Secondo le Sezioni Unite, la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario ha natura giuridica composita e va ricondotta nell’ambito di applicazione dei principi di responsabilità indiretta di cui all’art. 2049 c.c.
Di conseguenza, deve affermarsi la responsabilità concorrente e solidale dello Stato o dell’ente pubblico per i danni causati da condotte del preposto pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non improbabile delle funzioni di regola espletate e degli incarichi conferiti, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire.
E ciò purché, da un lato, si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, intendendo come tale la relazione per la quale la condotta illecita dannosa non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; dall’altro, si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica.
Il fatto
La vicenda, oggetto della sentenza in esame, trae le mosse da un delitto (peculato) commesso da un cancelliere del Tribunale di Catania, il quale, si era illecitamente appropriato delle somme, versate su dei libretti di deposito da lui custoditi per ragioni d’ufficio, cui avrebbe avuto diritto una delle parti coinvolte in un giudizio di divisione pendente davanti al predetto ufficio giudiziario, al qual era addetto.
Convenuto in giudizio dinanzi il Tribunale di Catania il Ministero della Giustizia, la parte danneggiata ne otteneva la condanna al risarcimento del danno derivato dalle predette condotte illecite poste in essere dal dipendente, ritenendo sussistenti i presupposti di cui all’art. 28 Cost. che estendono la responsabilità in capo all’Amministrazione.
Avverso tale pronuncia ricorreva il Ministero della Giustizia, lamentando da un lato, l’omessa condanna in solido dell’autore materiale dell’illecito; dall’altro, l’erronea interpretazione e applicazione della predetta disposizione costituzionale.
La Corte d’Appello, nell’accogliere parzialmente le richieste del Ministero appellante, lo assolveva da ogni pretesa risarcitoria avversaria, per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente personale ed egoistico ed in quanto tale idoneo ad escludere ogni collegamento con le finalità pubblicistiche dell’Amministrazione.
La Terza Sezione della Suprema Corte, cui era assegnato il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte territoriale, ritenendo la giurisprudenza della Corte non univoca sul tema della sussistenza della responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico per i fatti illeciti dei propri dipendenti, qualora questi, lo realizzi servendosi delle specifiche funzioni attribuitegli, ma per finalità esclusivamente personali, disponeva[1] la trasmissione degli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite civili.
Sulla natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione per fatto illecito commesso dal dipendente: normativa di riferimento e giurisprudenza sul punto
Giova premettere che la questione di diritto posta all’attenzione della Suprema Corte, rientra e coinvolge il più ampio tema della natura giuridica della responsabilità della Pubblica Amministrazione, laddove essa si trovi a rispondere per un illecito commesso da un proprio dipendente, e a che titolo.
Ebbene, da quanto illustrato nell’ordinanza di rimessione, il quadro giurisprudenziale che emerge sul punto risulta essere molto variegato, anche alla luce della trasversalità dell’argomento, idoneo di per sé ad interessare aspetti del diritto civile, di quello penale e dell’amministrativo.
In particolare, i diversi arresti della giurisprudenza di legittimità che si sono susseguiti nel tempo possono essere classificati a seconda se essa abbia orientato la propria ratio decidendi sull’interpretazione dell’art. 28 Cost., privilegiando cioè quella che in dottrina viene definita come “tesi pubblicistica”, ovvero secondo l’art. 2049 c.c., in un’ottica “privatistica”.
Ebbene, partendo dal dato normativo, l’art. 28, il quale dispone che “I funzionari e i dipendenti pubblici dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”, si evince agilmente che suo scopo primario è quello di tutelare il soggetto danneggiato garantendogli il più agevole conseguimento del risarcimento del danno ad opera dello Stato o dell’ente pubblico presso cui l’autore materiale dell’illecito esercita le proprie funzioni.
Tuttavia, la Suprema Corte, nel fornirne un’interpretazione ha diversamente modulato la sua ratio, distinguendo i casi in cui l’Amministrazione è chiamata a rispondere in via diretta, dai casi invece in cui lo è soltanto in via indiretta.
Invero, da un lato, qualificando la responsabilità come “per fatto proprio”, si è sostenuto che essa troverebbe fondamento nel rapporto di immedesimazione organica esistente tra dipendente ed amministrazione, la quale si troverebbe a rispondere in concorso con il primo e ciò anche sulla base dell’art. 2043 c.c., in quanto lo Stato o gli enti pubblici non possono che agire attraverso i propri organi.
Pertanto, la responsabilità derivante dall’attività di quest’ultimi risalirebbe alle persone giuridiche pubbliche delle quali sono espressione e, di conseguenza, secondo questa tesi l’Amministrazione sarebbe chiamata a rispondere in via diretta e immediata per i fatti illeciti dei suoi funzionari e dipendenti.
Ad ogni modo, tale giurisprudenza vi subordina comunque la sussistenza oltre che del nesso di causalità tra condotta e danno anche la necessaria riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, ossia questo deve essere un’esplicazione del potere pubblico e deve essere finalizzato al perseguimento delle sue finalità, atteso che, al contrario, tale collegamento deve dirsi escluso, allorquando il dipendente agisca per finalità strettamente personali ed egoistiche[2].
Presupposto della responsabilità diretta della P.A. per il fatto illecito dei propri dipendenti è, quindi, la c.d. occasionalità necessaria che ricorre quando il dipendente non abbia agito quale privato per fini esclusivamente personali ed estranei all’amministrazione di appartenenza, ponendo in essere una condotta ricollegabile, anche solo indirettamente, alle attribuzioni proprie dell’agente[3].
D’altro canto, una diversa parte della giurisprudenza era solita qualificare la responsabilità della P.A. come “per fatto altrui”, riconducendo la fattispecie nell’alveo dell’art. 2049 c.c..
Secondo la norma, l’Amministrazione risponderebbe non sulla base di un rapporto di immedesimazione organica quanto piuttosto alla luce del rapporto di servizio esistente tra preponente e preposto, essendo chiamata ad assumersi i rischi derivanti dalla scelta di servirsi del funzionario o dipendente.
Ebbene tale visione risulta prevalentemente trovare applicazione in sede penale, laddove si stabilisce che, in ossequio all’art. 2049, la responsabilità civile della P.A. sarebbe configurabile anche per le condotte dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, e anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché sempre entro l’ambito delle proprie mansioni, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l’occasione offerta dall’adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni [4].
A tal riguardo, dunque, dottrina e giurisprudenza si confronterebbero al fine di individuare i caratteri del nesso di occasionalità necessaria, enucleando due teorie. Da un lato, secondo una tesi oggettiva, al fine di affermare la responsabilità della PA sarebbe sufficiente che le mansioni svolte dal pubblico dipendente abbiano agevolato la commissione dell’illecito, non essendo altrimenti possibile determinare le stesse circostanze fattuali.
Dall’altro lato, secondo una tesi di natura funzionale, occorrerebbe piuttosto che l’illecito costituisca uno sviluppo non del tutto imprevedibile, sia pure come degenerazione ed eccesso delle mansioni, considerato che, seguendo la diversa impostazione oggettiva, e imponendo sempre e comunque la sussistenza di responsabilità in capo al preponente, si finirebbe per estenderne eccessivamente i confini, dovendo invece più correttamente consentire al preponente di provare che il dipendente ha agito fuori delle funzioni affidategli senza autorizzazione.
D’altro canto, i sostenitori della teoria oggettiva ritengono che la diversa soluzione limiterebbe eccessivamente la tutela del danneggiato e non sarebbe coerente con i valori costituzionali atteso che, ad ogni modo, poiché riconosce all’Amministrazione l’azione di regresso nei confronti del preposto, questi, se solvibile, sarebbe poi l’unico ad adempiere in concreto.
La giurisprudenza penale della Corte, dunque, sembrerebbe superare la teoria prettamente “soggettiva”, che qualifica il dolo come impeditivo del nesso di causalità tra condotta del reo materiale e Amministrazione preposta, introducendo piuttosto il criterio dell’imprevedibile ed eterogeno sviluppo della condotta rispetto ai compiti istituzionali, che renderebbe le condotte prive di qualsiasi collegamento con essi.
Ed invero, in un’ottica maggiormente oggettiva, si vorrebbe ancorare la nozione di prevedibilità ad un giudizio fattuale, che avrebbe potuto essere svolto in concreto attraverso verifiche e controlli.
Tale impostazione sarebbe, altresì, ravvisabile anche nell’ambito del diritto societario, atteso che la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, nell’ambito dei rapporti di intermediazione finanziaria, la responsabilità dei preponenti anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite ai promotori o funzionari di banche e il danno arrecato ai terzi, il quale non viene comunque meno in ipotesi di commissione da parte del preposto di un illecito penale per fini esclusivamente egoistici[5].
Ed invero, a ben vedere, secondo questa giurisprudenza, il concetto di fine strettamente personale ed estraneo agli interessi all’attività dell’ente risulta essere privo di una base normativa ed in quanto tale, criterio soggettivo troppo eterogeneo rispetto alla categoria del nesso di occasionalità necessaria.
Esso nascerebbe, dunque, dall’originario favor nei confronti dell’Amministrazione, atteso che, quando invece si fa riferimento agli enti privati, ad esempio in tema di responsabilità delle SIM ex art. 31 del TU finanza o con riferimento alla responsabilità delle banche per il fatto dei dipendenti o della responsabilità del datore di lavoro privato per il fatto del dipendente, il limite dell’interesse egoistico dell’agente non verrebbe ad essere ugualmente valorizzato, limitandosi piuttosto la giurisprudenza ad applicare il nesso di occasionalità necessaria, nella sua accezione oggettiva.
Ragioni della decisione
Le Sezioni Unite, al fine di ricomporre il complesso e disomogeneo quadro giurisprudenziale esistente, con la sentenza che qui si annota, hanno anzitutto analizzato e posto a confronto la norma costituzionale e quella codicistica, evidenziandone le peculiarità.
La disciplina pubblicistica avrebbe avuto il merito, da una parte, di introdurre a fianco alla responsabilità diretta o per fatto proprio della P.A. anche una concorrente responsabilità sempre diretta e solidale del dipendente, con la conseguenza che spetterebbe al danneggiato la scelta se far valere l’una, l’altra o entrambe.
Dall’altra parte, traendo le mosse dai principi generali in materia di avvalimento – secondo cui, il servirsi da parte di un soggetto dell’attività di un altro per il perseguimento di propri fini ne comporta l’imputazione sia degli effetti favorevoli che pregiudizievoli da essa derivanti – si è ritenuto sufficiente la sussistenza di un nesso di occasionalità necessaria, che sussisterebbe ogni qualvolta le funzioni esercitate dal preposto abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo, purché la condotta costituisca il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni.
Le Sezioni Unite non rilevano alcun contrasto tra le due impostazioni, così delineate, ma piuttosto ne ammettono la loro pacifica coesistenza, atteso che nessuna delle due assume carattere escludente e, anzi, ciascuna di tali impostazioni verrebbe in considerazione a seconda del tipo di attività posta in essere in concreto dall’Amministrazione.
In particolare, laddove la P.A. manifesti mediante la propria condotta le potestà istituzionali nell’esercizio di attività autoritative e prettamente discrezionali, sarà ammessa la responsabilità diretta in ragione del rapporto di immedesimazione organica che viene ad instaurarsi con l’ente. Allorquando, invece, il comportamento dell’Amministrazione si riduca ad attività meramente materiali, estranee a quelle istituzionali e privi dei caratteri di autoritatività, non vi sarebbe alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato, che dovrebbe essere collocato in posizione paritetica con il privato.
L’applicazione di un diverso principio, secondo le SS.UU. finirebbe per risolversi in un ingiustificato trattamento privilegiato delle Istituzioni pubbliche, e di conseguenza comporterebbe uno sbilanciamento in termini di effettività della tutela giurisdizionale e risarcitoria dei diritti a danno del privato, allorquando le violazioni siano perpetrate dallo Stato.
La volontà della Suprema Corte di ancorare il regime di responsabilità alla natura composita delle attività degli enti pubblici, ha, poi come ulteriore conseguenza, la necessità di prescindere dall’indagine soggettiva dell’autore, lasciando comunque intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo i casi in cui ciò sia specificamente escluso da un’apposita disposizione normativa).
Orbene, una volta stabilito il superamento della rigida alternatività e del rapporto di mutua esclusione tra criterio pubblicistico e criterio privatistico, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover puntualizzare, nell’ambito di applicazione dell’art. 2049 cod. civ. i presupposti che possano far ritenere sussistente “l’occasionalità necessaria”.
Per il Supremo Collegio, sebbene l’occasionalità necessaria sia idonea a coinvolgere una peculiare relazione di causalità, considerato che la verificazione del danno conseguenza risulta connessa, in modo intrinseco, all’esercizio dei poteri conferiti da altri, tuttavia tra le diverse categorie giuridiche di causalità, quella che viene in rilievo in questa circostanza è quella della causalità adeguata, dovendosi procedere ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ed ex ante, atto a verificare se la condotta abbia determinato l’evento, inteso in senso naturalistico.
Il preponente pubblico, di conseguenza, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici, a prescindere dal fine soggettivo dell’agente, fatta salva comunque la disciplina in materia di concorso del fatto colposo del danneggiato, e tenuto conto della possibile elisione del nesso causale nei casi di fatto naturale o di fatto del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l’evento.
Gli effetti della sentenza e le sue ricadute problematiche in sede applicativa
La soluzione prescelta dalla Corte ha il pregio di omogenizzare il composito quadro giurisprudenziale in materia, senza ad un tempo realizzare (interamente) una reductio ad unum, una sintesi necessariamente esclusiva, atteso che attraverso un’impostazione sistemica dualistica, si rimette il criterio di imputazione della responsabilità alla natura dell’attività concretamente esercitata dall’Amministrazione.
Nonostante le intenzioni delle SS.UU. siano indubbiamente meritevoli, tale arresto comporta una serie di questioni sede applicativa.
Se una tale opzione garantisce, a parere di chi annota, una tutela risarcitoria piena ed effettiva per il privato, estranea a quelle logiche imperative che molto spesso operano all’interno dell’ordinamento, provocando irragionevoli trattamenti differenziati, tuttavia essa determina un’inevitabile estensione dell’ambito entro cui lo Stato e gli enti pubblici possano effettivamente essere responsabili delle condotte illecite dei propri dipendenti, giungendo in molti casi ad una dilatazione eccessiva. Con conseguenti ricadute anche sui conti pubblici.
Se è vero che il nesso di occasionalità necessaria, richiesto dalla giurisprudenza di legittimità ai fini dell’imputazione della responsabilità derivante da condotta illecita, postuli che essa costituisca lo sviluppo logicamente prevedibile delle funzioni svolte dal dipendente, tuttavia, anche analizzando il processo secondo i criteri della causalità adeguata, si finisce comunque a non poter prescindere interamente dall’indagine soggettiva dell’autore materiale del fatto.
La derivabilità logica di una condotta pur in presenza di condizioni oggettive che l’agevolino, non può che prendere in considerazione anche il fine ultimo che ha mosso il soggetto, e ciò anche in virtù dei più generali principi dell’ordinamento in materia di colpevolezza.
Si finirebbe altrimenti operando, per addossare allo Stato, e dunque all’intera collettività, la responsabilità per tutte quelle condotte illecite realizzate, nell’esercizio delle proprie funzioni ma per il perseguimento di finalità del tutto estranee a quelle di natura pubblicistica, e anzi alle stesse contrarie, tali da legittimare piuttosto una lesione degli stessi interessi statali e idonei a giustificarne la costituzione in qualità di parte civile offesa in sede giudiziale.
Pertanto, sebbene le Sezioni Unite con la sentenza in parola abbiano voluto operare una scelta di compromesso, ancorando il regime di responsabilità al nesso di occasionalità necessaria, ad un tempo mitigando il proprio orientamento restrittivo alla luce del principio di causalità adeguata, tuttavia in tal modo si viene a determinare un serio squilibrio tra le posizioni processuali delle parti, atteso che rende molto più difficile all’Amministrazione dimostrare l’interruzione del nesso di causalità.
Sembrerebbe, in definitiva, che l’impianto normativo di riferimento, un tempo contestato e tacciato di favoritismo nei confronti della salvaguardia degli interessi dello Stato, abbia finito per determinare un trattamento discriminatorio proprio nei confronti dei soggetti pubblici.
[1] Ordinanza interlocutoria n. 28079 del 5.11.2018 (ud. 20.12.2017)
[2] In questo senso, Cass. 12/08/2000, n. 10803; v. anche Cass. 30/01/2008, n. 2089 e Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 12/04/2011, n. 8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 13/12/1995, n. 12786.
[3] Così Cass. 10/10/2014, n. 21408; Cass. 29/12/2011 n. 29727.
[4] Così Cass., VI Sez. pen., 20/01/2015, n. 13799; Cass. V Sez. pen., 35588 del 3.4.2017; Sez. 1, Sentenza n. 2574 del 20/03/1999; Sez. III, Sentenza n. 12939 del 04/06/2007; Sez. L, Sentenza n. 22343 del 18/10/2006.
[5] Cass. 06/03/2008, n. 6033; successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/7/2009, n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829; Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass. 10/11/2015, n. 22956