La funzione della responsabilità aquiliana: l’evoluzione della giurisprudenza

in Giuricivile, 2018, 4 (ISSN 2532-201X)

Sempre più attuale si presenta, alla luce dei recenti ripensamenti circa la configurabilità dei c.d. danni punitivi, il tema della funzione che oggi riveste la responsabilità da atto illecito, o extracontrattuale.

L’analisi in questione può trovare un utile punto di partenza nel raffronto tra l’art. 2043 c.c., norma cardine della disciplina della responsabilità extracontrattuale, e l’art. 2041 c.c. che, nonostante riguardi la sola azione di ingiustificato arricchimento, è considerato dai più la norma-base posta a fondamento di tutti i rimedi risarcitori.

La tesi più accreditata, infatti, ritiene che la citata disposizione positivizzi nel nostro ordinamento il principio di necessaria causalità degli spostamenti di ricchezza, in virtù del quale ogni trasferimento di ricchezza da un soggetto ad un altro deve essere giustificato, di guisa che l’assenza della causa legittima il depauperato a ripetere quanto pagato o ad ottenere adeguata indennità.

Il rimedio dell’azione di ingiustificato arricchimento, quindi, in quanto esplicativa di un principio dell’ordinamento, presenta un ambito di applicazione generale, mentre gli altri due rimedi restitutori, ossia la ripetizione dell’indebito e la negotiorum gestio, risultano applicabili solo quando il contesto presenti alcuni elementi volti a renderlo speciale rispetto al genus dell’arricchimento ingiustificato.

L’art. 2033 c.c. in tema di ripetizione di indebito, infatti, fa riferimento ad un “pagamento non dovuto”, con ciò richiedendo che la prestazione indebita si inserisca in un preesistente rapporto obbligatorio tra le parti, di cui il pagamento rappresenta l’adempimento.

In questo, l’art. 2033 c.c. si differenzia dall’art. 2041 c.c., poiché il primo richiede che la prestazione abbia carattere solutorio, ponendosi come adempimento di un rapporto obbligatorio astrattamente valido ma in concreto improduttivo di effetti, mentre la norma sull’arricchimento ingiustificato prescinde da un eventuale rapporto tra le parti.

Quanto alla gestione di affari altrui di cui agli artt. 2028 ss c.c., l’elemento caratterizzante ha natura soggettiva, consistendo nella consapevolezza, da parte dell’agente, di gestire un affare altrui. Ne deriva che, laddove il soggetto abbia agito credendo erroneamente di amministrare un affare proprio, non sarà applicabile la norma speciale citata, bensì l’art. 2041 c.c., in quanto la condotta del depauperato rappresenta per la controparte un ingiustificato arricchimento.

Chiarito, dunque, che l’art. 2041 c.c. si presenta quale norma generale posta a fondamento dei rimedi restitutori, occorre interrogarsi sui rapporti tra questo ed il successivo art. 2043 c.c., che, come noto, rappresenta la disposizione centrale in tema di responsabilità aquiliana, per ricavare dal confronto tra le fattispecie utili indizi circa la funzione di quest’ultima forma di responsabilità.

Rapporto tra arricchimento senza causa e art 2043 cc

In via preliminare, occorre evidenziare che l’arricchimento ingiustificato può verificarsi sia per effetto di un comportamento dell’impoverito che per una condotta di indebita ingerenza dell’arricchito sulla sfera giuridica altrui. Quest’ultima figura è quella che presenta maggiori profili di interesse ai fini della presente trattazione, in quanto consente di evidenziare in modo plastico la differenza tra la fattispecie di cui all’art. 2041 c.c. e quella aquiliana.

Originariamente, si riteneva che il discrimen fra le due ipotesi fosse costituito dall’ingiustizia del danno. A sostegno di tale assunto si adduceva un argomento di ordine testuale, in quanto, per il sorgere della responsabilità extracontrattuale, l’art. 2043 c.c. richiede che la condotta dell’agente cagioni ad altri un “danno ingiusto”, mentre ai sensi dell’art. 2041 c.c., è sufficiente che taluno si arricchisca, senza giusta causa, a danno di un’altra persona.

Tuttavia, questa impostazione è stata successivamente superata perché, a ben vedere, un arricchimento ed un danno “senza giusta causa” non sono altro che un arricchimento ed un danno “con causa ingiusta” e, quindi, anch’essi ingiusti. Ne deriva che il discrimen tra le due figure non può rinvenirsi nell’ingiustizia del danno, in quanto tale elemento è comune ad entrambe le fattispecie.

Se ne è ricavato, dunque, che il reale elemento discretivo tra gli istituti è offerto dall’elemento soggettivo che connota l’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c. e che, invece, risulta del tutto assente nella disciplina del rimedio restitutorio in analisi.

Entrambe le fattispecie, infatti, sono costituite da un fatto del soggetto agente, da un danno ingiusto e dal nesso di causalità che avvince il fatto ed il danno. Tuttavia, l’art. 2043 c.c. richiede, affinchè sorga la responsabilità del danneggiante, che il fatto sia colposo o doloso.

La distinzione tra funzione indennitaria e funzione riparatoria

Ciò posto ed avvicinandoci alla risposta al quesito della presente trattazione, ossia quello relativo alla funzione della responsabilità aquiliana, è necessario interrogarsi, restando nell’ambito della distinzione tra gli artt. 2041 e 2043 c.c., sulle conseguenze derivanti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma.

Infatti, in caso di ingiustificato arricchimento, l’art. 2041 c.c. pone, a carico dell’arricchito, l’obbligo di indennizzare la controparte della diminuzione patrimoniale patita, mentre l’art. 2043 c.c. obbliga l’agente a risarcire il danno cagionato.

Ritorna a pieno titolo, quindi, la distinzione tra funzione indennitaria e funzione riparatoria delle obbligazioni che, come si dirà infra, muovono su logiche distinte.

La funzione riparatoria, infatti, mira a ristorare il danneggiato del danno subito, secondo la logica della traslazione, che comporta il trasferimento dei costi del danno da chi lo ha subito a chi lo ha, con una condotta dolosa o colposa, cagionato.

Viceversa, la funzione indennitaria, tipica delle cosiddette obbligazioni da fatto lecito, non è ispirata alla logica della traslazione, bensì a quella della distribuzione, mirando, con intenti equitativi, ad una ripartizione dei costi tra danneggiato e danneggiante.

La distinzione tra le due funzioni si coglie proprio con riferimento ai due diversi istituti ai quali ineriscono.

Come anticipato, infatti, la funzione indennitaria caratterizza le obbligazioni da fatto lecito, tra cui rientra l’ingiustificato arricchimento, mentre quella riparatoria è propria delle obbligazioni da fatto illecito.

Non deve stupire che anche a seguito di un fatto lecito possa sorgere un’obbligazione in capo al danneggiante, in quanto in tali ipotesi il danno deriva da comportamenti che, per la loro rilevanza pubblica o privata, vengono autorizzati dall’ordinamento e, quindi, non possono considerarsi illeciti. Ciononostante, l’ordinamento non considera irrilevante e privo di tutela il danno derivante dal comportamento autorizzato, obbligando, invece, il danneggiante a corrispondere un’equa indennità.

Un esempio emblematico in tal senso è fornito dall’espropriazione per pubblica utilità che, se effettuata dalla pubblica amministrazione in maniera conforme alle disposizioni legislative, risulta pienamente legittima e, quindi, inidonea a far sorgere una responsabilità aquiliana in capo all’ente pubblico espropriante. Tuttavia, l’espropriazione, ancorchè legittima, cagiona un danno al privato espropriato, che perde un bene di sua proprietà e, pertanto, ha diritto ad un equo indennizzo.

La funzione riparatoria della responsabilità aquiliana

Occorre chiedersi per quale motivo il legislatore abbia previsto un’obbligazione risarcitoria, con funzione riparatoria, per la responsabilità aquiliana ed un obbligo indennitario per l’ipotesi di ingiustificato arricchimento.

La risposta a tale quesito si rinviene nell’indicato discrimen tra le due fattispecie, costituito dall’elemento soggettivo che caratterizza l’illecito extracontrattuale.

L’art. 2043 c.c., infatti, richiedendo un fatto colposo o doloso dell’agente, presuppone un giudizio di colpevolezza di quest’ultimo, che giustifica la traslazione su di lui dell’intero costo del danno. Viceversa, in caso di ingiustificato arricchimento, tale giudizio di riprovevolezza manca e, quindi, è prevista una mera distribuzione dei costi del danno tra le due parti.

In definitiva, può affermarsi che la funzione tipica della responsabilità aquiliana è riparatoria, in quanto, preso atto della sussistenza di un danno ingiusto cagionato da un comportamento colpevole del soggetto agente, mira a ristorare il danneggiato del danno patito, facendone gravare i costi sulla controparte danneggiante.

Tuttavia, è bene sottolineare che questa non è l’unica funzione a cui la responsabilità aquiliana può assolvere.

Invero, i primi commentatori del codice del 1942 ritenevano, ponendosi in un filone interpretativo che fissava le proprie radici nella disciplina del codice previgente, che il termine “ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c. andasse riferito non già al danno, come risultante da una agevole lettura del dato normativo, bensì al fatto. Ne derivava un rafforzamento del giudizio di riprovevolezza del danneggiante e, conseguentemente, una diversa funzione della responsabilità aquiliana, ispirata ad una logica sanzionatoria più che riparatoria.

In altri termini, si riteneva che l’obbligo al risarcimento del danno mirasse a punire il colpevole piuttosto che a ristorare il danneggiato.

Tuttavia, una lettura della norma più aderente al dato letterale e l’emersione, con l’evoluzione della società, di danni sempre nuovi e più complessi, hanno determinato una rivisitazione dell’originario orientamento e gli interpreti hanno finito per attribuire all’art. 2043 c.c., come innanzi dimostrato, funzione riparatoria.

Per lungo tempo, anzi, si è ritenuto che questa fosse l’unica funzione ascrivibile al rimedio risarcitorio, non potendo essere accompagnata anche da finalità alternative, prima fra tutte quella sanzionatoria.

Si riteneva, in particolare, che la funzione riparatoria e sanzionatoria fossero incompatibili fra loro perché muovono su due prospettive nettamente distinte. La prima, infatti, risulterebbe orientata interamente a tutela del danneggiato e, quindi, sarebbe parametrata esclusivamente su tale parte e sull’entità del danno subito, mentre la seconda, mirando a sanzionare gli illeciti, guarderebbe alla figura del danneggiante e determinerebbe l’entità del risarcimento in base al vantaggio da questi conseguito.

Le due posizioni apparirebbero troppo distanti e, quindi, inconciliabili.

A sostegno della funzione meramente riparatoria della responsabilità extracontrattuale si riportava, poi, l’art. 1223 c.c. in tema di quantificazione del danno.

È noto, infatti, che in tema di responsabilità aquiliana, l’art. 2056 c.c. rinvia, per la determinazione del danno risarcibile, ad alcune norme previste per la responsabilità da inadempimento contrattuale, ossia gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. .

In particolare, la prima delle citate disposizioni stabilisce che il risarcimento del danno deve corrispondere alla perdita subita dal creditore / danneggiato, ossia al danno emergente, ed al suo mancato guadagno, cioè al lucro cessante.

La norma, quindi, parametra espressamente il quantum del risarcimento al danno subito dal soggetto leso, senza prestare alcuna attenzione alla condizione del soggetto danneggiante ed ai vantaggi da questi eventualmente conseguiti.

Se ne è ricavata, quindi, la funzione meramente riparatoria della responsabilità aquiliana.

Tuttavia, la giurisprudenza si è dovuta nel tempo confrontare con due aspetti che hanno portato ad una rivisitazione di tale orientamento.

L’evoluzione giurisprudenziale: i punitive damages

Innanzitutto, ha assunto rilievo la tematica del cosiddetto illecito efficiente, figura speculare a ciò che, in tema di responsabilità contrattuale, si definisce inadempimento efficiente, ossia quell’inadempimento i cui costi, cioè il risarcimento del danno, risultano per il debitore meno onerosi rispetto ai costi della prestazione dovuta, con la conseguenza che al debitore conviene più rendersi inadempiente che adempiere all’obbligazione.

Specularmente, per illecito efficiente si intende l’ipotesi in cui la condotta dell’agente gli procuri un vantaggio superiore al danno cagionato alla controparte, di guisa che, anche laddove il danneggiante venga condannato al risarcimento del danno, egli risulterebbe comunque arricchito dalla condotta illecita tenuta.

Non vi è chi non veda la sostanziale ingiustizia di un sistema che sembra consentire un arricchimento dovuto alla commissione di un illecito. Ove si ritenesse, infatti, che il risarcimento abbia come unica funzione quella riparatoria e che debba essere quantificato esclusivamente in base al danno patito, si finirebbe per incentivare la commissione di illeciti che producano un vantaggio superiore al danno cagionato.

Il secondo aspetto con cui la giurisprudenza si è dovuta confrontare è rappresentato da un dato positivo. Si è preso atto, infatti, di una serie di disposizioni legislative speciali che, evidentemente ispirate all’esigenza di evitare le irragionevoli conseguenze di cui si è detto innanzi, espressamente prevedono il potere del giudice di quantificare il danno risarcibile alla luce anche del vantaggio conseguito dal danneggiante o, comunque, indipendentemente dal danno subito dall’altro.

Il riferimento è innanzitutto all’art. 125 d. lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) che individua due criteri di determinazione del danno risarcibile.

Infatti, al comma 1, la citata disposizione stabilisce che il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c. e, quindi, non apporta alcuna significativa novità alla disciplina generale codicistica.

Viceversa, il successivo comma 3 prevede che in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento.

È la già richiamata tematica dell’illecito efficiente: il giudice può quantificare il risarcimento dovuto in base al vantaggio conseguito dall’agente quando questo sia maggiore rispetto al danno cagionato.

Secondo la tesi più accreditata, la norma, fortemente asistematica rispetto al nostro ordinamento civile, positivizza la figura anglosassone dei punitive damages, in quanto espressamente consente al giudice di derogare all’art. 1223 c.c., parametrando il quantum del risarcimento agli utili realizzati dal danneggiante.

Un ruolo analogo è attribuito, poi, all’art. 96, co. 3 c.p.c., introdotto nel 2009 per supplire all’inefficienza dei due commi precedenti rispetto al fine di evitare liti temerarie e, quindi, ridurre il carico di lavoro per la magistratura civile.

I primi due commi dell’art. 96 c.p.c., infatti, prevedono la possibilità per il giudice, su istanza di parte, di condannare il soccombente che abbia agito o resistito in giudizio in mala fede o colpa grave alle spese ed al risarcimento dei danni.

Tuttavia, l’esperienza giudiziaria ha manifestato in modo evidente le complessità applicative di tali norme, dovute alla difficoltà di provare il danno patito dalla parte vittoriosa e, soprattutto, di quantificarlo. Dunque, le citate disposizioni non rispondevano adeguatamente all’esigenza deflattiva del contenzioso.

Il successivo comma 3 della norma, quindi, ha introdotto la possibilità per il giudice di condannare la parte soccombente al “pagamento di una somma equitativamente determinata”.

L’uso dei termini evidenziati non è casuale, in quanto il legislatore, non definendo il nuovo strumento come risarcimento, lo ha svincolato dalla funzione riparatoria tipica dell’obbligazione risarcitoria. Il nuovo istituto, quindi, non risponde a logiche riparatorie, mirando invece a sanzionare l’abuso, da parte del soccombente, della sua posizione processuale.

D’altronde, che l’art. 96, co. 3 c.p.c. preveda uno strumento con funzione sanzionatoria è altresì confermato da due ulteriori rilievi: da un lato, la sua quantificazione in via equitativa, e non secondo le regole di cui agli artt. 1223 ss c.c., dall’altro, la possibilità di esperirlo d’ufficio da parte del giudice, indicativa del bene sovraindividuale che la norma mira a tutelare.

La disposizione, infatti, non è posta a salvaguardia degli interessi della parte vittoriosa, bensì del bene superiore della corretta amministrazione della giustizia, che risulta leso dalle liti temerarie.

Qualcuno ha obiettato, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, co. 3 c.p.c., che se il bene tutelato fosse effettivamente la giurisdizione, la norma avrebbe dovuto prevedere il pagamento della somma non già in favore della controparte vittoriosa, bensì dell’erario, vero soggetto danneggiato.

Tuttavia, la Consulta, nel rigettare la questione, ha chiarito che non risulta irragionevole che, quantunque il bene tutelato sia sovraindividuale, la norma individui il beneficiario della somma nella parte privata, in quanto questa ha la possibilità di esigere l’adempimento del condannato con maggiore facilità e minori costi rispetto all’ente pubblico, per cui la previsione appare in linea con la richiamata funzione sanzionatoria.

La funzione sanzionatoria del risarcimento del danno: le Sezioni Unite del 2017

Sono numerose le altre norme che, in maniera analoga a quelle citate, prevedono ipotesi in cui il quantum del risarcimento prescinde dall’esatta determinazione del danno patito dal danneggiato, per cui qualunque elencazione sarebbe inutile e mai esaustiva.

Appare più opportuno considerare, invece, che le Sezioni Unite della Cassazione, con una recente pronuncia del 2017, dopo aver richiamato tali fattispecie, sono giunte per la prima volta a riconoscere la possibilità che, a determinate condizioni, nel nostro ordinamento il risarcimento del danno assolva anche ad una sanzionatoria.

La questione sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, invero, non riguardava direttamente l’esistenza nel nostro sistema di danni c.d. punitivi, inerendo, invece, la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento le sentenze straniere che condannino taluno al risarcimento del danno con funzione sanzionatoria.

Tuttavia, per rispondere a tale interrogativo, la Corte ha dovuto prendere posizione anche sulla diretta configurabilità di risarcimenti punitivi nel nostro Paese.

I Giudici di legittimità, prendendo le mosse dalle norme speciali innanzi citate, sono giunti ad affermare che la funzione sanzionatoria non è incompatibile con il fine riparatorio che innerva la responsabilità aquiliana, in quanto la tesi della incompatibilità si presenta anacronistica e, soprattutto, contrastante con i più recenti approdi legislativi.

Tuttavia, la Corte chiarisce che di norma l’obbligazione risarcitoria risponde ad una finalità riparatoria, sicchè la figura dei punitive damages è astrattamente configurabile nel nostro ordinamento ma solo laddove ciò sia espressamente previsto dalla legge, non essendo possibile, invece, ricavare una generale funzione sanzionatoria della responsabilità aquiliana.

Si evidenzia, in particolare, che l’art. 23 Cost., quando prevede che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, sancisce il principio di legalità, che viene inteso in modo rigoroso dalla Corte, richiedendo che la prestazione risarcitoria a titolo sanzionatorio sia espressamente prevista dalla legge.

Questa precisazione comporta importanti riflessi in ordine al riconoscimento in Italia di sentenze straniere che condannino al risarcimento con funzione punitiva, in quanto, affinchè ciò sia possibile, è necessario, secondo la Suprema Corte, che i c.d. danni punitivi siano previsti, nell’ordinamento straniero in questione, da una norma di legge idonea a garantire la tipicità della fattispecie, ossia gli elementi costitutivi della stessa, e la sua prevedibilità da parte dei destinatari.

Il principio di legalità inteso in senso così rigoroso richiama, a ben vedere, logiche proprie del diritto penale piuttosto che di quello civile e ciò non deve meravigliare, perché è coerente con la nuova funzione sanzionatoria ascrivibile all’obbligazione risarcitoria.

I rapporti tra le disposizioni speciali e il risarcimento codicistico

Avviandoci alla conclusione, pare opportuno scandagliare i rapporti tra le disposizioni speciali ed il generale criterio di determinazione del risarcimento individuato dalle norme codicistiche.

Secondo un primo orientamento condiviso dalla citata pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, infatti, resta fermo il principio della generale funzione riparatoria dell’obbligazione risarcitoria, potendo questa essere affiancata da una funzione sanzionatoria solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, come nei casi sopra indicati.

Viceversa, un indirizzo più smaliziato sostiene che la funzione sanzionatoria sia implicita anche nell’art. 1223 c.c., mentre ciò che cambia tra le norme codicistiche e quelle speciali è semplicemente la prevalenza che viene attribuita ad una o all’altra funzione.

Le previsioni speciali, quindi, consentono di condannare al risarcimento del danno in funzione (anche) prevalentemente sanzionatoria, oltre che riparatoria, mentre secondo i canoni codicistici, il giudice può solo sanzionare il fatto illecito, obbligando al risarcimento del danno, che rappresenta il limite massimo del risarcibile, con conseguente prevalenza della funzione riparatoria su quella sanzionatoria.

Ne deriva che le due tensioni finalistiche che originariamente si ritenevano incompatibili sono invece, secondo questa innovativa impostazione, entrambe presenti nella stessa essenza della responsabilità aquiliana, con l’unico limite della indefettibilità del fine riparatorio, nel senso che la funzione sanzionatoria può accompagnare quella riparatoria, può essere addirittura prevalente rispetto ad essa, ma non può prescinderne.

In altri termini, il giudice non potrà condannare il danneggiante ad un risarcimento che sia assolutamente svincolato dall’esigenza di riparare il danno subito dal danneggiato.

Se ciò è vero, è altresì vero che non necessariamente il danno deve essere risarcito per intero per assolvere alla sua funzione sanzionatoria, essendo ben possibile, infatti, che il danneggiante sia condannato, a talune condizioni, ad un risarcimento inferiore al danno cagionato.

Un esempio pertinente è fornito dalla recente legge Gelli – Bianco in tema di responsabilità medica, che all’art. 7 ha stabilito tra l’altro che il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene del rispetto, da parte dell’esercente la professione sanitaria, delle linee guida e delle buone pratiche assistenziali.

Il quantum del risarcimento, quindi, non è determinato dal giudice solo rispetto al danno patito dal paziente, potendo essere ridotto, con funzione stavolta premiale, laddove il medico abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche assistenziali.

In definitiva, oggi la funzione riparatoria non è più l’unica che il risarcimento del danno è chiamato ad assolvere, perché, quantunque non possa prescindersi da essa, la stessa può essere accompagnata, purchè ciò sia previsto dalla legge, da altre finalità, quali quella sanzionatoria e quella premiale, scopi che incidono profondamente non solo sulla possibilità di riconoscere la responsabilità aquiliana in capo al danneggiante, ma anche sulla determinazione del danno risarcibile.

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