Le sopravvenienze nel corso del rapporto contrattuale: quali rimedi?

in Giuricivile, 2018, 5 (ISSN 2532-201X)

Con il termine sopravvenienze si intendono le situazioni di fatto o di diritto che si verificano successivamente alla stipula del contratto e che possono a vario titolo incidere su di esso. Per questo si suole parlare anche di vicende del contratto, al fine di evidenziare che esse sono eventi che incidono sul contratto inteso quale rapporto, non già quale atto di sintesi dei contrapposti interessi delle parti.

Invero, nei contratti sinallagmatici le prestazioni dei contraenti sono strettamente connesse da un nesso di interdipendenza, nel senso che la prestazione di una parte è funzionalmente connessa a quella dell’altra, con la conseguenza che, laddove una delle due prestazioni non venga adempiuta, risulti impossibile o comunque, a causa di sopravvenienze che incidono sull’equilibrio economico del rapporto, risulti inidonea a soddisfare l’interesse della controparte, quest’ultima ha il diritto di chiedere lo scioglimento del contratto.

L’inadempimento contrattuale e la risoluzione

In quest’ottica, può ricondursi nel novero delle sopravvenienze anche l’inadempimento di una delle parti, quantunque esso non rappresenti un aspetto esterno al contratto, bensì un elemento interno allo stesso ed inerente ad uno dei contraenti.

Non a caso in tale ipotesi il legislatore prevede quale rimedio la risoluzione per inadempimento, ossia un rimedio che non riguarda i vizi genetici del contratto, bensì una vicenda sopravvenuta che incide fortemente sul nesso di interdipendenza che lega le due prestazioni nei contratti sinallagmatici.

Invero, in passato ci si era interrogati sul fondamento giuridico di tale rimedio che da taluni era stato rinvenuto in una presunta condizione risolutiva implicita presente in tutti i contratti a prestazioni corrispettive, che subordinava l’efficacia del contratto all’adempimento altrui, mentre altra parte della dottrina lo aveva ravvisato in un difetto causale.

In realtà, nessuna delle soluzioni proposte si è rivelata pienamente soddisfacente sul piano dogmatico e disciplinatorio e, peraltro, è stato subito chiaro che il dibattito in ordine al fondamento giuridico del rimedio, se poteva ritenersi interessante sotto la vigenza del codice del 1865, presentava una scarsa rilevanza pratica dopo il varo del codice civile che l’aveva espressamente positivizzato.

Dal dato normativo, infatti, si ricava che l’inadempimento grave di una delle parti di un contratto sinallagmatico giustifica in sé l’esperibilità del rimedio de quo, senza che siano necessarie articolate ricostruzioni dogmatiche.

La risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c., dunque, può considerarsi un primo strumento per la gestione delle sopravvenienze che, lato sensu, incidono sulla causa del contratto, in quanto l’inadempimento stesso fa venir meno quella stretta correlazione tra le prestazioni che rappresenta l’essenza stessa dei contratti sinallagmatici.

Occorre precisare, però, che, come già accennato, non può parlarsi di un difetto di causa in senso stretto, perché in tal caso verrebbe in rilievo un vizio genetico del contratto, soggetto quindi ad altro rimedio, ossia la nullità ai sensi dell’art. 1418, co. 2 c.c. .

Clausole di adeguamento automatico, diritto di recesso e accordi precontrattuali

Passando all’analisi della gestione delle sopravvenienze stricto sensu, ossia di quelle situazioni di fatto o di diritto esterne al rapporto contrattuale che incidono sulla causa o sul rapporto di esso, prima di focalizzarsi sui rimedi legali posti dall’ordinamento, è opportuno premettere che le parti stesse, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, possono predisporre degli strumenti finalizzati proprio alla gestione delle sopravvenienze.

I contraenti, infatti, possono inserire nell’accordo clausole di adeguamento automatico che consentano di riequilibrare il valore delle rispettive prestazioni, come ad esempio le clausole di indicizzazione che, nelle obbligazioni pecuniarie, mirano ad adeguare il quantum della prestazione pecuniaria in base alle oscillazioni del livello dei prezzi di mercato.

In secondo luogo, anche la previsione di un diritto di recesso, nei contratti di durata, può considerarsi uno strumento nelle mani delle parti per gestire le sopravvenienze, in quanto consente al contraente di sciogliere unilateralmente il rapporto contrattuale per giusta causa o, nei contratti a tempo indeterminato, anche a prescindere da un’adeguata motivazione.

Infine, tra gli strumenti convenzionali a disposizione delle parti non possono che introdursi gli accordi precontrattuali, ossia tutti quei negozi con cui i contraenti delineano solo in parte il contenuto del contratto, rinviando ad un momento successivo la completa definizione dello stesso.

Il contratto preliminare

Tra questi, riveste una posizione di spicco il contratto preliminare, ossia il contratto con cui le parti si vincolano alla stipula di un successivo contratto definitivo, il cui contenuto è parzialmente già definito nel primo dei due accordi. Infatti, le più moderne elaborazioni pretorie sono giunte ad affermare che la funzione precipua del contratto preliminare è proprio quella di gestione delle sopravvenienze, in quanto tramite esso le parti si vincolano alla stipula di un contratto, così “fermando” la loro volontà negoziale ma, differendo ad un momento successivo la completa definizione del contenuto del rapporto, esse si riservano un lasso di tempo nel corso del quale possono meglio valutare la convenienza dell’affare, per decidere se concluderlo o apportare modifiche.

Infatti, la giurisprudenza è giunta ad affermare che il contratto preliminare non è una promessa di prestazioni, bensì una promessa di consensi, nel senso che il successivo contratto definitivo possiede sia una causa solutoria, ossia di adempimento del vincolo assunto con il preliminare, sia una causa propria legata appunto alla gestione delle sopravvenienze.

La presupposizione

I rimedi legali predisposti dall’ordinamento verificare la perdurante idoneità del contratto a soddisfare gli interessi perseguiti dalle parti a fronte di vicende sopravvenute sono solamente due, ossia la risoluzione per impossibilità sopravvenuta e quella per eccessiva onerosità sopravvenuta. Peraltro, il rigoroso rispetto del principio pacta sunt servanda ha spinto il legislatore a richiedere per entrambi i rimedi requisiti specifici, nonostante la dottrina più attenta sostenga da tempo l’insufficienza della disciplina positiva ad offrire adeguata tutela a fronte di tutte le possibili sopravvenienze che possono verificarsi nel corso del rapporto contrattuale.

Tale insufficienza emerge in tutta la sua gravità con riguardo alla cosiddetta presupposizione, che inerisce gli elementi di fatto o di diritto che, quantunque non siano stati espressamente menzionati dai contraenti nell’accordo, devono ritenersi, in base al parametro della buona fede, implicitamente inseriti perché determinanti per il soddisfacimento dell’interesse perseguito da una o entrambe le parti. Tipico esempio di presupposizione è offerto dal contratto di locazione di un balcone che si affaccia su una piazza in cui in una certa data si terrà un evento. Occorre chiedersi quale sia il rimedio esperibile laddove l’evento venga rinviato ad altra data o si tenga in un luogo diverso da quello prestabilito.

È evidente, infatti, che in questa ipotesi non sia azionabile il rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, posto che la prestazione, da parte del locatario, resta possibile. Allo stesso modo, potrebbe non essere applicabile neppure lo strumento della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in quanto la mancanza dell’evento potrebbe non essere dovuta ad eventi straordinari ed imprevedibili.

Per sopperire a tale lacuna legislativa, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato la teoria della presupposizione, che impone di tener conto di tutti quegli elementi oggettivi, cioè non dipendenti dalla condotta di uno dei contraenti, che, secondo buona fede, debbano ritenersi implicitamente inseriti nell’accordo contrattuale perché determinanti per il soddisfacimento dell’interesse di una o entrambe le parti.

Pertanto, tornando all’esempio sopra riportato, è evidente che l’interesse della locazione del balcone è indissolubilmente connesso alla visione dell’evento che si sarebbe dovuto tenere nella piazza antistante, per cui il venir meno di tale evento, deve necessariamente comportare la caducazione del contratto stipulato.

Si è molto discusso in ordine al fondamento del rimedio della presupposizione.

Secondo un primo orientamento, in questi casi sarebbe in presenza di una condizione risolutiva implicita che subordina l’efficacia del contratto al verificarsi dell’evento nella piazza. Tuttavia, questa impostazione non convince né sul piano dogmatico, né su quello disciplinatorio.

Sotto il primo profilo, infatti, occorre tener presente che con la condizione risolutiva le parti subordinano l’efficacia del contratto ad un evento futuro ed incerto, mentre nel caso della presupposizione l’evento si assume come certo, tant’è che esso viene meno in un momento successivo a causa di una sopravvenienza.

Sul piano disciplinatorio, invece, merita di essere osservato che la condizione risolutiva elimina ex tunc gli effetti del contratto, pregiudicando altresì i diritti dei terzi e, se questa soluzione appare congrua nell’ipotesi di una condizione espressamente pattuita, nel qual caso i terzi sanno che il diritto da loro acquistato è subordinato alla medesima condizione, non può dirsi altrettanto in caso di presupposizione, perché, trattandosi di una clausola implicita, i terzi potrebbero non essere in grado di conoscerla.

D’altronde, l’automatico effetto caducatorio della condizione risolutiva potrebbe presentarsi eccessivo ed insoddisfacente rispetto alle esigenze delle parti, non consentendo l’esperimento di rimedi manutentivi che permettano la conservazione del contratto dopo aver apportato le opportune modifiche.

Pertanto, altra parte della dottrina ha ritenuto che la presupposizione incida sulla causa del contratto, per cui il venir meno dell’evento implicitamente considerato cagionerebbe un difetto di causa, con conseguente nullità del contratto.

Tuttavia, neppure questa impostazione appare adeguata, perché, sul piano dogmatico, il difetto di causa configura un vizio genetico del contratto, mentre qui viene in rilievo una sopravvenienza e, peraltro, sotto il profilo della disciplina, la nullità del negozio farebbe ripresentare tutti i problemi già analizzati in ordine al vulnus per la tutela dei terzi ed all’impossibilità di esperire rimedi di carattere manutentivo.

Al riguardo, occorre però precisare che, laddove si accolga la più moderna impostazione secondo cui la causa del contratto vada intesa come funzione economico-individuale dello stesso, cioè concreta composizione dei contrapposti interessi, le differenze tra causa e presupposizione si risolverebbero sul piano meramente cronologico, nel senso che la causa va valutata al momento della stipulazione del contratto, mentre la presupposizione attiene alla gestione delle sopravvenienze.

In definitiva, la tesi prevalente ritiene che la presupposizione trovi il suo fondamento direttamente nel canone di buona fede, che impone di tener conto di quegli elementi che, ancorchè non siano stati espressamente menzionati dai contraenti, debbano ritenersi determinanti per il soddisfacimento dei loro interessi.

Ravvisato il fondamento della presupposizione nella buona fede, è possibile anche indagare quali siano i rimedi esperibili in tale ipotesi.

Infatti, la buona fede viene in rilievo sia come canone di esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto, che come fonte integrativa del rapporto contrattuale.

Sotto il primo aspetto, essa impone, in presenza di fatti sopravvenuti, di modificare la propria prestazione, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, per realizzare il miglior interesse della controparte, così come, specularmente, obbliga la parte a tollerare eventuali modifiche della prestazione altrui.

Come fonte di integrazione del contratto, invece, la buona fede obbliga i contraenti ad eseguire, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, tutte le prestazioni ulteriori a quelle dedotte in contratto che siano funzionali al soddisfacimento dell’interesse altrui. Pertanto, sotto questo profilo, può ravvisarsi l’obbligo di rinegoziare l’accordo originariamente pattuito per addivenire ad un equo bilanciamento degli interessi.

Ne deriva che, in applicazione del principio di conservazione del contratto, il rimedio caducatorio deve ritenersi solo un’extrema ratio, esperibile solo laddove non siano possibili rimedi manutentivi che soddisfino l’interesse dei contraenti.

Tutto ciò premesso, è possibile analizzare i due strumenti predisposti dalla legge per gestire le sopravvenienze.

La risoluzione per impossibilità sopravvenuta

Il primo rimedio che viene in rilievo è la risoluzione per impossibilità sopravvenuta, che può ricondursi sia agli strumenti di gestione delle sopravvenienze incidenti sulla causa, laddove l’impossibilità sia totale, che tra quelli di governo dell’equilibrio contrattuale, nell’ipotesi di impossibilità parziale.

Sotto il primo aspetto, occorre una precisazione. Infatti, può ritenersi che la risoluzione per impossibilità sopravvenuta sia finalizzata a gestire sopravvenienze incidenti sulla causa solo laddove si tratti di contratti a prestazioni corrispettive. In tale ipotesi, poiché le prestazioni sono strettamente interdipendenti, l’impossibilità di una rompe il sinallagma che rappresenta l’essenza stessa del contratto.

Viceversa, laddove vengano in rilievo contratti non a prestazioni corrispettive, appare improprio il riferimento alla causa, perché, a ben vedere, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore estingue l’obbligazione, incidendo, quindi, sull’oggetto del contratto, piuttosto che sulla sua causa. Tant’è vero che in caso di impossibilità originaria della prestazione, il contratto deve ritenersi nullo per mancanza di oggetto, non già di causa.

Ciò premesso sull’ambito di analisi, è evidente, quindi, che il fondamento del rimedio va ravvisato, ancora una volta, nel venir meno del sinallagma che caratterizza i contratti a prestazioni corrispettive e che giustifica la caducazione del rapporto contrattuale.

L’istituto dell’impossibilità sopravvenuta viene disciplinato dal codice civile in due distinte sedi: tra i modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento e quale presupposto per ottenere la risoluzione del contratto.

Questa circostanza conferma che l’impossibilità sopravvenuta produce sia effetti solutori, estinguendo l’obbligazione, che effetti liberatori, comportando lo scioglimento del contratto con conseguente diritto alla ripetizione delle prestazioni già eseguite.

Prima di focalizzare l’attenzione sulla disciplina del presente rimedio, non può omettersi una considerazione in ordine alla nozione di impossibilità sopravvenuta, in quanto essa determina significative conseguenze circa l’ambito di applicazione del rimedio stesso.

Innanzitutto, occorre chiarire che qui viene in rilievo l’impossibilità sopravvenuta, e non originaria, che comporterebbe la nullità del contratto, e non imputabile al debitore, perché in caso contrario la sua condotta integrerebbe un inadempimento contrattuale, con conseguente applicabilità di altri rimedi.

Originariamente, la giurisprudenza, in un’ottica rispettosa del principio pacta sunt servanda, forniva un’interpretazione assai restrittiva dei requisiti integranti l’impossibilità sopravvenuta, ritenendo che essa fosse ravvisabile solo laddove fosse oggettiva ed assoluta.

L’oggettività, in particolare, veniva intesa quale estraneità della causa dell’impossibilità rispetto al debitore, come nell’ipotesi di caso fortuito, forza maggiore o adempimento del terzo.

Il carattere assoluto, invece, si riteneva integrato laddove la prestazione fosse stata impossibile anche utilizzando la massima diligenza.

Con il tempo, però, si è assistito ad una rivisitazione di tale orientamento, in quanto si è giunti a ritenere che, nel caso di obbligazioni infungibili, il requisito dell’oggettività debba ritenersi integrato anche da fatti inerenti il debitore, ad esempio nell’ipotesi di un danno alle mani di un famoso pianista, perché la prestazione non potrebbe essere adempiuta da nessun’altro. Specularmente, oggi si riconosce l’impossibilità della prestazione che, quantunque sia astrattamente possibile, comporti per il debitore un sacrificio eccessivo.

Ne è derivato, quindi, un significativo ampliamento dell’ambito di applicazione del rimedio di cui all’art. 1463 c.c., che taluno ritiene esperibile anche quando il fatto causativo dell’impossibilità attenga non già alla persona del debitore, bensì del creditore che, per causa a sé non imputabile, non possa mettere la controparte in condizione di adempiere, come nel caso in cui l’albergatore non possa affittare la camera al creditore che si sia ammalato nel giorno previsto per la partenza.

In ogni caso, ai sensi dell’art. 1463 c.c.,la sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore libera la parte obbligata, la quale non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto, secondo le norme sulla ripetizione di indebito.

Pertanto, al verificarsi dell’impossibilità il contratto si risolve di diritto, per cui l’eventuale sentenza che accerti la risoluzione avrà natura costitutiva, ed elimina gli effetti del negozio con efficacia retroattiva ma senza pregiudicare i diritti acquistati dai terzi.

Al riguardo, occorre però precisare che, in caso di contratti ad esecuzione periodica, l’effetto ripetitivo non si estende alle prestazioni eseguite prima che intervenisse la sopravvenienza.

Infatti, non si deve dimenticare che qui non si discute di vizi originari dell’atto, bensì di fatti sopravvenuti che alterino il rapporto contrattuale. Pertanto, deve ritenersi che le prestazioni eseguite prima che sia intervenuta la sopravvenienza abbiano efficacemente soddisfatto l’interesse dei contraenti, per cui il rapporto deve ritenersi estinto in parte qua.

Una disciplina particolare è prevista, poi, per i contratti con effetti traslativi della proprietà o di altro diritto reale o costitutivi degli stessi, in quanto in tal caso l’impossibilità coincide con il perimento del bene oggetto del contratto.

In siffatte ipotesi, non si pone un problema di risoluzione del negozio, dovendo esclusivamente individuarsi il soggetto su cui debba gravare il costo dell’impossibilità sopravvenuta.

Laddove il contratto abbia ad oggetto una cosa determinata, infatti, in base al principio consensualistico l’effetto traslativo o costitutivo si produce con il mero consenso liberamente prestato dalle parti, per cui laddove la cosa perisca dopo la prestazione del consenso ma prima della consegna, l’acquirente non sarà liberato dall’obbligo di adempiere la sua controprestazione.

Viceversa, ove il negozio riguardi una res determinata solo nel genere, poichè l’effetto traslativo si produce con l’individuazione dei beni, in caso di perimento, permane sull’alienante l’obbligo di consegnare altre cose del medesimo genere.

A tali regole fa eccezione l’ipotesi in cui l’acquirente si sia obbligato a consegnare un bene dotato di specifiche caratteristiche, nel qual caso la parte è obbligata a tenere tutte le condotte necessarie affinchè la cosa mantenga le caratteristiche individuate, sicchè, laddove queste vengano perdute, ciò integrerà un inadempimento contrattuale in senso tecnico.

Impossibilità parziale della prestazione

La disciplina finora analizzata è quella inerente le ipotesi di impossibilità totale della prestazione, mentre il codice fissa un regime parzialmente diverso laddove si realizzi un’impossibilità solo parziale, diversità che testimonia senza alcun dubbio che, in tal caso, la sopravvenienza che viene in rilievo non incide sulla causa del rapporto contrattuale, bensì sul suo equilibrio.

Invero, l’art. 1258 c.c. statuisce che se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte , il debitore si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile, mentre, ai sensi dell’art. 1464 c.c., la controparte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, fermo restando il diritto di recesso laddove non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Laddove la prestazione diventi impossibile solo in parte, è evidente che non viene del tutto meno il nesso di interdipendenza che lega le due controprestazioni, per cui non può ritenersi che tale sopravvenienza incida sulla causa del contratto, inerendo piuttosto al suo equilibrio. In altri termini, quando parte della prestazione non può più essere adempiuta, si realizza uno scompenso dell’equilibrio valoristico tra le obbligazioni pattuito dai contraenti e l’ordinamento predispone un rimedio finalizzato non già a caducare il rapporto contrattuale, bensì a ripristinare l’equilibrio perduto.

Dunque, come innanzi già accennato, l’art. 1464 c.c. disciplina un primo strumento per la gestione di sopravvenienze che incidono sull’equilibrio contrattuale.

Prima di passare all’analisi di tale secondo tipo di rimedi, non è peregrino registrare un’evoluzione del pensiero giuridico e, contestualmente, dell’ordinamento positivo, che sempre più spesso attribuisce al giudice il potere di sindacare l’equilibrio del rapporto contrattuale.

In passato, infatti, in applicazione del principio di intangibilità dell’autonomia contrattuale, si riteneva che al giudice fosse precluso un giudizio di tal fatta. Il presupposto di tale impostazione era l’idea tipicamente liberale secondo cui il contratto rappresenta lo strumento con cui la parte realizza il proprio interesse nella miglior misura possibile rispetto all’interesse della controparte.

In altri termini, si riteneva che i contraenti fossero i migliori giudici dei propri interessi e che, quindi, il contenuto del contratto rispecchiasse la massima utilità raggiungibile, tenuto conto degli interessi reciproci. Pertanto, anche laddove sul piano oggettivo si fosse riscontrato uno squilibrio tra i valori delle prestazioni dedotte in contratto, si presumeva che tale condizione rispecchiasse la reale volontà delle parti e che, pertanto, non potesse essere sindacata dal giudice.

Successivamente, l’ordinamento ha iniziato a predisporre strumenti che consentissero al giudice di indagare sull’equilibrio valoristico tra le prestazioni dedotte in contratto e tali strumenti sono divenuti sempre più intensi ed incisivi.

Orbene, in questa sede non pare opportuno analizzare nel dettaglio tutti gli strumenti offerti dall’ordinamento, ciò esulando dal tema della presente trattazione.

Lo squilibrio sopravvenuto e la risoluzione per eccessiva onerosità

Sia sufficiente ricordare che alcuni rimedi consentono al giudice di sindacare sullo squilibrio originario del contratto, ossia presente sin dal momento della stipulazione del medesimo, mentre altri hanno ad oggetto il cosiddetto squilibrio sopravvenuto, ossia innestatosi, a seguito di fatti intervenuti successivamente, su un contratto originariamente equilibrato.

Nella prima categoria rientrano, ad esempio, la rescissione e la nullità di protezione delle clausole vessatorie prevista dalla disciplina consumeristica. Si noti, al riguardo, che entrambi i rimedi indicati sono configurabili quando siano presenti delle circostanze che in qualche modo incidano negativamente sul processo di formazione della volontà negoziale.

Nella rescissione, tale circostanza consiste nello stato di pericolo o di bisogno in cui versa il contraente, che lo spinge a stipulare il negozio a condizioni inique, mentre le nullità di protezione rispondono ad un’esigenza di tutela del consumatore, che si trova in una posizione di debolezza contrattuale rispetto al professionista che, in ragione delle sue specifiche competenze, può predisporre unilateralmente il contenuto del negozio.

Ai fini della presente trattazione presentano maggior interesse i rimedi che consentono al giudice di sindacare lo squilibrio sopravvenuto tra le prestazioni contrattuali ed, al riguardo, l’unico strumento offerto dall’ordinamento è la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, che viene in rilievo in presenza di contratti ad esecuzione anticipata o periodica o ad esecuzione differita.

Solo in tali ipotesi, infatti, tra la stipulazione del contratto e la sua esecuzione intercorre un lasso di tempo nel corso del quale taluni avvenimenti possono alterare lo squilibrio originariamente pattuito dai contraenti; evenienza non riscontrabile, invece, nei contratti istantanei.

Non è mai superfluo ricordare che qui non viene in rilievo un vizio del contratto, tant’è che il rimedio non richiede, per la sua operatività, che lo squilibrio sia causato da circostanze che incidano negativamente sul procedimento di formazione della volontà contrattuale, rilevando, invece, i fatti sopravvenuti che ingenerano uno squilibrio economico tra le prestazioni.

Al riguardo, l’art. 1467 c.c. statuisce che se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto.

Innanzitutto, occorre chiarire che, come già accennato, la norma consente al giudice un sindacato sullo squilibrio economico del negozio, inteso come proporzione tra i valori delle controprestazioni dedotte in contratto. Esula, invece, dal giudizio il cosiddetto squilibrio normativo, relativo al rapporto tra i rispettivi diritti ed obblighi delle parti.

Lo squilibrio normativo è quello che mira ad evitare la disciplina consumeristica in tema di nullità di protezione, ma in tal caso si tratta, come innanzi riportato, di uno squilibrio originario.

Se ne deduce, quindi, che il legislatore non ha predisposto alcuno strumento per rimediare ad uno squilibrio normativo sopravvenuto, per cui si pone, come meglio si dirà più avanti, il problema di verificare se il giudice abbia il potere di sindacare squilibri sopravvenuti atipici, ossia in ipotesi diverse da quelle espressamente previste.

Tornando alla disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, occorre subito notare che l’art. 1467 c.c., a differenza di quanto previsto dall’art. 1448 c.c., non individua un parametro quantitativo per verificare se l’onerosità sia eccessiva, per cui tale valutazione deve essere effettuata caso per caso dal giudice, avendo quale metro di giudizio l’equità, intesa come proporzione tra i valori delle prestazioni, secondo i valori di mercato.

Se da un lato il legislatore riserva al giudice del caso concreto la valutazione circa la sproporzione tra le prestazioni, dall’altro richiede espressamente che l’eccessiva onerosità debba essere conseguenza di “avvenimenti straordinari ed imprevedibili”, ossia di rara verificazione e non prevedibili utilizzando l’ordinaria diligenza.

È evidente, quindi, la ratio del rimedio di cui all’art. 1467 c.c.: esso mira ad evitare che le parti si accollino dei rischi che non hanno considerato, né avrebbero potuto considerare al momento della stipulazione del contratto. Tant’è vero che il successivo comma 2 della medesima norma chiarisce che la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nella normale alea del contratto.

Specularmente, l’art. 1469 c.c. statuisce che la disciplina in questione non si applica ai contratti aleatori, ossia a quei contratti con i quali una parte si obbliga ad eseguire una data prestazione senza sapere l’an ed il quantum della prestazione della controparte, sicchè al momento della stipula del negozio non è dato sapere chi dei contraenti trarrà vantaggio dall’operazione economica. Tuttavia, attenta dottrina ha chiarito che il rimedio della risoluzione non è applicabile solo quando l’eccessiva onerosità sia manifestazione dei rischi espressamente presi in considerazione dalle parti al momento della pattuizione del contratto aleatorio, perché in caso contrario, si ravvisa la medesima ratio di tutela presente nei contratti ordinari, sicchè non v’è ragione per escludere a priori l’applicabilità del rimedio in questione.

In definitiva, la risoluzione per eccessiva onerosità è esperibile solo quando si verifichi, in un momento successivo alla stipulazione del contratto, una sproporzione valoristica tra le prestazioni dedotte e tale sproporzione sia stata causata da avvenimenti straordinari ed imprevedibili.

Da questa rapida analisi del dettato normativo è agevole dedurre che il codice civile fissa dei requisiti estremamente stringenti affinchè possa addivenirsi allo scioglimento del vincolo contrattuale. Questa impostazione è figlia, ancora una volta, del dogma di intangibilità dell’autonomia contrattuale, che soprattutto in passato limitava fortemente la possibilità di sindacare lo squilibrio contrattuale.

In compenso, il legislatore, a fronte di requisiti così stringenti per la configurazione del rimedio de quo, ha opportunamente previsto uno strumento alternativo alla caducazione del contratto.

A ben vedere, infatti, non necessariamente lo scioglimento del vincolo contrattuale rappresenta una soluzione adeguata a ripristinare l’equilibrio contrattuale perduto, posto che la parte che abbia subito la sopravvenienza potrebbe avere interesse alla conservazione del rapporto negoziale, purchè opportunamente modificato.

È proprio a tal fine che l’art. 1467, co. 3 c.c. prevede che la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.

Il codice, quindi, introduce un rimedio manutentivo, che consente di eliminare lo squilibrio sopravvenuto, mantenendo ferma l’efficacia del contratto.

Si tratta, a ben vedere, di uno strumento analogo a quello previsto dall’art. 1450 c.c., il quale statuisce che il contraente nei cui confronti è domandata la rescissione, può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo ad equità.

È evidente che i due rimedi sono ispirati alla medesima ratio, ossia dal comune intento di ripristinare l’equilibrio del contratto ma conservandone l’efficacia. Tuttavia, fra le due discipline si registra una significativa differenza, in quanto mentre in caso di rescissione il contraente avvantaggiato deve offrire una modificazione “sufficiente a ricondurre il contratto ad equità”, nell’ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta è sufficiente che il contraente offra di “modificare equamente il contratto”.

Dalle due diverse formulazioni si evince, quindi, che in caso di risoluzione non è necessario ripristinare esattamente la proporzione tra i valori delle prestazioni, essendo consentito che il soggetto avvantaggiato dalla sopravvenienza mantenga un vantaggio, purchè la sproporzione non sia “eccessivamente onerosa”.

La diversità è dovuta al fatto che, mentre in caso di rescissione lo squilibrio è dovuto ad un comportamento scorretto di un contraente che approfitti della situazione di momentanea debolezza della controparte, laddove si verifichi una sopravvenienza che alteri la proporzione tra le prestazioni non può muoversi alcun giudizio di rimprovero nei confronti della parte avvantaggiata, per cui è legittimo consentirle di mantenere un equo vantaggio.

Assai dibattuto, invece, è il tema circa la possibilità per il contraente di limitarsi a formulare una generica proposta di modifica, lasciando al giudice il compito di determinare la misura della riduzione sufficiente a ripristinare l’equilibrio perduto.

Originariamente, si riteneva che la parte nei cui confronti fosse stata avanzata domanda di risoluzione per eccessiva onerosità avrebbe dovuto formulare una offerta completa, indicando specificatamente le modifiche da apportare al rapporto contrattuale, con la conseguenza che il giudice, riscontrata la congruità dell’offerta, avrebbe dovuto rigettare la domanda attorea anche laddove questa parte non si fosse detta soddisfatta dalla modifica. Parallelamente, in caso di offerta incompleta, il giudice avrebbe dovuto accogliere la domanda, comportando la caducazione del rapporto.

Questo intenso limite al sindacato giudiziale era strettamente legato al dogma di intangibilità dell’autonomia contrattuale, che impediva al giudice di intromettersi nel rapporto negoziale al fine di delinearne i contenuti.

Tuttavia, come innanzi già accennato, è in corso un processo evolutivo nel pensiero giuridico che sempre più spesso riconosce al giudice poteri di sindacato sull’equilibrio contrattuale, per cui qualcuno oggi ammette, quanto meno, che la parte possa formulare una offerta di riduzione, chiedendo, in via subordinata, al giudice di determinare egli stesso il contenuto della modifica, laddove ritenesse la proposta incongrua.

Questa soluzione, peraltro, risulta coerente con i principi UNIDROIT che, anzi, introducono un rimedio ancor più innovativo, riservando direttamente al giudice la decisione circa la caducazione del contratto o la sua modifica per ricondurlo ad equità.

Lo squilibrio atipico

Da ultimo, occorre interrogarsi circa la possibilità di esperire, a fronte di sopravvenienze che alterino l’equilibrio contrattuale, rimedi manutentivi che consentano una revisione dell’assetto negoziale, mantenendo ferma l’efficacia del contratto. Questo tema, peraltro, è strettamente connesso a quello relativo alla sindacabilità, da parte del giudice, del cosiddetto squilibrio atipico, che si verifica in presenza di circostanze che, quantunque incidano sull’equità del contratto, non integrino gli estremi dell’eccessiva onerosità.

Si sono già rilevate, infatti, le censure della dottrina più moderna all’attuale assetto normativo che, configurando i rimedi per la gestione delle sopravvenienze in termini di stretta tipicità, crea delle vere e proprie lacune di tutela, tant’è che proprio per colmare tali vuoti è stata elaborata la teoria della presupposizione, che consente di attribuire rilevanza a circostanze sopravvenute che incidano non necessariamente sulla causa del contratto, ma anche sul suo equilibrio.

Pertanto, non appare intollerabile prospettare rimedi che, ispirati al canone di buona fede, impongano alla parte che si trovi avvantaggiata da una sopravvenienza di modificare la propria prestazione o tollerare una modifica altrui oppure, ancora, di rinegoziare il contenuto del rapporto contrattuale per ricondurlo ad equità.

Una soluzione di tal fatta, per vero, consentirebbe di risolvere agevolmente annose problematiche che affliggono gli interpreti, come quella relativa alla cosiddetta usura sopravvenuta, che si verifica quando i tassi di interesse, legalmente stipulati, successivamente superino la soglia usuraria a causa di eventi sopravvenuti che incidano sul tasso soglia.

Riconoscendo alla buona fede funzione integrativa, si potrebbe ravvisare in capo al mutuante un obbligo di rinegoziare il tasso di interesse, riportandolo al di sotto del tasso soglia, consentendo, quindi, un’equa ridistribuzione dei costi della sopravvenienza tra i due contraenti.

In definitiva, può registrarsi un nuovo sistema di gestione delle sopravvenienze, sia quelle che incidono sulla causa del contratto, che quelle che ne alterano il contenuto, perché si riconoscono poteri sempre più ampi alle parti ed al giudice, consentendo rimedi che, piuttosto che comportare la secca caducazione del rapporto contrattuale, si limitino ad apportare, in maniera più elastica, le modifiche più opportune per realizzare il miglior soddisfacimento degli interessi dei contraenti.

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