione del legislatore sul punto ha indotto la giurisprudenza a dividersi in due contrapposti orientamenti.[2]

Il primo filone interpretativo ruota attorno alla nota sentenza della Corte di Cassazione del 17 marzo 1989, n. 1322 (Relatore Finocchiaro), ai sensi della quale l’obbligo di un coniuge di somministrare periodicamente, a favore dell’altro, un assegno intanto sorgeva in quanto il coniuge preteso beneficiario fosse privo di mezzi adeguati oppure non potesse procurarseli per ragioni oggettive.[3]

Sul punto il Collegio, richiamando l’equivalente espressione usata in tema di separazione dall’art. 156 c.c., aveva sostenuto che tale difetto di mezzi o redditi adeguati sussisteva allorquando il coniuge preteso beneficiario dell’assegno non avesse redditi propri che gli consentissero di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.

Una interpretazione radicalmente diversa viene, invece, da una successiva sentenza della Suprema Corte, la n. 1652, del 2 marzo 1990, (Relatore Senofonte).

Nella stessa si sostenne, infatti, che nel giudizio relativo all’attribuzione dell’assegno di divorzio, la valutazione circa l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi economici, ovvero la possibilità-impossibilità di poterseli procurare, doveva essere compiuta con riferimento non al tenore di vita di cui si era goduto durante il matrimonio, bensì rifacendosi ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale.[4]

Sulla scorta di questa seconda impostazione era, dunque, l’autonomia economica (o il suo contrario) del richiedente ad assumere un ruolo decisivo, nel senso che l’ex coniuge sarebbe stato tenuto ad “aiutare” l’altro solo nel caso in cui quest’ultimo non fosse stato economicamente indipendente ed, in ogni caso, nei limiti in cui detto aiuto si fosse reso necessario a sopperire alla carenza dei mezzi conseguente alla dissoluzione del matrimonio.

Una simile conclusione, in buona sostanza, aderiva, da un lato, a quella impostazione di un sistema che non lasciava spazio alla improbabile sopravvivenza di uno “status” economico connesso ad un rapporto personale ormai definitivamente estinto, e salvaguardava, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovavano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche.[5]

Le Sezioni Unite del 1990

Orbene, le Sezioni Unite, chiamate a risolvere tale contrasto aderirono, con le note sentenze del novembre 1990, n. 11490 e 11492, al primo dei due orientamenti sopraesplicati, precisando che “l’assegno periodico di divorzio – come modellato dalla riforma del 1987 – ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da  intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.

Pertanto, alla luce di quanto sin qui detto, si evince come l’orientamento interpretativo che ha prevalso dal 1990 in poi, e, nello specifico, sino all’ultima e dibattutissima sentenza della Suprema Corte n. 11504/2017 di cui si parlerà in seguito, ha proposto una certa continuità tra assegno di separazione e assegno di divorzio, valorizzando, nel giudizio di adeguatezza economica, il pregresso tenore di vita goduto nell’arco della vita coniugale.

Presupposti di attribuzione e criteri di determinazione

Nell’ambito del sistema normativo sopra sintetizzato il tenore di vita matrimoniale assurge, pertanto, a parametro di partenza per l’attribuzione dell’assegno.

Ad ogni modo, la dottrina ha avuto modo di precisare che i restanti criteri, contemplati dal citato art. 5 l. 898/70, costituiscono dei correttivi che permettono di adeguare al ribasso l’assegno divorzile.[6]

La giurisprudenza, dal canto suo, ha sostenuto nel tempo che il giudizio relativo all’accertamento del diritto all’assegno di divorzio, deve articolarsi in due momenti:

  • Fase dell’an debeatur: ossia quella del riconoscimento del diritto all’assegno, subordinato, si rammenta, all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
  • Fase del quantum debeatur: che consiste, in caso di esito positivo nell’accertamento di cui sopra, nella concreta determinazione dell’entità dell’assegno (anche basandosi, per quest’ultima parte, sui parametri indicati nell’art. 5, comma 6, l. div.).

Pertanto, il Giudice, al fine di determinare l’assegno divorzile, dovrà tener conto, sulla base delle prove in suo possesso, in primis della situazione economica familiare esistente al momento della cessazione della convivenza matrimoniale, operando un confronto con quella attuale del coniuge richiedente, onde verificare la inadeguatezza dei mezzi di quest’ultimo; una volta compiuta detta indagine e ritenuti eventualmente sussistenti i requisiti per il riconoscimento del diritto, procederà ad una più concreta determinazione quantitativa dell’assegno attraverso una valutazione ponderata dei vari criteri i quali operano come fattori di moderazione della somma considerata in astratto.

A tal fine, l’interprete dovrà esaminare ogni elemento utile positivo o negativo (es. esistenza di debiti, costituzione di una nuova famiglia). Ulteriori indicatori della reale condizione economica, patrimoniale e reddituale delle parti potranno essere, ad esempio, l’incremento o il decremento dei redditi dei coniugi dopo la separazione, ovvero le potenzialità economiche di eventuali investimenti bancari o assicurativi, ovvero la proprietà di ulteriori beni immobili produttivi di reddito, o, infine, i ricavi della vendita di immobili reinvestiti e produttivi di nuovi profitti.[7] Diversamente i medesimi criteri possono, se del caso, addirittura azzerare detta somma in ipotesi estreme, quando, cioè, la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (giurisprudenza consolidata a partire da Cass. civ. Sez. I, 13 maggio 1998, n. 4809).

La giurisprudenza successiva si è allineata, in maniera pressoché unanime, alla posizione espressa dalle Sezioni Unite precisando che il tenore di vita da tenere in considerazione sia non soltanto quello effettivamente goduto in costanza di matrimonio, ma anche quello che poteva ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate in costanza del matrimonio stesso.

E’ stato, altresì, precisato che il tenore di vita non va confuso con lo stile di vita[8], essendo possibile che i coniugi, pur in presenza di rilevanti possibilità economiche, decidano di adottare un stile di vita relativamente frugale.[9]

In ogni caso, per la valutazione del potenziale standard di vita della coppia in costanza di matrimonio, ossia il tenore di vita, occorre conoscerne le condizioni economiche, dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi può legittimamente disporre e solo a queste fare riferimento, a nulla rilevando il più modesto stile di vita in concreto mantenuto dagli stessi coniugi nel corso del loro mènage.[10]

Orbene, questo appena delineato è il quadro interpretativo che ha fatto da sfondo dagli anni ’90 e che ha avuto per assunto quel necessario raffronto tra “mezzi adeguati” e “tenore di vita”; ciò, evidentemente, per assicurare una certa continuità e solidarietà post-coniugale che sopravvive, secondo questa impostazione, alla fine del matrimonio, protraendosi anche oltre il divorzio.

Tenore di vita in senso “potenziale” e non solo “reale”, dovendosi operare, tale raffronto, tenendo in considerazione anche tutte quelle aspettative legittimamente maturate in costanza di matrimonio.

Una simile impostazione rispecchia, evidentemente, la realtà del periodo, ancorata a quella concezione patrimonialistica del matrimonio il quale è stato per lungo tempo inteso come “sistemazione definitiva”.

Una questione di ragionevolezza

Ci si è chiesti, tuttavia, se fosse costituzionalmente ragionevole la norma vivente sul “medesimo tenore di vita matrimoniale” quale criterio per parametrare l’assegno divorzile.

La questione, pertanto, è stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale mediante un’ordinanza di rimessione ad opera del Tribunale di Firenze, la n. 239 del 22 maggio 2013, la quale ha posto al centro l’annosa questione della protezione del coniuge debole di fronte ad una giurisprudenza consolidata che, tuttavia, presenta non poche criticità.[11]

Ed invero, a seguito di un giudizio civile di divorzio, il Tribunale di Firenze ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della l. 898/70, così come modificato dalla novella dell’87, secondo la cui interpretazione la locuzione “mezzi adeguati” dovrebbe necessariamente essere valutata in raffronto al tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.

Tanto pare collidere, ad avviso del Tribunale, con la natura stessa del divorzio che mira ad estinguere il rapporto matrimoniale tanto sul piano personale quanto su quello economico-patrimoniale.

Ed invero, un simile riferimento al pregresso tenore di vita si risolverebbe in una sorta di “ultrattività” del vincolo matrimoniale ormai estinto, oltre che in una “palese contraddizione logica e giuridica”.

Tale interpretazione, inoltre, contrasta con la nostra Costituzione in quanto verrebbe meno la finalità meramente “assistenziale” dell’assegno di divorzio il quale finirebbe con l’attribuire l’obbligo a garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole.

L’interesse al mantenimento di una vita agiata non costituisce, infatti, secondo il Giudice remittente, contenuto di una situazione giuridica soggettiva qualificabile come diritto fondamentale ed, in quanto tale, meritevole di protezione.

Una simile impostazione finirebbe col trattare indistintamente la situazione del coniuge con quella del divorziato, ed inoltre, farebbe perdurare illimitatamente nel tempo tale obbligo di mantenimento del coniuge divorziato, seppur autosufficiente, differentemente da quanto avviene, per assurdo, con il dovere di mantenimento verso i figli che cessa con il raggiungimento dell’autosufficienza economica degli stessi.[12]

La Corte Costituzionale, tuttavia, nel risolvere l’annosa questione si è rifatta alla giurisprudenza vivente, sia confermando la plausibilità e validità delle due fasi relative all’accertamento del diritto all’assegno, sia sostenendo che il parametro del tenore di vita rileva soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della misura della prestazione assistenziale, da determinarsi poi in concreto bilanciando, caso per caso, quel parametro con tutti gli altri indicati nello stesso art. 5 della legge sul divorzio, sino al loro eventuale azzeramento[13].

Tanto costituisce la conferma di quell’orientamento stabilitosi ben venticinque anni fa per mezzo delle Sezioni Unite, e seguito poi dalla giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale l’assegno divorzile ha natura assistenziale e dovrebbe costituire per il coniuge economicamente debole un rimedio al deterioramento delle precedenti condizioni economiche in dipendenza del divorzio[14].

La sollevata questione di costituzionalità, pertanto, non è stata scevra da ostacoli in quanto, pur ammettendo un effettivo contrasto tra la norma vivente con la Costituzione, il reale problema era capire quale soluzione potesse costituire una valida alternativa a quella del criterio del tenore di vita equipollente, posto che solo quest’ultimo rispondeva, secondo la giurisprudenza prevalente, ad un’esigenza di certezza e sicurezza dei rapporti giuridici.

Ed invero, se da un lato il riferimento al tenore di vita sembrerebbe garantire, al coniuge economicamente più debole, una più adeguata tutela, soprattutto per le ipotesi in cui lo stesso abbia dedicato un considerevole lasso di tempo alla famiglia, d’altro canto, tuttavia, siffatta impostazione parrebbe scarsamente funzionale alla realizzazione di una un’equilibrata ripartizione delle risorse della famiglia dopo la rottura del matrimonio, impedendo sia la pari dignità sociale dei coniugi che, addirittura, il raggiungimento dell’indipendenza economica da parte del coniuge debole.

Ed inoltre, l’orientamento secondo cui l’adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente andrebbe commisurata al tenore di vita matrimoniale appare difficilmente sostenibile “perché denunzia una ultrattività del matrimonio, ormai sciolto, in contrasto con qualsivoglia logica, vuoi perché snatura il dato normativo riformato, diretto a prestare aiuto all’ex coniuge bisognoso, non già a consentirgli lo stesso tenore di vita goduto durante la vita matrimoniale[15].

Le esigenze appena illustrate, in effetti, sono emerse da tempo in altri ordinamenti europei nei quali la valorizzazione del principio dell’autoresponsabilità ha condotto a limitare significativamente l’assistenza fornita al coniuge economicamente debole al termine di matrimoni di breve durata, soprattutto qualora non siano presenti figli non autosufficienti[16].

In conclusione, se la dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze conferma, da un lato, la ragionevolezza del “diritto vivente” in materia di assegno divorzile, non esclude, dall’altro, l’opportunità di una attenta considerazione delle motivazioni addotte dal giudice remittente e di una complessiva esigenza di ripensamento della disciplina delle conseguenze economiche del divorzio.

Tra autoresponsabilità e solidarietà coniugale

Ed invero, se la ratio della disciplina di cui all’art. 5 della citata legge si risolve nella tutela del coniuge economicamente più debole, il quale va sostenuto nella fase sopravvenuta di riorganizzazione del nuovo assetto di vita, vero è che una simile tutela parrebbe garantita anche semplicemente assicurando, allo stesso, un’autonomia e sufficienza economica tale da permettere la conduzione di una vita libera e dignitosa.

Si è ritenuto, perciò, di dover affiancare al vecchio parametro del tenore di vita quello innovativo dell’autoresponsabilità economica, al fine di contemperare l’ineludibile esigenza di tutela del coniuge economicamente debole con quella di limitare la persistenza di vincoli di solidarietà economica tra gli ex coniugi.

Occorre premettere, tuttavia, che l’introduzione repentina di un approccio caratterizzato da profili di assoluta novità – quale quello dell’abbandono del riferimento al parametro del tenore di vita coniugale in favore di quello dell’indipendenza economica del richiedente – porta con sé il rischio di dare vita ad un sistema di regole che difficilmente potrebbero condurre a soluzioni capaci di fornire un’adeguata tutela al coniuge che al termine di un matrimonio di lunga durata abbia investito un considerevole periodo di tempo nell’assolvimento dei compiti domestici e di accudimento dei figli o che, in veste di genitore “collocatario”, sia chiamato ad un significativo e prolungato impegno nella cura dei figli per il periodo successivo alla rottura dell’unione matrimoniale[17].

La condivisibile istanza di valorizzare il principio dell’autoresponsabilità e dell’indipendenza economica, quali criteri capaci di limitare l’accesso alla tutela fornita dall’art. 5 l. div., dovrebbe, pertanto, essere perseguita senza negare la funzione assistenziale che permea la disciplina dell’assegno divorzile.

Pertanto, se da una parte la complessità delle trame di rapporti generati dal sovrapporsi nel tempo di nuclei familiari ricomposti successivamente al divorzio e la crescente rilevanza assunta dal principio dell’autoresponsabilità sembrano attuare una parziale e graduale erosione del diritto dell’ex coniuge a mantenere il tenore di vita coniugale, dall’altra le esigenze di apprestare un’adeguata tutela al coniuge che abbia dedicato o sia chiamato a dedicare una significativo periodo di tempo alla cura della famiglia confermano la persistente attualità del diritto vivente, la cui eventuale futura modificazione non sembra poter prescindere da un intervento delle Sezioni Unite.

Orbene, la svolta è avvenuta proprio con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 11504, del 10 maggio 2017 la quale, partendo dalla premessa che “una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano dello status personale dei coniugi”, ha stabilito che  “il diritto all’assegno divorzile va riconosciuto alla persona dell’ex coniuge  non già in ragione del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, ma soltanto in considerazione di esso ove si valuti positivamente la sussistenza del presupposto della mancanza dei mezzi adeguati o dell’impossibilità di poterseli procurare per ragioni oggettive”.

Ciò posto, giova precisare che alla luce della suindicata pronuncia, frutto dei profondi mutamenti intervenuti nel costume sociale, nel giudizio di accertamento del diritto all’assegno il parametro di riferimento per valutare l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi, ovvero la possibilità-impossibilità a poterseli procurare, non può coincidere con il tenore di vita matrimoniale.

Le ragioni di una simile conclusione, che chiude definitivamente le strade all’orientamento precedente, trovano la loro conferma nella parte motivazionale della sentenza in questione, qui di seguito succintamente riportata.

Come già si era sostenuto in passato, seppur senza grandi risultati, il parametro del “tenore di vita” appare collidere con la natura stessa dell’istituto del divorzio che estingue definitivamente il rapporto matrimoniale sia dal punto di vista personale che da quello economico-patrimoniale.

Un richiamo al pregresso tenore di vita si risolverebbe, pertanto, in un’indebita “ultrattività” del vincolo matrimoniale.

La Cassazione riprende, in un certo senso, le critiche precedentemente mosse nella già citata ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale del Tribunale di Firenze, ai sensi del quale una simile impostazione conduce ad esisti “palesemente irrazionali”.

Inoltre, un primo indice di riforma in tal senso si ravvisa già nella novella dell’87 la quale, volendo escludere, nel giudizio sull’an debeatur, valutazioni di tipo comparativo tra le condizioni economiche dei coniugi in favore di quelle attuali del soggetto richiedente, ha inteso adeguare la disciplina sul divorzio al principio di autoresponsabilità sopra esplicato che tiene conto, si rammenta, delle necessità del soggetto preteso beneficiario e non delle condizioni del soggetto onerato al versamento dell’assegno.

Un simile riferimento al preesistente tenore di vita sembrerebbe più utile, di contro, nella seconda ed eventuale fase del giudizio, ovvero quella relativa alla determinazione dell’entità dell’assegno già riconosciuto.

Diversamente, significherebbe svilire la funzione assistenziale dell’assegno divorzile in favore di quella di assicurare, al coniuge richiedente, la conservazione di un tenore di vita agiato; interesse che, in questa maniera, finirebbe con l’assumere valenza giuridica, e non più meramente economica.

Nuova concezione del matrimonio quale atto di liberalità

Infine, pare opportuno evidenziare che l’orientamento promosso dalle Sezioni Unite del 1990 che valorizzava il pregresso tenore di vita altro non era se non lo specchio della situazione sociale del tempo che certamente non intendeva il matrimonio un atto di liberalità e auto-responsabilità ed, in quanto tale, dissolubile. La recente introduzione dell’istituto del divorzio, infatti, doveva fare i conti con una realtà sociale ancora caratterizzata dall’esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, perché sorti in epoca anteriore alla riforma, pertanto, la vecchia concezione patrimonialistica del matrimonio quale “sistemazione definitiva”.

Sulla scorta delle suesposte argomentazioni, pertanto, la Suprema Corte è giunta ad escludere, nel giudizio di valutazione del diritto all’assegno divorzile, il criterio del preesistente tenore di vita in cambio di quello dell’autoresposabilità, affermando che non è configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento dell’indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione – esclusivamente assistenziale – dell’assegno divorzile.

Il giudizio sull’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente dovrà pertanto risolversi in un accertamento circa l’eventuale indipendenza economica dello stesso, o sulla sua idoneità ad esserlo, condizioni, queste, che certamente farebbero venir meno il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile.

Nuovo criterio: l’indipendenza economica

Il problema è stato, a questo punto, stabilire cosa debba intendersi per “indipendenza economica” e, sul punto, pare opportuno rimandare al alcune pronunce di merito che, all’indomani della innovativa sentenza, hanno fatto applicazione del suindicato nuovo principio.

Orbene, il Tribunale di Milano, ad esempio, nell’ordinanza del 22 maggio 2017 ha stabilito che per indipendenza economica debba intendersi, in realtà, “la capacità per una determinata persona, adulta e sana, di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)”. La soglia stabilita dal Tribunale, perché possa dirsi raggiunta l’indipendenza economica, è di 1.000,00 euro ed inoltre, il Giudice, nel compiere questa analisi, ben può adottare come parametro di riferimento quello rappresentato dall’ammontare degli introiti che, per legge, se non superato consente all’individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato.

Questo perché, l’assegno divorzile non deve tradursi in una impropria misura, finalizzata a colmare eventuali sperequazioni tra i redditi degli ex coniugi, ma nella verifica delle posizioni, le quali devono essere lette secondo il principio della auto-responsabilità economica di ciascuno dei coniugi, come persone singole; fermo restando l’onere probatorio dell’esistenza del diritto sul richiedente, e sempre salvo l’ulteriore irrinunciabile principio del «non pregiudicare» la possibilità per l’onerato di condurre anch’esso una vita dignitosa.

Il Tribunale di Venezia, poi, nel di poco successivo decreto n. 4443/2017, ha richiamato anche ulteriori indici dai quali è possibile desumere l’indipendenza economica, ovvero il possesso di redditi propri, l’effettiva capacità e possibilità lavorativa, la disponibilità di un patrimonio mobiliare ed immobiliare, nonché di una stabile abitazione.

Ed invero, proprio sulla scorta di tali argomentazioni, il Tribunale di Venezia ha rigettato la richiesta avanzata dalla moglie laureata, considerate le sue capacità e possibilità effettive di lavoro, oltre alla stabile disponibilità della casa familiare assegnatele.

Tale requisito dell’indipendenza ed autosufficienza economica, inoltre, va parametrato tenendo in conto una molteplicità di elementi ulteriori, che devono essere valutati caso per caso, quali, ad esempio, il costo della vita del luogo in cui il soggetto richiedente risiede.

Giova poi precisare, come sostenuto dal Tribunale di Palermo, che detti indici di riferimento individuati dalla recentissima ed innovativa giurisprudenza valgono non solo ai fini del riconoscimento in astratto del diritto all’assegno divorzile, ma anche nell’eventuale fase successiva, riguardante la determinazione in concreto dell’entità dell’assegno. Tanto, evidentemente, in rispetto di quel più generale principio della solidarietà economica che riguarda, si precisa, non solo il coniuge preteso beneficiario, ma anche l’obbligato alla prestazione dell’assegno divorzile che non può e non deve risolversi in una rendita parassitaria ed ingiustificata.[18]

Giova oltretutto richiamare un’ulteriore pronuncia della Cassazione immediatamente successiva alla nota sentenza n. 11504/2017 di cui si è sin qui discusso, ovvero la n. 11538/2017 che altro non è se non una precisazione della precedente, in cui viene specificato che “l’assegno divorzile deve essere disposto in favore della parte istante la quale disponga di redditi insufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa”, condizione da valutarsi, in ogni caso, avendo a mente i criteri indicati nella prima parte dell’art. 5 della legge sul divorzio.

Trattasi, in buona sostanza, di una pronuncia che mira a fare chiarezza circa le modalità con le quali va fornita la prova della non autosufficienza di chi richiede il mantenimento, prova che non spetta all’ex coniuge richiedente l’assegno nel caso in cui la non autosufficienza può essere desunta anche da altri fattori.[19]

Dal 2017 al 2018: nuovo cambiamenti di rotta

Fermo restando tutto quanto sopra, occorre dare atto che il suddetto generico riferimento ai “mezzi adeguati” ha nell’immediato avviato a vari orientamenti contrapposti che, tuttavia, convergono sulla divisione dei criteri e sulla limitazione della discrezionalità data ai giudici.

Così nel luglio del 2018, le Sezioni Unite sono nuovamente intervenute, chiarendo l’incertezza interpretativa formatasi in merito.  Con la sentenza n. 18287 del 2018, i giudici del Supremo Collegio di legittimità riportano ordine negli orientamenti giurisprudenziali, affermando che i criteri riportati nella l. 898 all’art. 5 co.6 debbano essere considerati univocamente. Il legislatore impone una prima indagine su uno squilibrio dei coniugi, attraverso documentazione fiscale e attraverso poteri istruttori officiosi, dalla quale può derivare senz’altro un primo profilo assistenziale dell’assegno, o dalla quale può emergere una situazione squilibrata. Tuttavia, in entrambe le ipotesi il parametro alla stregua del quale decidere sull’assegno non può basarsi solo su questo, dovendo necessariamente prendersi in considerazione anche altri elementi quali il contributo del coniuge richiedente nella gestione familiare nella creazione del patrimonio coniugale e personale. Questo contributo nasce dalle decisioni comuni, dalla gestione del rapporto coniugale, dall’assolvimento dei doveri indicati nell’art. 143 c.c.

In tal senso, dunque, la decisione finale non sarà deputata a garantire la mera funzione assistenziale (che valorizza l’elemento testuale dell’adeguatezza dei mezzi e della capacità o incapacità di procurarseli), ma terrà conto anche quanto il coniuge richiedente ha sacrificato, o meglio investito nella gestione e nella vita familiare, indi considerando in egual modo una funzione compensativa e perequativa.

Lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare.  Il profilo assistenziale deve essere, pertanto, contestualizzato con riferimento alla situazione effettiva nella quale si inserisce la fase di vita post-matrimoniale, in chiave perequativa-compensativa”.

In funzione della natura assistenziale e compensativo-perequativa dell’assegno divorzile, che discende dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, il riconoscimento del diritto all’assegno coniugale deve consentire al coniuge più debole  il raggiungimento, in concreto, di un livello reddituale commisurato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, tenuto conto delle aspettative professionali sacrificate. In particolare, il giudizio volto all’attribuzione dell’assegno dovrà essere espresso alla luce di una valutazione compativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, valutato il contributo fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune  e personale dei singoli coniugi, considerati la durata del matrimonio e l’età dell’avente diritto.[20]

L’arresto delle Sezioni Unite ha senza dubbio disegnato nuovi confini nella geografia dell’assegno di divorzio.

Verso un nuovo cambiamento

Ci si è chiesti se alle anzidette funzioni dell’assegno, quella assistenziale, quella compensativa e perequativa, vada attribuita pari misura oppure se sia più opportuno applicare una gerarchia interna alle stesse. O meglio, occorre chiedersi, giunti a questo punto, se l’assegno divorzile, che eventualmente venga al richiedente riconosciuto alla stregua del positivo accertamento degli anzidetti criteri, debba necessariamente assolvere tutte e tre le funzioni in ogni caso.

Ebbene, le tessere del complesso mosaico delineato dalla norma di riferimento (l’art. 5, comma 6, l. div., nel suo periodare intricato, non è di immediata comprensione), dopo la frattura operata da Cass. 10 maggio 2017, n. 11504, sono state dal Supremo Collegio ricomposte valorizzando nuovi profili in precedenza non tenuti in considerazione, nel segno di un rinnovato equilibrio tra contrapposte esigenze e valori di riferimento.

La Cassazione è intervenuta di recente, con ordinanza del 10 aprile 2019 n.10084, soffermandosi sul tema della durata del matrimonio quale ulteriore criterio di riferimento per la determinazione dell’assegno divorzile, attribuendo ad esso un ruolo di rilievo nella composita valutazione che il giudizio di adeguatezza dei mezzi presuppone.

L’ordinanza annotata si dimostra particolarmente interessante giacchè in essa si dichiara che la soluzione ivi adottata in tema di assegno divorzile dalla Corte di Appello, poi oggetto di impugnazione, appare conforme sia all’invocata decisione della I Sezione di questa Corte n. 11504 del 17 maggio 2017 che alla successiva pronuncia delle Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018 in quanto ha accertato tanto la condizione di non autosufficienza economica della ricorrente, tanto la sussistenza dei parametri indicati dall’art. 5 L.D, come sono stati valorizzati dalle Sezioni Unite con la citata pronuncia dell’11 luglio 2018.

Allora, prima di ripercorrerne sinteticamente il contenuto per evidenziare i profili salienti, si evidenzia come la Suprema Corte dichiari possibile ricondurre l’orientamento espresso contemporaneamente al contenuto di due provvedimenti che, oggettivamente, sono sulla base di uno dei contrasti più rilevanti avvenuti tra il 2017 e il 2018 in ambito di giurisprudenza della famiglia. Da un lato, la decisione del 2017, che è stata indicata come una sorta di “svolta epocale” in materia di assegno divorzile, avendo eliminato il riferimento al tenore di vita precedente e avendo sancito l’assoluta necessità della verifica del requisito della mancanza dei mezzi adeguati, prima di calcolare l’entità dell’assegno stesso (cd. giudizio bifasico); dall’altro lato, la decisione a S.U. del 2018, apertamente critica nei confronti del precedente contro il quale, in fin dei conti, è stata emessa e che ha riportato l’assegno divorzile alla triplice valenza assistenziale, perequativa e compensativa, eliminando espressamente la necessità del giudizio bifasico.

Ciò premesso, nell’ordinanza in commento si legge che, pur a fronte di un’unione coniugale di breve durata, tale profilo non è ritenuto ostativo dal Supremo Collegio ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile. A ben vedere, sarebbe più agevole, oltre che più logico, riconoscere l’assegno laddove il matrimonio abbia avuto lunga durata, poiché in tale contesto è decisamente più frequente individuare quel complesso di rinunce e sacrifici cui si è sottoposto il coniuge in favore della famiglia e che ha potenzialmente contribuito alla speculare crescita reddituale e patrimoniale dell’altro coniuge che ha provveduto al rafforzamento della propria posizione professionale e lavorativa.

Sicchè, tale elemento avrebbe potuto o dovuto differentemente orientare la decisione del giudice. In realtà, ciò appare comunque corretto in quanto, come precisato, anche laddove il matrimonio non abbia avuto un lungo svolgimento, la comprovata inadeguatezza dei mezzi può comunque superare tale dato. La durata del matrimonio[21] torna allora piuttosto a incidere solo sulla quantificazione (e in effetti, l’assegno attribuito in concreto nella fattispecie dalla Corte d’appello di Cagliari era decisamente contenuto).[22]

Per la Cassazione, l’età, l’assenza di specializzazione professionale ed il difficile contesto territoriale con un mercato del lavoro in crisi giustificano l’esborso a carico dell’ex coniuge più debole.

In questi casi dunque, può sostenersi che la funzione assistenziale dell’assegno divorzile mantenga un valore assorbente e tenda a prevalere rispetto alla ulteriore e parimenti rilevante funzione perequativa che pure gli è stata attribuita dal Supremo Collegio.

Conclusioni

Si è dovuto attendere a lungo, ben 27 anni, prima che anche il nostro ordinamento giuridico recepisse un principio di giustizia già presente nel resto dei Paesi europei, senza il quale il panorama del diritto di famiglia appariva alquanto iniquo, e a tratti retrogrado.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504 depositata lo scorso 10 maggio 2017, infatti, ha scalfito l’orientamento consolidatosi fino ad oggi in tema di assegno di mantenimento dovuto in caso di divorzio. Le conclusioni a cui sono giunte le Sezioni Unite costituiscono ormai diritto vivente, avendo negli anni successivi trovato larga applicazione, a riprova che l’assegno di divorzio non rappresenta soltanto uno strumento atto a bilanciare i rapporti tra i coniugi ma continua ad esplicare un’importantissima funzione anche sociale, essendo di fatto l’unico istituto previsto dall’ordinamento per attribuire al soggetto che si trovi nelle condizioni indicate dalla legge (e dia riscontro dei presupposti che sono stati stabiliti per il riconoscimento dell’assegno stesso) la concreta possibilità di una vita dignitosa anche successivamente al venir meno dell’unione coniugale.

Volendo trarre le fila della nostra trattazione, in principio, (1990-2017) l’assegno di divorzio serviva a garantire il mantenimento del tenore di vita. Dal 2017 al 2018, permetteva al coniuge più debole di essere economicamente autosufficiente, salvo poi cambiare ancora fino ad oggi. Un nuovo cambio di rotta che vede introduce un assegno destinato a compensare i sacrifici fatti ed il contributo dato dall’ex coniuge durante il matrimonio.

Il percorso evoluzionistico non è ancora finito, forse. La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha infatti approvato una legge di riforma della legge sul divorzio.

Legittimo domandarsi…

Non solo: partendo dal caso di specie, la Corte ha avanzato i nuovi principi che devono ispirare la normativa, nonché guidare il giudice nella valutazione dell’an e del quantum debeatur in tutti i casi futuri.

E che dire di quelli, invece, già decisi?

Sarebbe davvero interessante capire se sia effettivamente possibile riottenere quanto corrisposto indebitamente, alla luce dei nuovi principi che governeranno la materia.

La domanda che ora gli interessati si pongono è: “Il nuovo orientamento della Corte di Cassazione ha efficacia retroattiva?”. Si pensi al fatto che per anni e anni numerosi coniugi sono stati costretti a corrispondere un assegno di mantenimento quantificato in relazione al tenore di vita tenuto durante la vita matrimoniale, criterio che sarà abbandonato da oggi in poi nella definizione delle nuove controversie.

Presumibilmente, sarà possibile incidere sugli assegni di mantenimento già definiti, in quanto ordinariamente questi sono sempre modificabili, a patto che sopravvengano fatti nuovi nella situazione economica e familiare dei due coniugi coinvolti. Bisognerà dunque capire se il sopraggiungere di un diverso orientamento della Corte di Cassazione sia assimilabile ai fatti nuovi cui fa riferimento il codice di procedura civile.

E, in secondo luogo, se l’eventuale incidenza della decisione giurisprudenziale ricada solo sull’entità del futuro assegno, o anche su un eventuale diritto di regresso del coniuge gravato per tutto quanto corrisposto in passato alla luce di un criterio che ormai appare sorpassato.

Un ulteriore considerazione che merita di essere trattata concerne un puro dato matematico e probabilistico. Siffatta sentenza, difatti, pur non essendo legge e non avendo il peso di una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, costituisce un precedente importante per paralizzare molte richieste di assegni divorzili, soprattutto se troppo esose.

La stessa non arriva come un fulmine a ciel sereno. Basti pensare che, circa trent’anni fa, venivano riconosciuti assegni di divorzio nel 60% dei casi, mentre lo scorso anno solo nel 19% dei casi. Questo a testimonianza del fatto che l’orientamento dei Giudici del divorzio è andato progressivamente cambiando, in maniera sempre più restrittiva.

Se questo indirizzo giurisprudenziale diventerà maggioritario, gli ex coniugi più ricchi brinderanno. E infatti, la sentenza in commento riguarda, in particolare, i casi in cui c’è grande sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi.

Ma allora, di fronte a questo nuovo indirizzo giurisprudenziale, ci si potrebbe domandare se possa avere un senso, per il soggetto meno abbiente, stipulare un patto prematrimoniale volto a tutelarlo in caso di divorzio. La risposta è NO, perché l’ordinamento giuridico italiano non prevede, allo stato, la validità di tali patti. Esiste da anni un apposito disegno di legge, che però non ha sortito alcun risultato.

Legittimo domandarsi, inoltre, se l’ex coniuge che eroga già un assegno di divorzio a favore dell’altro coniuge possa chiedere in giudizio la revisione in pejus dell’assegno in forza della nuova sentenza. La risposta è .


[1] V. GIORGIANNI, L’assegno “divorzile” ai tempi della crisi: criteri e requisiti per la sua determinazione, in Famiglia e Diritto, III, 2016, 259.

[2] G. DOSI, Presupposti dell’assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente, in http://www.osservatoriofamiglia.it/moduli/17506929.

[3] cfr. FINOCCHIARO, L’assegno di divorzio e la nozione dei redditi adeguati, in Vita not., 1990, 61; v. altresì GABRIELLI, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. dir. civ., 1990, II, 537; ROSSI CARLEO, Il diritto di famiglia, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, VI, 1, Torino 1999, 408.

[4] Sul punto, v. LUMINOSO, La riforma del divorzio: profili di diritto sostanziale (prime riflessioni sulla l. 6 marzo 1987 n. 74), in Dir. fam., 1988, 449; BARBERA, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 2001, 32; BONILINI, L’assegno post matrimoniale, in Bonilini-Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, nel Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2004, 528; cfr. inoltre NAPPI, Assegno divorzile e principio di solidarietà post coniugale, in Dir. fam., 1990, 441.

[5] G. DOSI, Presupposti dell’assegno divorzile e condizione femminile: perché la prima sezione della Cassazione non è convincente, in http://www.osservatoriofamiglia.it/moduli/17506929.

[6] F. ASTIGGIANO, Assegno divorzile e condizioni economiche dei coniugi, in Famiglia e Dirittto, 2014, 12, 1113; cfr. Cubeddu, I contributi e gli assegni di separazione e divorzio, in Il nuovo diritto di famiglia (a cura di Ferrando), I, Bologna, 2007, 889 ss.

[7] L’intervento delle SS.UU. della Corte di Cassazione evidenziava in special modo che il venir meno della convivenza tra i coniugi determina, di regola, un aggravio dei costi legato al fatto che alcune risorse, prima utilizzabili in comune, devono essere divise. Conseguentemente veniva ritenuto possibile per il giudice non disporre l’assegno a carico del coniuge che sarebbe tenuto ma che in concreto non ne abbia le capacità economiche; sul punto, vedasi sent. Cass civ., 29.11.1990 n. 11490, inedita.

[8] Cass. civ. Sez. I, Sentenza del 16 ottobre 2013, n. 23442; Sul punto, cfr., tra le altre, Cass. n. 10356/2005, in Giur. it., 2006, 938.

[9] F. ASTIGGIANO, Assegno divorzile e condizioni economiche dei coniugi, in Famiglia e Diritto, 2014, 12, 1112.

[10] V. AMENDOLAGINE, “Tenore” e “Stile” di vita non possono considerarsi tra di loro sinonimi quando si tratta di determinare l’assegno divorzile, in Corr. Giur., 2014, 11, 1349.

[11] A. MORRONE, Una questione di ragionevolezza: l’assegno divorzile e il criterio del “medesimo tenore di vita”, in Famiglia e Diritto, 2014, 7, 687.

[12] F. DELL’ANNA MISURALE, contributo inedito.

[13] Corte Costituzionale, 11 febbraio 2015 n.11

[14] TOTARO, Gli effetti del divorzio, in Tratt. dir. fam. diretto da Zatti, I, II, II ed., Milano, 2011, 1637, chiarisce che “si tratta di un indirizzo tanto consolidato da costituire diritto vivente”; sul punto v. anche SANTOSUOSSO, Il matrimonio. Libertà e responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2011, 787.

[15]BONILINI, L’assegno post-matrimoniale, cit., 595; in senso contrario Bianca, Diritto civile, 2.1, Milano, 2014, 294.

 

[16] Sul punto v. “Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto”, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Bologna, 2008, 229.

[17] E. AL. MUREDEN, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Famiglia e diritto. 2017, 7, 636.

[18] Tribunale di Palermo, sentenza del 12 maggio 2017, Est. Ruvolo, Nel caso in cui sussista il diritto all’assegno divorzile, esso deve essere determinato al solo fine di consentire all’avente diritto il raggiungimento dell’indipendenza economica (e non anche il tenore di vita precedentemente goduto)

[19] Con la segnalata sentenza n. 11538/2017 la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un uomo che, reputando esagerato il versamento in mancanza di prova circa l’inesistenza assoluta di possibilità di lavoro, ne chiedeva la revisione.

[20] V. anche Cass. civ. sez. I del 15 marzo 2019 n. 12021.

[21] La durata del matrimonio non va intesa in senso formale e legale (dal giorno di nozze alla data della sentenza di divorzio), bensì in senso sostanziale come periodo nel quale sia effettivamente esistito il consortium vitae ed i coniugi si siano a vicenda prestati assistenza e collaborazione.

[22] F. DANOVI, Assegno divorzile: l’inadeguatezza dei mezzi supera il matrimonio breve e senza rinunce, in Famiglia e Diritto, 2019, 6, 566.

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