Casa coniugale alla ex moglie anche se figlia maggiorenne studia fuori sede

in Giuricivile, 2019, 1 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. I civ., sent. 12/10/2018, n. 25604.

Il caso sotteso all’ordinanza in esame trae origine dalla decisione della Corte di Appello di Lecce che, in sede di reclamo, in riforma della decisione circa le condizioni di separazione dei coniugi, ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’assegnazione della casa coniugale alla ex moglie, nonostante la figlia della coppia fosse maggiorenne e, in quanto studentessa universitaria, non stabilmente convivente con la madre.

Indice degli argomenti

I motivi di ricorso

Avverso tale decisione la parte soccombente ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di quattro motivi.

Quello meritevole di pregio in questa sede, poiché ha fornito alla Suprema Corte il pretesto per chiarire i presupposti dell’assegnazione della casa coniugale, è il primo.

Con tale motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, art. 155 c.c., nonché “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione al capo della decisione che ha statuito sull’assegnazione della casa coniugale.

Quest’ultimo, infatti, secondo la ricostruzione del ricorrente, aveva illegittimamente dato prioritario rilievo all’interesse della figlia maggiorenne – sebbene studentessa universitaria e perciò “fuori sede”-, rispetto a quello del figlio minore, costretto, per le relazioni conflittuali dei genitori, ad andare a vivere dalla nonna.

La decisione

Con riferimento al caso in esame, la Cassazione ha chiarito che non vi era stata alcuna violazione dell’art. 155 quater c.c. in quanto la ragazza, maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, sebbene abitasse a Lecce per gli studi universitari, aveva mantenuto un “un collegamento stabile con l’abitazione, nella quale conviveva con la madre” e ciò a differenza del fratello minore, il quale si era volontariamente allontanato, andando a vivere con la nonna (e con il padre), facendo venir così meno il legame alla casa coniugale che giustifica l’assegnazione in favore del genitore convivente.

La Suprema Corte, per sostenere la correttezza di tale assunto ha richiamato testualmente sia l’art. 155 quater c.c. che l’attuale art. 337 sexies c.c., laddove è statuito che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli“.

La ratio di protezione sottesa agli articoli in esame era ed è quella di tutelare “l’interesse a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti (i figli), per mantenere le consuetudini di vita e le relazioni sociali che in esso si radicano”, così come da granitica giurisprudenza pregressa (cfr. Cass. 6979/2007, 16398/2007, 14553/2011, 21334/2013).

L’assegnazione della casa coniugale, infatti, è uno “strumento di protezione della prole (che) non può conseguire altre e diverse finalità” (Cass. 15367/2015) e non rappresenta, né potrebbe farlo, una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio o un modo per realizzare il mantenimento del coniuge più debole.

La Suprema Corte ha ribadito che la scelta cui il giudice è chiamato non può prescindere dall’affidamento dei figli minori o dalla convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti e che la suddetta scelta, invece, non può essere condizionata esclusivamente dalla ponderazione tra gli interessi di natura economica dei coniugi o dei figli, ma è necessario che entrino in gioco, come componenti prioritarie, le esigenze della permanenza di questi ultimi nel loro quotidiano habitat domestico.

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Lecce aveva, secondo la Suprema Corte, giustamente assegnato la casa coniugale alla madre, convivente con la figlia studentessa fuori sede, poiché la stessa, sebbene tornasse saltuariamente nella casa coniugale, aveva mantenuto con la stessa un legame stabile, contrariamente al fratello che sei anni prima aveva scelto di andare a vivere dalla nonna.

Per tali motivi la Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto avverso la decisione della Corte di Appello di Lecce ed ha condannato il ricorrente alle spese processuali del giudizio di legittimità.

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