La responsabilità precontrattuale della P.A., oggi pacificamente ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, risente inevitabilmente delle riflessioni dei civilisti sull’omologo istituto vigente nel diritto privato.
E’ indubbio che la perfezione concettuale tipica del diritto privato “… si impone anche negli altri settori perché fornisce un linguaggio formalizzato idoneo a organizzare razionalmente la conoscenza giuridica dei fenomeni. In altri termini, gli strumenti concettuali del diritto privato hanno costituito la base per elaborare anche quelli del diritto pubblico e amministrativo, nonostante la progressiva e sempre più intensa elaborazione di istituti speciali nell’ambito delle esperienze di diritto amministrativo… “[1].
Per inquadrare correttamente gli ambiti applicativi (invero sempre più ampi) della responsabilità precontrattuale in capo alla P.A., occorre necessariamente partire dalla disciplina civilistica.
La responsabilità precontrattuale nel diritto civile
La disciplina della responsabilità precontrattuale è contenuta negli artt. 1337 e 1338 c.c. che sono inseriti nel Titolo II, Libro IV, del codice civile dedicato ai “ contratti in generale “.
Il primo articolo pone a carico delle parti coinvolte in una trattativa precontrattuale l’obbligo di comportarsi secondo buona fede.
Il secondo, che costituisce una specifica declinazione dell’obbligo di informazione che è uno degli obblighi nascenti dal generale precetto di buona fede, disciplina una peculiare ipotesi di responsabilità precontrattuale in capo a chi, conoscendo o dovendo conoscere una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte.
La particolarità di quest’ultima disciplina è rappresentata dal fatto che il soggetto che ha stipulato un contratto invalido (sub specie annullabile, non potendo la disposizione de qua trovare applicazione, per la giurisprudenza dominante, nelle ipotesi di nullità del contratto per violazione di norme imperative in quanto la legge richiede espressamente che la parte lesa abbia confidato senza sua colpa nella validità del contratto, in applicazione del principio ignorantia legis non excusat) potrà agire, nei confronti della controparte che ha violato lo specifico obbligo informativo, con l’azione di annullamento del contratto e chiedere il risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale.
O, in alternativa, limitarsi ad agire solo con l’azione risarcitoria se l’azione di annullamento si sia prescritta o se il contraente, legittimato ad agire con l’annullamento, abbia interesse a preservare la validità del contratto, sia pur viziato.
Il dovere di diligenza e di correttezza nelle trattative precontrattuali
La dottrina tradizionale definiva la responsabilità precontrattuale come culpa in contrahendo e la riconduceva al regime della responsabilità aquiliana, di cui agli art. 2043 e ss. c.c..
Invero, quel che l’articolo 1337 c.c. impone alle parti coinvolte in una trattativa precontrattuale non è un canone di diligenza ma di correttezza. Sia la diligenza sia la correttezza sono clausole generali e, pertanto, principi non giuridici e non determinabili a priori in quanto dipendenti dal contesto di riferimento, che il legislatore sussume in una norma giuridica dando così ai medesimi valenza normativa.
È altresì evidente la differenza tra le due clausole generali, la prima disciplinata dall’art. 1176, la seconda prevista in via generale dall’art. 1175 c.c., e poi ripresa in diverse disposizioni del codice del 1942 (art. 1337 e 1338, 1358, 1375 ecc.).
La diligenza rappresenta una regola esecutiva posta a carico del debitore che, nell’eseguire la prestazione, dovrà, per l’appunto, improntare la propria condotta al canone di diligenza. La correttezza, invece, è una regola relazionale alla quale le parti, avvinte da un rapporto obbligatorio, devono uniformare la propria condotta in tutte le fasi del rapporto medesimo.
Il dovere di correttezza costituisce una manifestazione del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.[2] “Il generale dovere di solidarietà si intensifica, si rafforza e si trasforma in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati; momenti che generano, unilateralmente o talora anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva.”[3]
Tale obbligo ( che, invero, trova applicazione in ogni ambito in cui ci sia una relazione qualificata tra consociati), con riferimento specifico ai rapporti contrattuali, è strumentale all’esercizio della libertà negoziale che trova anch’essa un fondamento costituzionale costituendo espressione della libera iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.
È da considerarsi, nell’attuale contesto storico sociale, destituita di fondamento l’interpretazione, maturata a seguito dell’entrata in vigore del codice del 1942, secondo la quale l’obbligo di correttezza doveva intendersi strumentale alla sola conclusione del contratto essendo questo uno strumento volto a massimizzare i valori della produzione.
Era questa la visione dei compilatori del codice del 1942 “per i quali l’art. 1337 rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale” [4]. La reazione negativa del legislatore del 1942 nei confronti della attività prenegoziale di una delle parti trovava, dunque, la sua principale ragion d’essere nel fatto che quest’ultima, interrompendo la trattativa, impediva la nascita di quei valori meritevoli di tutela che il contratto (sfumato o invalidamente concluso) avrebbe perseguito.
In un contesto costituzionalmente orientato che mette al centro i valori dell’individuo, l’obbligo di buona fede diviene una propagazione del dovere di solidarietà sociale e uno strumento per tutelare la libertà negoziale dei consociati, con contestuale estensione dell’ambito applicativo che non può essere ristretto alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto, o comunque esista una trattativa “ affidante “. Ciò che è necessario e sufficiente affinché possa dirsi sorto a carico delle parti l’obbligo di buona fede è che tra le stesse sussista un contatto relazionale.
Pertanto, con specifico riferimento alle trattative precontrattuali, se è vero che le parti che trattano “un affare”, in base alla libertà negoziale che l’ordinamento riconosce loro, possono recedere dalle trattative medesime in qualunque momento, e pur vero che questo diritto risulta bilanciato dall’obbligo di correttezza che ciascuna parte ha nei confronti dell’altra o delle altre parti coinvolte nelle trattative.
La violazione dell’obbligo di correttezza può comportare la lesione del legittimo affidamento che controparte ha riposto nell’altrui comportamento corretto, e esporre l’ autore del comportamento scorretto all’obbligo di risarcire il danno nei limiti del cd interesse negativo, dell’interesse, cioè, a non essere coinvolto in trattative inutili.
L’interesse negativo, al pari di quello positivo, è costituito, ex art. 1223 c.c., dal danno emergente, pari alle spese inutilmente sostenute in vista della stipula del contratto, e dal lucro cessante, pari alle occasioni perdute a causa delle energie infruttuosamente impiegate per la conclusione del contratto.
Le parti coinvolte in trattative precontrattuali, e pertanto legate da una relazione ( che assume, per la dottrina e, invero, anche per la giurisprudenza quasi dominante, le connotazioni di un contatto sociale qualificato ), debbono, dunque, informare la propria condotta al canone di buona fede che si sostanzia in una serie aperta di obblighi reciproci, non identificabili a priori, in quanto mutevoli nel tempo e evidentemente influenzati dal contesto ordinamentale e sociale nel quale si innestano.
Dall’obbligo di buona fede si fanno discendere, a carico delle parti, l’obbligo di segretezza, che si sostanzia nell’obbligo di non divulgare a terzi informazioni riservate e acquisite nel corso dello svolgimento delle trattative, l’obbligo di chiarezza, che si sostanzia nell’obbligo di utilizzare un linguaggio chiaro e comprensibile, l’obbligo di custodia, che si sostanzia nell’obbligo di custodire accuratamente il bene oggetto del futuro contratto. E ancora l’obbligo di informazione, che si sostanzia nell’obbligo di rilevare all’altra parte le circostanze rilevanti ai fini dell’affare, e che trova, come sopra detto, nell’art. 1338 c.c., una puntuale declinazione.
Il risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale
L’eventuale violazione di tale obbligo espone la parte inadempiente all’obbligo di risarcire il danno a titolo di responsabilità precontrattuale, con diverse conseguenze, che rivestono una particolare rilevanza soprattutto in merito all’onere della prova e al termine prescrizionale, a seconda che si aderisca alla tesi che riconduce siffatta responsabilità alla responsabilità da contatto sociale qualificato (assoggettandola al regime della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.) o invece alla tesi che configura la responsabilità in esame quale species della responsabilità aquiliana, con conseguente applicazione della disciplina di cui agli art. 2043 e ss.
Qualificare la responsabilità precontrattuale in termini di responsabilità aquiliana determina, in primis, come effetto che debba essere il danneggiato a provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, compresa la colpa ( o il dolo ) del danneggiante. L’azione risarcitoria, poi, soggiace al termine prescrizione quinquennale ( ex art. 2947 c.c. ) anziché all’ordinario termine decennale.
Ma della tutt’ora controversa natura giuridica della responsabilità in esame, si tratterà in prosieguo nell’esame della responsabilità precontrattuale della P.A..
Basti solo anticipare che la vexato quaestio sembra essere stata implicitamente risolta dalla interpretazione data, in sede nomofilattica, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la recente sentenza n. 5/2018.
L’obbligo di buona fede in capo alla P.A. nelle procedure a evidenza pubblica
È pacificamente ritenuto che anche la P.A. debba informare la propria condotta all’obbligo di buona fede. E ciò non solo nei procedimenti a evidenza pubblica, dei quali si dirà in seguito, ma anche nello svolgimento dell’attività autoritativa.
Nell’esercizio dell’attività autoritativa (che un tempo rappresentava la principale modalità di esercizio dell’attività amministrativa) l’amministrazione è tenuta a rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza.
A seguito dell’entrata in vigore della legge 241/1990, come successivamente modificata più volte dal legislatore nel corso della sua quasi trentennale vigenza, i rapporti tra cittadino ed amministrazione sono notevolmente mutati e è oramai pacifico che quest’ultima debba improntare, nelle relazioni con i consociati, il proprio comportamento ai doveri civilistici di lealtà e correttezza.
Invero è lo stesso articolo 1 della citata legge che richiama, tra i principi generali che devono improntare l’attività amministrativa, quelli dell’ordinamento comunitario. E tra questi, seppur non espressamente codificato dai Trattati, ma più volte affermato dalla Corte di Giustizia, si inquadra il già citato principio di tutela del legittimo affidamento che costituisce il contraltare dell’obbligo di correttezza.
“Il dovere della p.a. di operare in modo chiaro e lineare e di rispettare le situazione consolidate di legittimo affidamento costituisce principio dell’azione amministrativa le cui radici si fanno sempre più robuste. Nel diritto pubblico, la teorizzazione dei limiti del potere amministrativo in funzione protettiva dell’affidamento del cittadino è storicamente comparso quale fattore di bilanciamento tra l’intensità dell’interesse pubblico e quello dell’interesse privato meritevole di considerazione per il fatto di trarre scaturigine da un precedente atto dell’amministrazione. Se, in principio, la rilevanza attribuita all’interesse del destinatario del provvedimento favorevole è inizialmente discesa dalla configurazione del potere di autotutela come potere di amministrazione attiva in cui l’interesse del cittadino riceve una tutela “oggettiva” risultante dal corretto uso del potere discrezionale, i più recenti approdi dimostrano come la tutela pubblicistica dell’affidamento ben possa realizzarsi quale posizione soggettiva autonoma dotata di diretta protezione da parte dell’ordinamento (e, dunque, anche al di fuori della valutazione che si compie in ordine agli atti di ritiro).”[5]
L’eventuale violazione, da parte della P.A., dei doveri di correttezza, nel corso di procedimenti amministrativi, può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, lesiva del diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè della libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza.
Siffatta responsabilità, che la giurisprudenza più recente riconduce, sia pure non unanimemente, alla responsabilità da contatto sociale qualificato, e pertanto assoggetta al regime della responsabilità di tipo contrattuale ex art. 1218 c.c., consegue, come detto, alla violazione delle regole procedimentali dell’attività amministrativa.
E deve pertanto essere distinta dalla responsabilità da provvedimento illegittimo, nella quale si realizza la lesione dell’interesse oppositivo o pretensivo dovuta all’esercizio illegittimo del potere autoritativo (o anche al mancato esercizio dell’attività amministrativa): in tal caso la posizione lesa dall’attività illegittima della P.A. è rappresentata dal bene della vita alla quale la posizione di interesse legittimo si correla, cosicché la responsabilità della P.A. è da ricondurre nell’alveo della responsabilità aquiliana.[6]
Il privato, nel caso in cui agisca per ottenere il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, deduce, non la violazione di regole comportamentali, ma la lesione alla posizione giuridica di cui risulta titolare a causa dell’illegittimità dell’esercizio del potere amministrativo.
Siffatta responsabilità, invero, può configurarsi anche nel corso di procedure ad evidenza pubblica laddove il privato lamenti il danno scaturito da un provvedimento illegittimo assunto dalla P.A. nel corso di una procedura di gara. Si pensi al caso di illegittima esclusione da una gara o, per converso, di illegittima aggiudicazione a una impresa concorrente. In tal caso il privato, che agisce in giudizio con l’azione risarcitoria (in disparte, in quanto non aderenti al tema in esame, le riflessioni sull’effettivo superamento, anche nello scrutinio del merito, della cd pregiudiziale amministrativa), lamenta il pregiudizio che il provvedimento illegittimo ha cagionato alla propria posizione di interesse pretensivo.
Tale responsabilità è definita dalla dottrina come responsabilità precontrattuale “impropria” o “spuria”, per distinguerla da quella oggetto della presente trattazione che, invece, viene definita “ pura” o “propria “ . Ed è una fattispecie di responsabilità solo cronologicamente connessa alle trattative ma ontologicamente molto diversa giacché non collegata alla violazione del principio di buona fede.
L’estensione dell’obbligo di buona fede in capo alla P.A. è ancora più evidente laddove quest’ultima pone in essere procedure a evidenza pubblica che si connotano per la contemporanea presenza di regole pubblicistiche e privatistiche.
La dottrina tradizionale, partendo dall’assunto che, anche dopo l’individuazione del contraente, la P.A. rimanesse titolare del potere discrezionale di valutare la corrispondenza all’interesse pubblico del contratto da stipulare, escludeva la configurabilità in capo alla P.A. di siffatta responsabilità. In buona sostanza, la posizione giuridica del contraente individuato quale aggiudicatario, a seguito della procedura a evidenza pubblica, veniva configurata come posizione di interesse legittimo al corretto esercizio da parte della P.A. del potere discrezionale, con conseguente impossibilità, da parte del giudice, di esercitare un controllo giudiziale sull’esercizio di poteri discrezionali né tantomeno di riconoscere una tutela di tipo risarcitorio a una posizione qualificata come di interesse legittimo.
Già a partire dagli anni sessanta, la giurisprudenza[7], recependo l’indirizzo della dottrina più autorevole, ha iniziato a riconoscere, nelle procedure di affidamento mediante trattative private (oggi procedure negoziate), l’obbligo della P.A. di osservare le regole di correttezza e buona fede, accanto alle regole di legittimità e convenienza dell’agere amministrativo. Cosicché si è cominciato a sostenere che il giudice dinanzi al quale si radica la controversia (all’epoca giudice ordinario trattandosi di controversie afferenti a posizioni di diritto soggettivo) è chiamato a valutare la correttezza del comportamento dell’amministrazione, nella sua veste di contraente privato, con conseguente possibilità di riconoscere la responsabilità dell’amministrazione ex art. 1337 c.c..
Suddetta apertura era però limitata ai soli casi nei quali la P.A. ponesse in essere trattative private, e non già quando agisse in posizione autoritativa, come appunto nelle procedure a evidenza pubblica. Pertanto, la responsabilità della P.A. era essenzialmente ammessa laddove si fosse verificato un recesso ingiustificato da trattative condotte iure privatorum.
Alla fine degli anni ’90 si è registrata una prima apertura della giurisprudenza di legittimità a riconoscere la responsabilità precontrattuale della P.A. anche nel caso di procedure a evidenza pubblica, sia pure limitatamente alla peculiare ipotesi in cui la P.A., dopo aver aggiudicato l’appalto, si rifiutasse di addivenire alla stipula del contratto. [8]
Né bisogna dimenticare, nel compiere questa breve disamina, che l’entrata in vigore della L.205/2000 ha determinato il passaggio di tutte le controversie relative alle procedure a evidenza pubblica ( ivi incluse quelle risarcitorie ) alla giurisdizione del G.A., in sede di giurisdizione esclusiva, e quanto sopra è stato confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 6/2005.
Il percorso giurisprudenziale di ampliamento delle fattispecie di responsabilità precontrattuale della P.A. è poi proseguito negli anni duemila, quando la giurisprudenza di legittimità ha ammesso la configurabilità, in capo alla P.A, di ulteriori ipotesi di responsabilità precontrattuale per comportamento scorretto nell’ambito delle procedure a evidenza pubblica. Si intende far riferimento all’indirizzo giurisprudenziale, espresso con la nota pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione Civile del 2008[9], che ha riconosciuto la responsabilità precontrattuale della P.A., limitatamente alla fase finale della procedura di scelta del contraente, e pertanto nella fase in cui quest’ultimo, da mero partecipante a una procedura di gara, assuma la veste di parte contrattuale. Invero già l’Adunanza Plenaria, con la succitata pronuncia n. 6/2005, aveva riconosciuto la responsabilità precontrattuale della P.A. in caso di revoca dell’aggiudicazione di un appalto per mancanza di risorse finanziarie.
La responsabilità della P.A., chiaramente qualificata come responsabilità da comportamento illecito e non da provvedimento illegittimo, perché lesiva dell’affidamento ingenerato nella controparte nella fase di formazione del contratto, è stata riconosciuta sussistente in presenza di atti di autotutela adottati dalla P.A. ( annullamento o revoca dell’aggiudicazione ) che, seppur legittimi, sono stati ritenuti dal giudice scorretti, e pertanto fonte di obblighi risarcitori, nei confronti del soggetto già individuato quale aggiudicatario. L’orientamento sopra esposto esclude, comunque, la configurabilità della responsabilità precontrattuale nella fase procedimentale che precede l’aggiudicazione della gara e circoscrive l’ obbligo risarcitorio solo nei confronti dell’aggiudicatario che ha subito un danno a causa dell’esercizio scorretto dei poteri di autotutela provvedimentale degli atti di gara.
Il succitato orientamento restrittivo è stato, però, in seguito criticato dalla giurisprudenza amministrativa che ha sostenuto che, sebbene la procedura a evidenza pubblica si connoti per una doppia natura, pubblicistica e privatistica, è pur vero che gli atti che la caratterizzano, indipendentemente dalla loro natura, devono essere letti in un rapporto di logica successione, tutti tendenti insieme alla stipulazione del contratto. Il procedimento negoziale, che si affianca al procedimento amministrativo retto da regole di diritto pubblico, risulta disciplinato da regole di diritto privato finalizzate alla formazione della volontà contrattuale, che contemplano normalmente un invito a offrire della P.A., cui segue la proposta della controparte e l’accettazione della P.A. La presenza di un modello formativo della volontà contrattuale predeterminato mediante la scansione degli atti sopra indicati non costituisce un ostacolo all’applicazione delle regole civilistiche dettate in materia di responsabilità precontrattuale. Non è possibile, a giudizio del supremo organo di giustizia amministrativa, “ scindere il momento di sviluppo del procedimento negoziale, limitando l’applicazione delle regole di responsabilità precontrattuale alla fase in cui il contatto sociale viene individualizzato con l’atto di aggiudicazione”[10].
La giurisprudenza di legittimità, in prosieguo, si è allineata a siffatta interpretazione ammettendo la configurabilità della responsabilità precontrattuale anche nella fase pubblicistica che precede l’aggiudicazione e sostenendo che “ in materia, si è in presenza di una formazione necessariamente progressiva del contratto, non derogabile dalle parti, che si sviluppa secondo lo schema dell’offerta al pubblico e in cui l’amministrazione entra in contatto con una pluralità di partecipanti al procedimento negoziale, con ciascuno dei quali instaura trattative ( cd multiple o parallele ) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dalla presentazione delle offerte.” [11] E nell’ambito di ciascuno di questi rapporti qualificati, sia pur non personalizzati, la giurisprudenza di legittimità individua l’obbligo della P.A. di comportarsi secondo buona fede, e ciò a prescindere dal diritto all’aggiudicazione del partecipante/vittima del comportamento scorretto. Con la conseguenza che la violazione di siffatto obbligo, posto a tutela del legittimo affidamento della controparte ( o, meglio, delle controparti ), comporta di per sé l’obbligo di risarcire il danno alla vittima ( o alle vittime ) del comportamento scorretto, nei limiti, ovviamente, del già qualificato interesse negativo.
Ma l’orientamento espresso dal giudice amministrativo, e confermato dalla giurisprudenza di legittimità, è stato, di recente, nuovamente ribaltato dal primo.
Difatti, il Consiglio di Stato, con diverse pronunce registrate nel periodo 2015- 2017[12], è tornato alla tesi originaria limitando la responsabilità precontrattuale della P.A. nei soli casi di violazione delle regole di condotta nella fase di formazione del contratto e escludendo siffatta responsabilità nella fase antecedente alla scelta del contraente, sull’assunto che gli aspiranti alla posizione di contraenti sono partecipanti a una gara e sono solo titolari di una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio da parte della P.A. del potere autoritativo. Cosicché solo l’aggiudicatario, ove la P.A. ritiri, con un comportamento scorretto, l’aggiudicazione, può agire in giudizio lamentando la lesione del legittimo affidamento.
La responsabilità precontrattuale alla luce del revirement della recente Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
È stato proprio questo revirement della giurisprudenza amministrativa a favore di un’interpretazione restrittiva della responsabilità precontrattuale della P.A. che ha indotto la terza sezione del Consiglio di Stato a rimettere, con ordinanza del 24 novembre u.s., all’Adunanza Plenaria la questione relativa agli effettivi ambiti applicativi di siffatta responsabilità.
In sintesi, la terza sezione del Consiglio di Stato ha chiesto all’Adunanza Plenaria di chiarire se il concorrente a una procedura di gara pubblica che non sia stato ancora dichiarato aggiudicatario possa, a fronte dell’esercizio da parte delle P.A. di poteri di autotutela avverso gli atti della procedura, invocare la responsabilità precontrattuale di quest’ultima.
La Plenaria, con un’articolata pronuncia resa nel maggio scorso, dopo aver ricostruito la ratio e l’ambito applicativo ( nei termini già sopra delineati ) dell’obbligo di buona fede di cui alla disciplina codicistica, ha contestualizzato, con specifico riferimento alla P.A., la portata di siffatto obbligo, specificando che esso ha confini sempre più estesi, proprio in considerazione della riconducibilità dello stesso al dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e al suo essere strumentale all’esercizio della libertà negoziale.
Il massimo organo di giustizia amministrativa, in sede nomofilattica, ha ribadito che la P.A. è tenuta a rispettare, anche nell’esercizio dell’attività autoritativa, oltre alle regole di diritto pubblico, la cui violazione implica, di norma, l’illegittimità del provvedimento, anche le norme generali dell’ordinamento civile, e in particolare il precetto di buona fede. L’eventuale violazione dell’obbligo di correttezza, da parte della P.A., determina, anche laddove quest’ultima eserciti poteri autoritativi, profili di responsabilità da comportamento illecito per lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione della libertà negoziale.
Con specifico riferimento, poi, all’obbligo di correttezza che grava sulla P.A. nell’espletamento delle procedure a evidenza pubblica, l’Adunanza Plenaria dà una lettura molto ampia di siffatto obbligo con conseguente estensione degli ambiti applicativi della responsabilità precontrattuale anche in capo alla P.A., al pari di quanto i civilisti ritengono, da tempo, sussistente nel diverso contesto del diritto privato ( ove addirittura si riconosce la responsabilità precontrattuale in capo al terzo a causa del particolare status rivestito o perché interessato a una trattativa precontrattuale che si svolge inter alios ).
Il dovere di correttezza deve improntare il comportamento della P.A. in tutte le fasi della procedura di gara, e pertanto anche prima e a prescindere dall’aggiudicazione. Limitare l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, nell’ambito dei procedimenti a evidenza pubblica, solo alla fase successiva all’adozione dell’aggiudicazione, si pone in contrasto, a giudizio dell’organo nomofilattico della giustizia amministrativa, con gli orientamenti giurisprudenziali che estendono, come sopra detto, siffatto obbligo anche all’attività autoritativa della P.A.
Invero, a supporto di una lettura ampiamente estensiva dell’obbligo di correttezza in capo alla P.A., la Plenaria cita pure talune disposizioni normative dalle quali emerge, ictu oculi, l’assoggettamento generalizzato della P.A. alla clausola generale cristallizzata nel codice civile.
A parte il già citato articolo 1 della legge 241/1990 che impone il rispetto dei principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali spicca la tutela del legittimo affidamento, viene menzionato, a supporto dell’applicazione generalizzata di tale obbligo, l’articolo 2 bis comma 1 della sopracitata legge 241 che pone a carico della P.A. l’obbligo di risarcire il cd danno da ritardo provvedimentale. Ricorda la Plenaria come, secondo l’interpretazione più accreditata, “con tale norma il legislatore – ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo, che si configura a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento (ad esempio, il diniego di autorizzazione o di altro provvedimento ampliativo adottato legittimamente, ma violando i termini di conclusione del procedimento).
Il danno deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale: il ritardo nell’adozione del provvedimento genera, infatti, una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione.”[13]
Al fine però di ritenere sussistente siffatta responsabilità precontrattuale, la Plenaria ritiene non sufficiente la prova, da parte del privato, della propria buona fede soggettiva, e pertanto dell’ affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere attività economicamente onerose.
Al dichiarato scopo di bilanciare le contrapposte libertà negoziali del privato coinvolto nelle trattative precontrattuali e dell’amministrazione pubblica, e nel contempo garantire il prioritario interesse pubblico alla cui tutela è preordinato il riconoscimento, in capo alla P.A., di ampi poteri di autotutela provvedimentale degli atti di gara, la Plenaria ritiene debba essere posto a carico del privato l’onere di provare, non solo l’an e il quantum del danno subito ( sia in termini di danno evento che di danno conseguenza ), ma anche la condotta antidoverosa della P.A., in concreto lesiva dell’obbligo di buona fede, e l’imputabilità soggettiva di detta condotta all’amministrazione, in termini di colpa o dolo.
In buona sostanza, la Plenaria, che nelle premesse della pronuncia in esame non si è espressa in merito alla riconducibilità della responsabilità precontrattuale alla responsabilità da contatto sociale o alla responsabilità aquiliana, nel porre a carico del privato gli oneri probatori sopra enucleati, sembra aderire, anche se con specifico riferimento alla responsabilità precontrattuale della P.A., alla tesi che riconduce siffatta responsabilità a quella aquiliana.
[1] A. Lalli, Pubblico e privato: Le tendenze di lungo periodo e la recente disciplina in materia di società partecipate dai pubblici poteri, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, n.7/2016
[2] Da ultimo, Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188.
[3] Da ultimo, Adunanza Plenaria n. 5/2018
[4] Già citata, Adunanza Plenaria n. 5/2018
[5] Ex multis, Tar Lombardia, sez. I n. 291/2013
[6] Ex multis, Cass. Civ., Sez. 1 n. 14188/2016, già citata
[7] Cassazione, Sez. Un. 12 luglio 1961, n. 1675
[8] Cass. Sez. Un. N. 4673/1997
[9] Cass. Civ., Sezioni Unite, 12 maggio 2008, n. 11656
[10] Cons. Stato Sez. VI, sent. N. 4236 e n. 5638 del 2012.
[11] Cass. Civ., Sez. I, n. 15260 del 3 luglio 2014
[12] Ex multis, Cons. Stato, Sez III, n. 3748/2015; Cons. Stato, Sez V, n. 1599/2016
[13] Gia citata Adunanza Plenaria n.5/2018.