1 Lo Statuto dei lavoratori nella disciplina delle mansioni
Il datore di lavoro aveva il divieto di dequalificazione il lavoratore, un atto emanato per assegnare il lavoratore a mansioni inferiori alla qualifica di appartenenza, nello specifico per demansionamento viene inteso l’attribuzione a mansioni inferiori alle precedenti, tuttavia i termini assumono lo stesso significato nei testi giuridici. Il lavoratore aveva diritto all’assegnazione di mansioni equivalenti e delle mansioni inserite nel contratto di lavoro, l’articolo 2103 del c.c. così come novellato dall’articolo 13 dello Statuto dei lavoratori disciplinava le mansioni del lavoratore.
Sommario:1 lo statuto dei lavoratori nella disciplina delle mansioni; 2 le mansioni e la qualifica; 2.2 l’inquadramento del lavoratore; 3 il potere del datore di lavoro; 4 la regola dell’equivalenza nelle mansioni;4.2 il percorso della giurisprudenza; 5 il bene giuridico tutelato;6 la retribuzione;7 il divieto di modifica della disciplina;7.2 la dequalificazione lecita:7.3 il ruolo della giurisprudenza; 8 le clausole di fungibilità
Il testo originario anteriore allo Statuto dei lavoratori non tutelava adeguatamente il lavoratore, nonostante la previsione dei limiti legislativi al potere unilaterale del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore, il novellato stabiliva: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto, tuttavia se non è convenuto diversamente, l’imprenditore può, in relazione alle diverse esigenze dell’impresa, adibire il prestatore ad una diversa mansione, purché essa non comporti una diminuzione della retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui. Nel caso previsto dal comma precedente il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, se è a lui più vantaggioso.
La presenza di tali limiti, tuttavia riguardava solo gli spostamenti unilaterali e non il mutamento concordato delle parti, motivo per cui la tutela accordata al lavoratore dalla formulazione originaria non era idonea.[1]
Pertanto la mancata regolamentazione delle modifiche consensuali ha rappresentato il punto più delicato e controverso della vecchia disciplina, non era un modello garantista per il lavoratore, qualsiasi mutamento imposto unilateralmente del datore di lavoro poteva essere realizzato legittimamente in quanto accompagnato dal consenso del lavoratore mosso dal timore di perdere oltre le mansioni lo stesso posto di lavoro. [2]
Per porre rimedio a tali carenze è intervenuto l’articolo 13 dello Statuto dei lavoratori che ha abrogato il testo dell’articolo 2103 del c.c. introducendo una nuova disciplina: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.
L’articolo 2103 del c.c. disciplinava il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva, poteva essere disposta con un provvedimento dal datore di lavoro in via permanente per comprovate ragioni tecniche o organizzative. Il lavoratore poteva richiedere le ragioni del provvedimento datoriale, qualora non erano rispettati i presupposti legali poteva agire per l’accertamento giudiziale e non trasferirsi nell’unità produttiva. I modi di svolgimento delle mansioni rappresentano lo strumento di sostentamento dell’elemento necessario del lavoro ed un momento per la formazione e la crescita del lavoratore nell’impresa.[3]
Per realizzare una maggiore tutela venne stabilito espressamente che il lavoratore non poteva dare il consenso per la modifica della disciplina, infine eliminarono la distinzione fra il cambiamento unilaterale ed il cambiamento consensuale delle mansioni.
2 La mansioni e la qualifica
Per mansione viene indicato l’oggetto dell’obbligazione del lavoratore subordinato, l’attività per la quale il lavoratore è stato assunto, che il datore di lavorato può esigere. Viene in rilievo il principio la contrattualità per le mansioni di assunzione per cui la prestazione è quella determinata al momento della costituzione del rapporto di lavoro attraverso l’indicazione di funzioni specifiche
La mansione è intesa come l’insieme elle funzioni attribuite al lavoratore combinata con altri fattori concorre a formare l’attività lavorativa, l’oggetto del contratto di lavoro.
La qualifica ha una particolare importanza, serve alla determinazione dell’oggetto del contratto di lavoro, pertanto la qualifica rappresenta la prestazione lavorativa dedotta nel rapporto di lavoro, l’obbligazione che il lavoratore deve svolgere.[4]
Per l’elaborazione della nozione di qualifica è intervenuta la giurisprudenza che ha introdotto dei tipi di qualifica che possono essere trovati nell’ambito lavorativo. [5]
La qualifica professionale o potenziale è rappresentato dal complesso delle attitudini e delle capacità del lavoratore indipendentemente dalla sua occupazione in una particolare azienda, tuttavia non conferisce al lavoratore il diritto di essere adibito a mansioni che risultano dalla qualifica o alla percezione di quel determinato trattamento economico.
La qualifica reale è diretta a descrivere le mansioni svolte dal lavoratore e ad individuare la posizione che gli viene attribuita nell’ambito dell’organizzazione aziendale
La qualifica convenzionale viene attribuita al lavoratore al momento di assunzione dal contratto di lavoro.
In particolare la giurisprudenza ammetteva di utilizzare esclusivamente le mansioni di assunzione, ha cambiato orientamento e ha introdotto il ricorso alle mansioni che il lavoratore esercita nell’ambito dell’organizzazione lavorativa.
Le qualifiche raggruppate in modo settoriale nelle categorie che trovano la collocazione nei contratti collettivi di lavoro. L’articolo 2095 del c.c. disciplina le categoria del prestatore di lavoro.
Dunque l’attività che lavoratore si impegna a prestare ha un importanza fondamentale per la determinazione dei diritti e dei doveri nell’ambito lavorativo.[6]
Il lavoratore ha il diritto alla qualifica, le pronunce giurisprudenziali riconoscono un diritto che il lavorato non può negoziare con il datore di lavoro.
La categoria nel rapporto di lavoro designa i raggruppamenti in cui la legge ripartisce tutti i prestatori di lavoro subordinato che sono soggetti di determinate norme. L’articolo 2095 del c.c. disciplina la ripartizione dei lavoratori, viene conferita ai contratti collettivi di lavoro la funzione di determinare i criteri di individuazione per l’appartenenza ad una categoria.
2.2 L’inquadramento del lavoratore
L’attività che il lavoratore deve svolgere ha una funzione fondamentale per determinare i diritti ed i doveri dei lavoratori. Pertanto è importante fare conosce al lavoratore il ruolo che possiede nell’impresa. Attribuite le mansioni di assunzione e si dovrà procedere all’inquadramento individuale del prestatore di lavoro nell’impresa, l’articolo 96 per l’attuazione del c.c. prevede che l’imprenditore deve fare conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione la categoria e la qualifica che gli sono assegnati in relazione alle mansioni per le quali è stato adibito. Le qualifiche dei prestatori di lavoro, nell’ambito di ciascuna delle categorie indicate dall’articolo 2095 del c.c. possono essere stabilite e raggruppate per gradi secondo la loro importanza nell’ordinamento dell’impresa. Il prestatore di lavoro assume il grado gerarchico corrispondente alla qualifica ed alle mansioni. I contratti collettivi possono stabilire, nella situazione di divergenza fra l’imprenditore ed il prestatore di lavoro sull’assegnazione della qualifica, di attribuire l’accertamento dei fatti rilevanti per la determinazione della qualità ad un collegio costituito da un funzionario dell’ispettorato corporativo e da un delegato di ciascuna delle associazioni professionali che rappresentano le categorie interessante. Non sono ammesse nuove indagini e prove, tranne se venga rilevato un errore manifesto nell’accertamento della qualifica. L’importanza, di una esatta determinazione del contenuto del contratto si evince dall’esame della norma, che prevede esplicitamente l’obbligo per il datore di lavoro di far conoscere al lavoratore al momento dell’assunzione la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per le quali è stato assunto. L’articolo 1 del dlsg. n. 152 del 1997 ha introdotto l’obbligo al datore di lavoro di informazione sul livello di inquadramento e la qualifica attribuite entro trenta giorni dall’assunzione del lavoratore.
L’articolo 2095 del c.c. ha introdotto le categorie che servono per attribuire al lavorato un determinato trattamento normativo e retributivo, sono le leggi speciali ed i contratti collettivi di lavoro che devono disporre i requisiti di appartenenza alle categorie.
La giurisprudenza sosteneva che per inquadrare il lavoratore era necessario il controllo delle mansioni di assunzione,[7] ha attribuito successivamente rilevanza alle mansioni effettivamente svolte nell’ambito dell’impresa. [8]
Pertanto il lavoratore ha diritto ad essere inquadrato nella categoria corrispondente alle mansioni effettivamente svolte, trova applicazione il principio di automaticità delle prestazioni, viene determinata la prevalenza delle mansioni effettive del lavoratore, e ricorre il principio dell’effettività delle mansioni convenute, in virtù del quale per l’individuazione dell’esatto inquadramento di un lavoratore hanno rilievo le mansioni da questo effettivamente svolte in maniera stabile e continuativa nell’impresa.[9] Il sistema per classificare il lavoratore è fondato dalle categorie individuate dalla legge e dai requisiti richiesti dall’autonomia collettiva, devono essere integrati con l’effettività delle mansioni svolte dal lavoratore.[10] È consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale nella determinazione della categoria o qualifica da attribuirsi al lavoratore, il giudice del merito deve seguire un procedimento logico che si articola in tre fasi: la prima, rivolta all’accertamento dell’attività lavorativa in concreto svolta, la seconda, diretta all’individuazione delle categorie, qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo applicabile alla specie, la terza, consistente nella determinazione della qualifica concretamente applicabile alle mansioni svolte, mettendo in rapporto il risultato della prima indagine con i testi normativi e contrattuali individuati nella seconda indagine.[11]
L’attribuzione ad una qualifica inferiore era vietata, per gli inquadramenti peggiorativi per il lavoratore, anche consensuali, era prevista la nullità dell’atto. Pertanto l’adibizione del lavoratore in un livello di inquadramento necessitava di un controllo sulle mansioni dedotte dal contratto e delle mansioni svolte o di una valutazione di altri fattori, come l’esperienza, l’autonomia e la responsabilità, che potevano essere valutati nel complesso delle mansioni svolte del lavoratore.
3 Il potere del datore di lavoro
L’art. 2103, primo comma, del codice civile prevedeva che il lavoratore doveva essere adibito a mansioni di assunzione, dalla testo sembrava restare il divieto dello jus variandi, una delle possibili manifestazioni del potere direttivo del datore di lavoro, il potere unilaterale del datore di lavoro di imporre al lavoratore, nel corso del rapporto di lavoro, mansioni eccedenti quelle assegnate al momento della assunzione.
La disciplina precedente allo Statuto dei Lavoratori ammetteva lo jus variandi per esigenze dell’impresa e se non era modificata la posizione sostanziale del lavoratore.
Per jus variandi viene inteso il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore per il soddisfacimento di esigenze organizzative del lavoro, il potere riconducibile a quello direttivo: deve essere conformata l’attività di ogni lavoratore alle esigenze dell’impresa, specificando con il ricorso a direttive ed istruzioni, il contenuto della prestazione lavorativa nell’ambito delle mansioni convenute. Lo jus variandi viene definito come un potere speciale diretto ad imporre al lavoratore compiti eccedenti la prestazione concordata, dalla prospettiva emerge
che lo jus variandi viene assorbito nell’esercizio del potere direttivo appartenente al datore di lavoro.[12]
Il problema fondamentale che pone questo articolo del codice civile è quello dei limiti entro i quali il datore di lavoro può modificare le mansioni di uno o più dipendenti senza ledere i diritti dei lavoratori garantiti anche dalla Costituzione (artt. 2 e 35 Cost.).
La disciplina delle mansioni modificata dallo Statuto dei lavorati non apportava modifiche sostanziali allo jus variandi unilaterale del datore di lavoro,[13] era sostenuto il divieto di adibire il lavoratore a mansioni eccedenti il contenuto delle mansioni convenute. In dottrina era stato sostenuta la tesi consensuale che lo jus variandi era stato soppresso dallo Statuto dei lavoratori dal momento che non erano previsti riferimenti normativi, aveva voluto creare un modello di garanzie per il lavoratori, dovute soprattutto a fattori che hanno comportato la modifica stessa della disciplina, modifica era ammessa con il consenso del lavoratore.[14] In un periodo successivo era stata proposta la tesi panconsenualistica che dimostrava in modo dettagliato le difficoltà di interpretazione della norma, la disciplina sopprimeva lo jus variandi e la modifica proveniente da un atto unilaterale doveva essere fondata sul consenso che le parti avevano manifestato al momento della costituzione del contratto di lavoro, tuttavia riteneva che il potere attribuito dalla precedente disciplina era stato soppresso.[15] Un’altra tesi consolidata aveva confermato il potere del datore di lavoro, che era ammesso per insopprimibili esigenze organizzative, di adibire il lavoratore a mansioni che eccedevano dalla qualifica contrattuale, doveva essere uno spostamento temporaneo che non pregiudicava la retribuzione,[16] l’esercizio illegittimo senza che ricorrevano i presupposti era qualificato come uno sviamento del potere dell’imprenditore.
Un’altra parte della dottrina riteneva che era ammesso lo jus variandi in modo incondizionato se era effettuato nei limiti dell’equivalenza e la volontà del lavoratore non era rilevante.[17] Per accertare la volontà erano considerate le mansioni assegnate dal datore di lavoro. Pertanto non era ammissibile un cambiamento unilaterale di mansioni.[18] La norma serviva a regolare l’esercizio del potere nel rispetto dell’equivalenza, della tutela della del patrimonio lavorativo, della collocazione del lavoratore.[19] La giurisprudenza era intervenuta a regolare l’istituto, aveva sostenuto che lo jus variandi non era stato eliminato, trovava fondamento nelle esigenze organizzative e poteva ricorrere se era soddisfatto il requisito dell’equivalenza, doveva essere tutelata la professionalità del lavoratore e gli doveva essere permessa, nella nuova collocazione, una crescita lavorativa.[20] In particolare le esigenze organizzative non sono mai state soppresse, era ammissibile esercitare potere unilaterale nei limiti previsti dalla legge.[21]La facoltà del datore di lavoro di disporre il trasferimento veniva giustificata da un criterio di gestione, il controllo del giudice non poteva effettuato sulla ragionevolezza della scelta imprenditoriale.[22]
La violazione della norma imperativa contenuta nell’art. 2103 cod. civ. e la nullità del provvedimento datoriale di trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva implicano che la conseguente condanna all’adempimento dell’obbligazione in forma specifica, per sua natura non coercibile, assume nella sostanza natura dichiarativa delle obbligazioni e dei diritti derivanti dal rapporto dedotto in causa, con conseguente obbligo del datore di lavoro al ripristino della precedente situazione lavorativa in base alle regole del contratto di lavoro, senza che ostino, a tal fine, le successive vicende estintive dell’obbligo, rilevanti solo agli effetti del risarcimento del danno.[23] Il trasferimento del lavoratore ad una sede di lavoro diversa da quella dove prestava precedentemente servizio, pur potendo essere previsto come sanzione disciplinare dalla contrattazione collettiva, la quale è abilitata a individuare sanzioni diverse da quelle tipiche previste dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, non assume tale natura ove il datore di lavoro si limiti ad esercitare lo “ius variandi” riconosciutogli dall’art. 2103 cod. civ., allegando la sussistenza di un giustificato motivo tecnico, organizzativo e produttivo per il mantenimento del luogo di lavoro (nella specie, la soppressione dell’attività presso il luogo di origine ed il suo accentramento nella nuova sede), e non è pertanto assoggettato alle garanzie previste dai commi terzo e quarto dell’art. 7 e dalla contrattazione collettiva, le quali devono invece assistere il successivo licenziamento intimato al lavoratore per la sua protratta assenza dalla nuova sede di servizio, configurandosi tale provvedimento come sanzione disciplinare, in quanto il predetto comportamento costituisce una tipica inadempienza degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro.[24]
La norma non specificava dove trovasse origine la modifica delle mansioni, regolava l’esercizio con l’introduzione di limiti allo spostamento de lavoratore, doveva essere soddisfatto il requisito della necessaria equivalenza. Erano utilizzate le mansioni di assunzioni e le ultime mansioni svolte dal lavoratore.
4 La regola dell’equivalenza delle mansioni
La regola dell’equivalenza trovava applicazione per quasi tutte le vicende modificative delle mansioni dedotte dal contratto, temporanea o permanente, che spostava il lavoratore su altre posizioni o lo predisponeva ai compiti diversi nella stessa posizione del lavoratore.[25]
L’art. 2103 c.c. conferiva al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Prima delle modifiche operate dal legislatore del ‘70, la norma subordinava, in caso di conflitto, l’interesse del lavoratore a quello dell’impresa: tra le esigenze dell’impresa e quelle relative alla tutela del patrimonio professionale dei lavoratori, le prime prevalevano sulle seconde, tenuto conto anche situazione di inferiorità in cui versava in quel periodo il prestatore di lavoro, essendo esposto al potere di licenziamento ad nutum da parte datoriale. A seguito dell’entrate in vigore dello statuto dei lavoratori, con l’art. 13 di detta legge la situazione è stata radicalmente modificata. La norma, infatti, era diretta non più a garantire prioritariamente il datore di lavoro, bensì a contemperare i contrapposti interessi del lavoratore e del datore di lavoro. Pertanto erano riconosciuti gli interessi dei lavoratori, veniva tutelata la professionalità in armonia con alcuni principi costituzionali: il combinato disposto degli artt. 4 e 35 Cost. delinea una tutela del lavoro inteso non solo come fonte di sostentamento, ma soprattutto come strumento che garantisce la dignità e la personalità del lavoratore. Dunque una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2103 c.c. permette di cogliere più nel profondo il significato di quest’articolo: il diritto alla mansione convenuta al momento dell’assunzione ovvero a mansioni compatibili con la qualifica e la categoria di appartenenza consente di apprestare una più efficace e pregnante tutela del patrimonio professionale del lavoratore e gli consente di esplicare al meglio la propria personalità.
Inoltre il legislatore ha tenuto in considerazione anche gli interessi dell’impresa. Era posto l’accento sull’interesse dell’imprenditore, ex art. 41 Cost., ad un impiego elastico delle prestazioni lavorativa in funzione dell’organizzazione produttiva. [26]
La norma indicava un generico criterio relazionale, che lasciava aperta la questione dei referenti alla stregua del quale doveva essere effettuato il giudizio di equivalenza, la giurisprudenza è intervenuta in materia. In particolare per essere equivalenti le mansioni dovevano essere collocate dal contratto collettivo di lavoro nello stesso livello d’inquadramento. Pertanto l’inquadramento inferiore delle mansioni assegnate era circostanza per la violazione della norma.
Tuttavia la disciplina del mutamento delle mansioni fondata sull’equivalenza delle mansioni, comportava notevoli difficoltà pratiche di individuazione aggravate dal conflitto fra il garantismo e la flessibilità del lavoro. Era consolidato che l’equivalenza era prospettabile se le mansioni permettevano l’utilizzazione ed il perfezionamento del livello di professionalità raggiunto dal lavoratore, non poteva essere configurabile se le nuove mansioni comportavano lo stravolgimento del patrimonio professionale del lavoratore, tale evenienza non ricorreva automaticamente se le nuove mansioni erano diverse dalle ultime svolte, spettava al lavoratore che deduceva l’illegittimo esercizio dello ius variandi dimostrare come le nuove mansioni non gli permettevano di utilizzare il bagaglio lavorativo maturato nel tempo. La norma mostrava la volontà del legislatore di imporre come termine di raffronto, ai fini della valutazione dell’equivalenza, non le mansioni che il prestatore possa ricoprire prima della nuova adibizione, bensì quelle definitive ed effettive che lo stesso abbia ricoperto per ultime. La nozione di equivalenza era riferita al contenuto professionale delle mansioni. Era certamente tra i poteri del datore di lavoro, quindi, quello di modificare le mansioni del lavoratore purché ciò avvenga nei limiti della equivalenza e delle condizioni previste dall’art. 2103 cod. civ.
La nozione di equivalenza era stata interpretata dalla giurisprudenza che ha elaborato due criteri di equivalenza delle mansioni: un criterio oggettivo ed uno soggettivo. Una equivalenza in senso oggettivo era realizzabile se le mansioni erano riconducibili allo stesso livello categoriale. Una equivalenza in senso soggettivo se era prospettabile una tendenziale assimilabilità dei contenuti professionali dei nuovi compiti ai precedenti. Nel tempo si sono susseguiti due scenari interpretativi dell’equivalenza: uno formale e uno sostanziale, Era emerso il dubbio se fosse sufficiente l’equivalenza formale, ancorata alle previsioni della contrattazione collettiva e non sindacabile dal giudice o se quest’ultimo, invece, dovesse indirizzarsi soprattutto su un’analisi in concreto, avendo una considerazione relativa dell’inquadramento formale.[27]
La giurisprudenza era unanime nel ritenere che l’equivalenza formale (equivalenza di inquadramento basata sull’autonomia collettiva) era soccombente rispetto a quella sostanziale. Le mansioni dovevano necessariamente appartenere allo stesso livello di inquadramento.[28] L’idea che la contrattazione collettiva era idonea da sola ad adattare il concetto di equivalenza alle specificità dell’organizzazione del lavoro era un’idea che non aveva trovato più riscontri, venne integrata dal requisito della professionalità del lavoratore. Nonostante la dottrina avesse consigliato una maggiore attenzione per le valutazioni operate in ambito negoziale, le quali rappresentano una ragionata sintesi tra le esigenze dei nuovi modelli produttivi e gli interessi dei lavoratori, la giurisprudenza che si accontentava del solo requisito formale venne superata in virtù di nuove esigenze nell’ambito lavorativo.[29]
Dunque il punto più critico era stato il concetto di equivalenza sostanziale delle mansioni. Era importante stabilire quale poteva essere il criterio in base al quale era possibile conferire al prestatore di lavoro mansioni diverse, rispettando il livello di inquadramento assegnato o successivamente acquisito, così come disposto dalla norma, in particolare venne stabilito che per un interpretazione completa della nozione di equivalenza era necessario considerare la professionalità del lavoratore. Pertanto le nuove mansioni dovevano essere collocate nel livello di inquadramento individuato dal contratto collettivo e tutelare la professionalità del lavoratore.
4.2 Il percorso giurisprudenziale
Sono stati elaborati criteri per stabilire come individuare la professionalità del lavoratore, lo statico tutelava la professionalità acquisita ed il dinamico la potenziale capacità del lavoratore.[30] In seguito all’emanazione dello Statuto dei lavoratori era stato avvertito nell’equivalenza un limite rigido ai poteri dell’imprenditore, La giurisprudenza aveva sostenuto l’orientamento statico che richiedeva le nuove mansioni dovessero consentire un impiego pressoché integrale del patrimonio professionale utilizzato in precedenza, richiedendo a tal fine l’omogeneità tra le mansioni pregresse e quelle successivamente assegnate. Ciò, per conseguenza, restringeva fortemente lo jus variandi datoriale, ritenne che per avere l’equivalenza era necessario che le mansioni fossero collocate nello stesso livello di inquadramento, dunque potevano essere considerate equivalenti le mansioni con le stesse attività, qualità e retribuzione. Era diffusa l’opinione che le nuove mansioni dovevano consentire al lavoratore l’utilizzo del bagaglio di nozioni, di esperienza e di perizia acquisito dal lavoratore nella fase precedente del rapporto, pertanto veniva conservato il patrimonio lavorativo, che era considerato come un bene da tutelare. Il consolidato indirizzo giurisprudenziale “statico” è sintetizzato in alcune sentenze. Per tale orientamento le nuove mansioni potevano essere considerate equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto se veniva tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, nel senso che la nuova collocazione gli consentiva di utilizzare il patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa,[31] l’equivalenza fra le nuove mansioni e quelle precedenti era intesa non solo come identità di valore professionale e di inquadramento contrattuale, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto; in assenza di tali requisiti il mutamento di mansioni era illegittimo essendo irrilevante che detto sia determinato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Pertanto il sistema era fortemente riduttivo, impediva di adibire il lavoratore a mansioni diverse che, pur essendo equivalenti dal punto di vista professionale, tuttavia richiedevano un bagaglio di conoscenze e professionalità non omogenee a quelle già possedute dal prestatore di lavoro.
Delle pronunce avevano introdotto altri elementi per determinare la professionalità del lavoratore, attribuivano rilevanza al potere di autonomia ed alla responsabilità che avevano nelle precedenti mansioni.[32]
In dottrina era sostenuto che lo Statuto dei Lavoro aveva imposto al datore di lavoro l’obbligo di funzionalizzare lo spostamento delle mansioni alla crescita del lavoratore.[33] Era stato sostenuto che il lavoratore doveva utilizzare la professionalità acquisita ed aumentare le esperienze lavorative.[34] La crescita professionale non imponeva un obbligo di formazione al datore di lavoro.[35]
L’orientamento dinamico, invece, era sostenuto dalla maggioranza della dottrina dal 1980 da una parte minoritaria della giurisprudenza. La logica giuridica di questo filone trovava fondamento nell’idea evolutiva del concetto di professionalità da tutelare, la quale non è concepita come un elemento acquisito una volta per tutte, ma basata su una capacità professionale potenziale del lavoratore. Si accettava anche che quest’ultimo era adibito a mansioni completamente diverse, pur senza mutamento di livello. Era una nozione più elastica di equivalenza, incentrata sul «saper fare» e sul «poter fare» piuttosto che sull’assoluta continuità con quanto si è fatto e si è dimostrato di essere capaci di fare, voleva essere ridimensionato il ruolo della professionalità acquisita e valorizzata la capacità professionale potenziale del lavoratore. [36] Un sistema sensibile alle esigenze di flessibilità dell’organizzazione, era valorizzata la propensione del lavoratore a nuove mansioni, che dovevano permette al lavoratore di aumentare la qualità nel lavoro. Il provvedimento di assegnazione del lavoratore a mansioni comportanti un aumento dei poteri del bagaglio lavorativo era legittimo, l’equivalenza non era violata[37]
L’esistenza, per così dire, delle esperienze e della capacità lavorative era condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente fosse in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, era sostenuto che permetteva al lavoratore d’incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto. Inoltre era stato riconosciuto in una pronuncia che le esigenze aziendali potevano estendere la nozione di equivalenza.[38] Se è vero che le nuove mansioni affidate al dipendente debbono essere coerenti con la specifica competenza da lui maturata, ciò non significa che il lavoratore che abbia acquisito una esperienza nell’ambito di un determinato settore dell’azienda non possa mai essere trasferito ad altro settore nell’ambito del quale egli venga chiamato ad affrontare problemi diversi o a dover soggiacere ad una organizzazione del lavoro concepita con modalità diverse rispetto a quelle afferenti la precedente mansione: ciò che importa, nel rispetto della tutela delineata dall’art. 2103 c.c., è che, attraverso l’affidamento di compiti nuovi, del tutto estranei rispetto all’attività precedentemente svolta ed alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente, compromettendo altresì irrimediabilmente le sue prospettive di carriera all’interno dell’impresa cui appartiene.
In sostanza, il rispetto della professionalità del lavoratore subordinato non si traduce necessariamente nella continuazione delle medesime operazioni lavorative effettuate in precedenza, potendosi esso esprimere anche in tutti i casi in cui, pur nel contesto di una diversa attività lavorativa, l’esperienza professionale ivi maturata poteva ritenersi utile alfine del miglior espletamento della prestazione richiesta. In tale ipotesi, infatti, il quadro complessivo delle attitudini professionali del lavoratore non veniva ristretto, ma al contrario era ampliato, potendo il lavoratore, già forte dell’esperienza acquisita, arricchire il proprio bagaglio professionale attraverso l’effettuazione di una esperienza nuova a lui affidata proprio in considerazione della consapevolezza dei problemi che egli ha già affrontato nel corso della pregressa attività. Una parte della dottrina sosteneva che doveva essere valorizzata la posizione del lavoratore. La centralità della posizione sostanziale del lavoratore dell’ambito dell’impresa.[39] Un’altra dottrina riteneva che l’autonomia collettiva era idonea per l’individuazione di quegli elementi necessari per determinare l’equivalenza.[40]
Tali elementi in entrambe le prospettive, statica e dinamica, sono state integrati da altri collegati all’azienda e con l’obiettivo di garantire in modo ulteriore la posizione raggiunta: la posizione gerarchica, l’autonomia decisionale, la responsabilità amministrativa, il potere di controllo, le prospettiva di sviluppo di carriera ed il prestigio che possiede. Lo spostamento era legittimo se la nuove mansioni consentivano al lavoratore conservare il suo patrimonio professionale e di perfezionare l’attività lavorativa. La norma tutelava il saper fare e la capacità potenziale, pertanto le nuove mansioni dovevano valorizzare l’esperienza del lavoratore, doveva essere applicata nel senso che la tutela apprestata comportasse che la professionalità non dovesse essere di valore inferiore a quella richiesta per le precedenti mansioni.
5 Il bene giuridico tutelato
Per applicare la norma ed effettuare la comparazione nell’ambito dell’equivalenza richiesta la dottrina ha tentato di dare un significato complessivo alla disposizione, sulla ratio e sull’individuazione del bene giuridico tutelato.
La disposizione normativa tutelava diversi interessi del lavoratore, interessi patrimoniali e non patrimoniali.
La norma prevedeva l’interesse patrimoniale a conservare la retribuzione. Naturalmente per lo spostamento doveva esser rispettata la regola dell’equivalenza, le mansioni dovevano avere lo stesso livello di professionalità, pertanto emergeva che l’interesse non patrimoniale era la professionalità del lavoratore. Era un limite per al potere del datore di lavoro, la proiezione della personalità del lavoratore nell’ambito dell’impresa. In dottrina era stato sostenuto che la professionalità era l’oggetto del contratto di lavoro subordinato;[41] nell’ambito lavorativo l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva comporta che la tutela per la retribuzione deve essere estesa alla personalità del lavoratore. Nelle mansioni di nuova adibizione doveva essere conservata l’attitudine a manifestare le capacità del lavoratore, venne da alcuni autori ritenuto che le mansioni sono la sintesi della professionalità, necessarie a definire il debito contrattuale del lavoratore. [42]
Lo Statuto dei lavoratori ha come obiettivo principale riconoscere ai lavoratori i diritti fondamentali nell’ambito lavorativo e predisporre gli strumenti necessari per la tutela. Nelle mansioni di nuova adibizione deve essere conservata l’attitudine a manifestare le capacità del lavoratore. Nella norma anteriore allo Statuto dei Lavoratori veniva tutelato l’interesse dell’impresa, attribuire lo jus variandi per esigenze organizzative. Nella visione corporativa era l’impresa che aveva un ruolo fo fondamentale nella vita economica, il lavoro era funzionale alla produttività. La Costituzione aveva introdotto i diritti per i lavoratori, l’intervento legislativo era servito per fare emergere altri interessi nella disciplina delle mansioni. Era emersa la tutela alla professionalità del prestatore di lavoro. Pertanto la professionalità era considerato un bene giuridico del lavoratore.
6 La retribuzione
Il diritto del lavoratore a percepire la retribuzione non poteva essere sacrificato per l’adibizione a mansioni che non prevedevano quella percepita. Sono intervenute delle pronunce che tutelavano la retribuzione complessiva,[43] in un periodo successivo hanno escluso alcune indennità come quelle connesse a fattori ambientali.[44] Lo jus variandi non poteva comportare una modifica del livello retributivo che le precedenti mansioni assicuravano al lavoratore.
L’obbligazione della retribuzione costituisce la prestazione fondamentale del datore di lavoro e serve per il sostentamento del lavoratore e della sua famiglia. La retribuzione è individuata in relazione ai livelli di inquadramento del lavoratore. Il trattamento retributivo è costituito dalla retribuzione e da indennità erogata per prestazioni aggiuntive o svolte in modo particolare.[45]
Per l’assegnazione legittima a mansioni equivalenti la retribuzione che non poteva essere modificata era il corrispettivo della prestazione ordinaria, mentre erano escluse quelle le prestazioni accessorie che servivano a coprire un rischio specifico del lavoratore o legati ad altri fattori, pertanto le indennità non caratterizzavano le nuove mansioni. In dottrina era stata formulata la tesi garantista che valorizzava il rigore testuale e non ammette una modifica del trattamento retributivo. [46]
Un’altra parte della dottrina aveva riconosciuto la conservazione all’indennità legata alla professionalità del lavoratore e la esclude alle indennità per le prestazioni che non devono essere esercitate.[47]
Era accolto l’orientamento che separa gli elementi del trattamento retributivo, pertanto restavano fuori dalla norma le indennità del sottosuolo, di cassa, di rischio, di maneggio del denaro, di lavoro usurante, di turno, di reggenza, di programmatore presso il centro elettronico; le erogazioni risarcitorie e restitutorie per sostenere le spese imposte dalle esigenze dell’impresa.[48]
La garanzia non era apprestata per la retribuzione di prestazioni eventuali che non dovevano essere svolte dal lavoratore. Inoltre i lavoratori non potevano richiedere l’uso gratuito di abitazioni o di strumenti per la reperibilità che non erano necessari nelle nuove mansioni. Costituivano gli elementi della retribuzione da percepire le erogazioni corrisposte per le capacità specifiche del dipendente che permanevano nonostante il cambiamento di mansioni.[49] Le indennità attribuite per le qualità essenziali della precedente prestazione, per le difficoltà e per le capacità tecniche ed intellettuali: erano le indennità professionali conservate se le nuove mansioni non garantivano il precedente livello di reddito al lavoratore. È necessario distinguere le indennità corrisposte in considerazione delle qualità professionali intrinseche alle mansioni da quelle indennità corrisposte in ragione delle particolari modalità della prestazione lavorativa; mentre le prime, data la loro stretta attinenza alla professionalità conseguita dal lavoratore per effetto dell’espletamento di mansioni complesse o implicanti particolari cognizioni tecnico-scientifiche, non possono essere soppresse dal datore di lavoro, le seconde, se pur erogate sempre in funzione di corrispettivo della prestazione lavorativa restano escluse dalla garanzia della irriducibilità della retribuzione, in quanto vengono corrisposte solo per compensare particolari disagi o difficoltà e non possono perciò essere pretese quando vengano meno le speciali situazioni che le abbiano generate. Da ciò consegue che, una volta venute meno le suddette condizioni, viene meno anche la giustificazione del compenso del lavoratore.
7 Il divieto di modificare la disciplina
Il datore di lavoro non poteva modificare del lavoratore le mansioni in violazione dell’equivalenza, erano vietate le eventuali rinunce o transazioni ,i negozi disciplinati dall’articolo 2113 del c.c. per l’impugnazione dell’avvenuta dequalificazione.
La norma anteriore allo Statuto dei lavoratori consentiva una modifica delle mansioni con il consenso del lavoratore.
La tesi rigida sosteneva che non potevano essere apportate modifiche alla disciplina, “ogni patto contrario è nullo” veniva inteso come uno strumento per escludere qualunque variazione del divieto, tale impostazione è flessibilizzata nel tempo a delle esigenze. Pertanto il demansionamento non poteva essere giustificato da un interesse del lavoratore. Nel caso di sopravvenute esigenze il lavoratore doveva essere licenziato e non demansionato. La disciplina delle mansioni non poteva essere modificata anche se disposta nell’interesse dal lavoratore, per apportarla era necessaria una novazione del rapporto di lavoro. Un’altra tesi introdotta per temperare l’applicazione rigorosa del testo ammetteva il demansionamento per evitare il licenziamento del lavoratore, per esigenze connesse alla vita dell’azienda. per il controllo sui patti venivano considerati gli interessi che avevo permesso il demansionamento del lavoratore. Per l’applicazione il patto doveva essere legittimo, l’impostazione nasceva dall’esigenza di tutelare il lavorare nell’organizzazione dell’impresa. Il divieto di variazioni “in peius” opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori. Nell’effettuare tale comparazione non è sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali ed a condizione che risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.[50] Per l’assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l’equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione della norma se le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore.[51]
7.2 La dequalificazione lecita
Sono previste delle situazioni in cui d’adibizione a mansioni inferiori è oggetto di una disciplina specifica. Devono essere tutelate la altre esigenze che hanno rilevanza giuridica.
Il criterio dell’equivalenza è stato sacrificato per salvaguardare l’integrità del lavoratore. L’articolo n. 3 della legge n. 1204 del 1971 appresta la tutela alla lavoratrice che durante il periodo di gestazione e fino a 7 mesi dopo il parto, se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli per la salute, devono essere adibite ad altre mansioni eventualmente inferiori a quelle abituali, conservano la retribuzione. Il d.l. n. 645 del 1996 emanato in attuazione della direttiva comunitaria n.92/85/CEE del 1992 per le misure di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro delle lavoratrici madri ha confermato la tutela apprestata.
L’articolo 5 del d.l. 645 del 1996 prevede che per la presenza di un rischio alla sicurezza e alla salute delle lavoratrici, il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie per evitare l’esposizione al rischio e può modificare le condizioni di lavoro. La legge 1204 del 1971 attribuisce la facoltà all’Ispettorato del Lavoro di disporre l’interdizione dal lavoro, se la lavoratrice non può essere adibita ad altre mansioni. L’obbligo di spostamento alle mansioni non vuole decurtare il datore di lavoro del potere di organizzazione. [52]
L’articolo 20 della legge n. 482 del 1968 ha riconosciuto al datore di lavoro il potere di adibire il lavoratore invalido a mansioni inferiori per assicurare un occupazione nell’impresa. La disciplina non prevede tutele per la qualifica di appartenenza e per la retribuzione. L’articolo 10 della legge 68 del 1999 ha disciplinato nel dettaglio la materia, viene tutelata la salute del lavoratore.
L’articolo 6 della legge 190 del 1985 attribuisce alla contrattazione collettiva il potere di determinare il periodo di maturazione del diritto alle mansioni superiori in modo difforme alla disciplina ordinaria. Un’altra eccezione è rappresentata dai lavoratori in esubero nelle procedure di mobilità, il licenziamento può essere evitato con un accordo che consenta la loro adibizione a mansioni inferiori e può essere applicata anche alle società partecipate pubbliche, i lavoratori rimasti in esubero possono chiedere di essere ricollocati in una qualifica inferiore presso la società che ha attivato la procedura o in un’altra società, l’articolo 4 comma 11 e 24 della legge n. 223 del 1991 disciplinano di procedure di mobilità del personale, rendono ammissibile, previo accordo sindacale, l’assegnazione del personale in eccedenza a mansioni inferiori a quelle svolte, la ratio è la necessità di salvaguardare l’interesse del lavoratore all’occupazione nell’azienda, l’eccezione alla regola dell’equivalenza consolidata era configurabile se lo spostamento era l’unica alterativa per evitare il licenziamento dovuto a ristrutturazione aziendale il lavoratore poteva chiedere di essere demansionato. Il patto era concluso sul presupposto della perdita dalla validità dell’interesse tutelato dalla disciplina delle mansioni, deve essere conservato il posto di lavoro che è un bene giuridico fondamentale per il che non può essere sacrificato per il mantenimento della mansioni di assunzione del lavoratore. L’articolo 8 della legge 277 del 1991 prevede che il lavoratore esposto ai rischi biologici nel rapporto di lavoro viene allontanato per motivi sanitari e può essere adibito a mansioni inferiori con lo stesso trattamento retributivo. Sono i contratti collettivi di lavoro che devono determinare il tempo di adibizione del lavoratore. Un eccezione è rappresentata dalla dequalificazione di lottizzazione delle mansioni nel giornalismo che vedono sacrificata la professionalità deli lavoratori che sono classificati in relazione al gruppo politico di appartenenza, pertanto viene lesa la personalità del lavoratore.
7.3 Il ruolo delle pronunce giurisprudenziali
Sono intervenute le pronunce giurisprudenziali sul divieto di demansionare il lavoratore. Il divieto dei patti creava una serie di dilemmi emersi in giurisprudenza che aveva introdotto delle eccezioni all’equivalenza. Infatti del sentenze avevano sostenuto di limitare il diritto del lavoratore per delle ragionevoli esigenze aziendali, avevano legittimato il demansionamento per la presenza di fattori estranei alla volontà del datore di lavoro mosso dalla generale contrazione dell’attività imprenditoriale. Era giusto dire che l’adibizione a mansioni inferiori soggette alle stesso trattamento economico non contrastava con la legge, per le sopravvenute scelte imprenditoriali comportanti ristrutturazioni aziendali portate da esigenze produttive.
Era necessario andare a trovare le giuste esigenze aziendali che avrebbero comportato la deroga alla regola all’equivalenza, lo Statuto dei lavoratori aveva abolito il parametro delle esigenze dell’impresa e aveva creato questo dubbio esegetico che doveva essere affrontato dai giudici, che dovevano evitare che un’eccessiva tutela poteva provocare un danno allo stesso lavoratore. La giurisprudenza aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica a svolgere le mansioni per le quali è stato adibito se il datore di lavoro non aveva provveduto alla ricollocazione del lavoratore a mansioni diverse da quelle che non possono essere eseguite. Deve essere tutelato il posto di lavoro che prevale sull’eventuale demansionamento del lavoratore invalido che non riesce al svolgere le precedenti mansioni.[53]
Il patto di dequalificazione viene utilizzato per evitare in situazioni particolari il licenziamento del lavoratore, permette l’adibizione del lavoratore ad altre mansioni che non ledono la dignità e la liberta del lavoratore.
I lavoratori divenuti invalidi durante il rapporto di lavoro possono essere licenziati solo se non possono essere adibiti a mansioni disponibili in azienda. Viene realizzato un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto supportata dall’interesse del lavoratore. il datore di lavoro nel demansionare deve tutelare il principio di solidarietà, il diritto alla salute, il diritto ad una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia, deve essere conservata la sua crescita nell’azienda. L’affidamento temporaneo di mansioni inferiori era riconosciuto legittimo per esigenze straordinarie e per la sostituzione di un lavoratore assente, nel caso di sciopero e con il consenso del sostituto. Le pronunce hanno sostenuto che le i presupposti per l’applicazione delle eccezioni dovevano essere cercate nelle leggi di emergenza. La legge n.215 del 1978 prevede che nella situazione di crisi aziendale ed a difesa dell’occupazione non viene applicato l’articolo 2112 del c.c. per la prosecuzione del rapporto di lavoro per l’alienazione dell’azienda che permette la perdita di determinati diritti del lavoratore. la legge n. 863 del 1984 riconosce ai contratti collettivi di lavoro il potere di modificare le mansioni per la difesa dell’occupazione e per la promozione della nuova occupazione. La legge n. 56 del 1987 ha introdotto nuovi contratti di lavoro per la difesa dell’occupazione. Un’ulteriore creazione per superare il divieto di introdurre patti contrari era ravvisabile in quelle pronunce che giungevano a sostenere che la nullità non operava se il cambiamento di mansioni era stato disposto a richiesta del lavoratore per soddisfare un interesse personale non collegato al datore di lavoro. Dunque non era ammessa esclusivamente per salvare il posto di lavoro, il demansionamento poteva riguardare la situazione in cui era presente una richiesta del lavoratore, era mosso da motivi che potevano essere rilevanti per l’accertamento della volontà. Viene riconosciuta la validità alla rinuncia unilaterale del lavoratore. Tuttavia la decisione di cambiare mansione non doveva essere stata sollecitata dal datore di lavoro.
Nello specifico il patto che modificava l’esercizio dello jus variandi era nullo, tutelava l’interesse del datore di lavoro, ma il patto che regola le mansioni era ammesso, tutela l’interesse del lavoratore. In particolare viene riconosciuta la prevalenza del diritto al lavoro.
La dequalificazione vietata è rappresentata dalla situazione per cui il lavoratore resta privo di assegnazione di funzioni, non può esplicare la professionalità nell’impresa; il lavoratore aveva il diritto di essere assegnato alle mansioni della qualifica di appartenenza.
8 Le clausole di fungibilità
La disciplina dell’equivalenza delle mansioni è stata esaminata nelle sue coordinate di riferimento tradizionali, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale che ha interessato l’art. 2103 Cod. Civ. nella versione post statutaria. In tale contesto, si è osservato come i modelli regolativi della mobilità orizzontale adottati nell’impiego privato fossero caratterizzati da un evidente divario, con il modello pubblico ritenuto da taluno incolmabile. Guardando agli sviluppi più recenti, tuttavia, si aveva l’impressione che la frattura esistente tra i due ordinamenti era in via di progressiva ricomposizione.[54] Negli ultimi anni, infatti, la materia era sottoposta ad una serie di tensioni reciproche che sembra aver innescato uno scambio mutualistico di regole, metodologie e strumenti applicativi, tali da indirizzare l’assetto normativo verso un possibile punto di coesione interna.
In un primo momento, il processo di avvicinamento fra i modelli di accertamento dell’equivalenza professionale muove dal privato verso il pubblico, ponendo quale sintomatico punto di svolta la sentenza n. 25033 del 2006 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Chiamata a verificare se la clausola di fungibilità contenuta nell’art. 46 del Ccnl Poste Italiane fosse compatibile con la nozione legale di equivalenza ha sostenuto che la contrattazione collettiva è autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale, prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra mansioni anche dal contenuto professionale differente, per sopperire a contingenti esigenze aziendali, ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica, senza incorrere nella sanzione della nullità comminata dal secondo comma dell’art. 2103 Cod. Civ.
In effetti, il principio sancito dalla Cassazione non rappresentava una novità assoluta nel panorama della giurisprudenza di legittimità. In un passato molto più lontano, infatti, si era già affermato che anche il passaggio da mansioni impiegatizie a mansioni operaie può essere conforme ai principi dell’art. 2013 Cod. Civ., qualora le posizioni di partenza e di destinazione siano collocate nel medesimo livello di inquadramento e purché sussista una adeguata riqualificazione professionale dei lavoratori coinvolti. [55] Tuttavia, la pronuncia del 2006 contiene un passaggio forse ancor più significativo, perché ha rappresentato il primo atto del più moderno filone giurisprudenziale che allarga il baricentro della disposizione codicistica oltre il terreno classico del garantismo individuale, fino a coprire quello, sinora meno esplorato, del garantismo collettivo. Non a caso, a partire da questa sentenza si è registrata una crescente valorizzazione dell’autonomia sindacale. L’utilizzo delle clausole di flessibilità funzionale delle mansioni era diffuso nei sistemi di classifica del personale, pertanto l’interesse per la gestione collettiva della mobilità orizzontale non costituiva più una novità nell’esperienza delle relazioni industriali italiane, così come non lo era più la sperimentazione di tecniche di ingegneria organizzativa che sollecitavano una metamorfosi della professionalità dei lavoratori.
Peraltro, la tendenza alla determinazione convenzionale dei rapporti di equivalenza sembrava destinata a crescere ulteriormente in conseguenza delle recenti misure legislative che collegavano la detassazione del salario di produttività ad interventi in materia di fungibilità delle mansioni e di integrazione delle competenze. A ciò si aggiunge la revisione della disciplina delle mansioni contenuto nel “jobs act” che ha inteso offrire una copertura legale alle deroghe all’art. 2103 Cod. Civ. individuate nella precedente disciplina attraverso una delicata opera di mediazione giudiziaria.
Questi interventi, da realizzarsi anche in sede di contrattazione aziendale o territoriale, hanno precluso ad una negoziabilità dello jus variandi direttamente modellabile sulle singole realtà imprenditoriali, schiudendo scenari ancora incerti sulla tenuta delle garanzie di tutela della dignità professionale dei lavoratori. Ad ogni modo, nella posizione assunta dai giudici di legittimità si poteva già scorgere un implicito segnale di riavvicinamento al modello operazionale del settore pubblico, dove sono state proprio le peculiarità degli assetti organizzativi delle amministrazioni, unite alla revisione dei sistemi di inquadramento, ad aver giustificato la devoluzione della materia alle organizzazioni sindacali e a favorire l’adozione di un concetto di equivalenza di tipo formale, che permette di bypassare le difformità di contenuto professionale fra le mansioni oggetto di comparazione.[56] In particolare quella maggiore stabilità applicativa propria del settore pubblico (dovuta anche all’eliminazione della variabile interpretativa giudiziale) che nell’attuale stagione di crisi appare un obiettivo cruciale anche sul versante privato.
Beninteso, il citato orientamento giurisprudenziale non si spingeva fino al punto di affermare l’insindacabilità delle previsioni della contrattazione collettiva. In realtà, sebbene tra le righe delle numerose decisioni non sia difficile intuire che il risultato voluto dai giudici fosse proprio quello di attribuire una patente di legittimità (quantomeno presuntiva) alle valutazioni convenzionali formulate in sede negoziale, si precisa comunque che le parti sociali erano tenute a muoversi all’interno della prescrizione posta dal primo comma dell’art. 2103 Cod. Civ. e non potevano quindi introdurre clausole che, attraverso un accorpamento convenzionale, comportassero una fungibilità fra le precedenti mansioni e le nuove mansioni che esprimevano una diversa professionalità. Si tratta di una chiave di lettura fondamentale per evitare fughe in avanti rispetto alla pur ampia elasticità interpretativa concessa dall’art. 2103 Cod. Civ.
È proprio attraverso questo passaggio, infatti, che una pronuncia aveva potuto salvaguardare da una parte il consolidato acquis sulla natura legale del concetto di equivalenza, e richiamare dall’altra l’interprete ad una verifica rigorosa circa le ragioni aziendali (di avvicendamento, di riqualificazione, di salvaguardia dei livelli occupazionali, ecc.) che avrebbero potuto essere invocate dalle parti sociali per supportare le operazioni di mobilità orizzontale su mansioni dal contenuto professionale diverso.[57] La fungibilità era utilizzata per sopperire le esigenze aziendali e per valorizzare la professionalità del lavoratore. Pertanto era stato sostenuto che il contratto collettivo di lavoro poteva prevedere la fungibilità per le mansioni della stessa qualifica che non comportassero una violazione della norma, essenziale era la tutela della professionalità del lavoratore.
1 E. Minale Costa, Percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Giappichelli Editore, Torino 2001, pag. 106
2 L. Mengoni, Il contratto di lavoro, Vita e Pensiero, 2004, pag.60
[3] M. N. Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli Editore, Torino 2014, pag.21
4 C. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag, 3
5 D. Napoletano, Categorie qualifiche e mansioni nel rapporto di lavoro, Edizioni Pem, Novara 1982, pag. 7
[6] M. Novelli Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli Editore, Torino 2014, pag.21
6 C. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag, 9
7 Corte di Cassazione
8 Corte di Cassazione 1994 n.6981 , Corte di Cassazione 1983 n. 47
9 C. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag, 12
10 M. Novella Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Gipappichelli Editore, Torino, pag. 24
11 Ex multis, Corte di Cassazione sez.lav.5 febbraio 2004, n. 2164; id. 12 febbraio 2004, n. 2731; e nel merito, Tribunale di Roma 7 luglio 2004
12 M. Novelli Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli Editore, Torino 2014, pag. 25
13 La norma del 1942 comportava che il datore di lavoro non poteva chiedere le mansioni che non sono inserite nella qualifica assegnata al lavoratore. Tuttavia la disciplina era temperata per la presenza di esigenze organizzative
14 Ichino, il lavoro subordinato definizione e inquadramento, Milano, 1992
15 G. Suppiej, Il potere direttivo dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo Statuto dei lavoratori, in AA.VV., pag.25, C. Pisani, La modifica delle mansioni, Milano, 1996, pag. 15
16 A. Persiani, Diritto del lavoro e autorità dal punto di vista giuridico, in dir. lav. 2000, pag, 3, U. Romagnoli, Commento all’articolo 13, in AA.VV, Statuto dei diritti dei lavoratori, Roma 1972, pag.224
17 L. Mengoni, Il contratto di lavoro, Vita e Pensiero, 2002, pag.83
18 Enrica Minale Costa, Percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Giappichelli Editore, Torino 2001, pag. 109
19 Corte di Cassazione 2010 n. 23493
20 Corte di Cassazione 2010 n. 7045
21 Maria Novelli Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli Editore, Torino 2014, pag. 39
22 Corte di Cassazione 1997 n. 6124
23 Corte di Cassazione 1988 n. 539
24 Corte di Cassazione 1991 n. 6832
25 E. Minale Costa, Percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Giappichelli Editore, Torino 2001, pag. 123
26 Maria Novelli Bettini, Mansioni del lavoratore e flessibilizzazione delle tutele, Giappichelli Editore, Torino 2014, pag. 47
27 Corte di Cassazione 1985 n. 301; Corte di Cassazione 1985 n. 5098
28 Corte di Cassazione 1986 n. 539; Corte di Cassazione 2006 n. 1388
29 Corte di Cassazione 2013 n.15010; Corte di Cassazione 2006 n. 25033
30 C. Pisani, La nuova disciplina delle mansioni, Giappichelli Editori, Torino 2015, pag. 25
31 Corte di Cassazione 2013 n.15769; Corte di Cassazione 2013 n. 15010; Corte di Cassazione 2006 n. 25033
32 Corte di Cassazione 1997 n. 11522; Corte di Cassazione 1996 n. 576; Corte di Cassazione 1987 n. 87
33 U. Romagnoli, Statuto dei Lavoratori, in Commentario al codice civile, Bologna Roma 1979, pag.; 185Angiello, Innovazione tecnologia e mobilità del lavoratore, in Dir. lav. 1986, pag.278; Corte di Cassazione 2008 n. 2493
34Corte di Cassazione 1993 n.24293
35 Corte di Cassazione 1995 n. 9715
36 Corte di Cassazione 1985 n. 5098; Corte di Cassazione 1985 n. 1038; Corte di Cassazione 1984 n. 5921
37 Corte di Cassazione 2008 n. 4000; Corte di Cassazione 2001 n. 2948; Corte di Cassazione 2000 n. 1157
38 Corte di Cassazione 2013 n. 12725
39 F. Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Milano, 1982, pag.175
40 M.Brollo La mobilità interna del lavoratore, in Commentario al Codice Civile, Milano 1997, pag.142; Ferluga, Tutela del lavoratore e disciplina delle mansioni, Milano 2012, pag.74
41 In tal senso gli esponenti della dottrina, Alessi, Galantino; Marazza, Guariello
42 C.Alessi, Professionalità e contratto di lavoro, Giuffrè, Milano 2004, pag.85
48 Corte di Cassazione 1978 n.429
44 Corte di Cassazione 1992 n 390, Corte di Cassazione 1987 n. 9487
45 E. Minale Costa, Percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Giappichelli Editore, 2001 pag. 105
46 In tal senso gli esponenti della dottrina: Mazzotta, Angiello
47C. Pisani, Mansioni e trasferimento nel lavoro privato e pubblico, Giappichelli Editori, Torino 2009, pag.28
48 Suppiej, Mansioni del lavoratore, in Commentario allo Statuto dei Lavoratori, diretto da Prosperetti Milano 1975, pag.359
49 Maurizio Tatarelli, I poteri del datore di lavoro privato e pubblico, Cedam 1996, pag. 26
50 Tribunale di Milano sez. Lavoro del 24 gennaio 2011
51 Corte di Cassazione n. 1575 del 2010
52 E. Minale Costa, Percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Giappichellli Editore, Torino 2001, pag.121
53 E. Minale Costa, I percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Giappichelli Editori, Torino 2001, pag.125
54 Alessandro Riccobono Riv. Giuridica 2015
55 Carlo Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag.34
56 Carlo Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Giappichelli Editore, Torino 2015, pag.36