Nel pubblico impiego contrattualizzato, non trova applicazione, per la dirigenza medica l’art. 2103 c.c., poiché gli incarichi dirigenziali, conferiti nel rispetto delle corrispondenze previste dalle fonti regolamentari, in quanto ritenuti dal legislatore equivalenti, esprimono la medesima professionalità.
Il dirigente medico non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi che siano qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli curati da altri dirigenti della medesima struttura, né, tantomeno, a quelli svolti in passato, fermo restando che, in ogni caso, non possa essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività, nonché assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal personale bagaglio di conoscenze specialistiche.
Il datore di lavoro, consequenzialmente, nell’assegnazione degli incarichi e nella distribuzione del lavoro fra i diversi dirigenti medici, è tenuto al rispetto delle regole di correttezza e buona fede, sicché il diritto deve essere esercitato tenendo conto delle esigenze superiori di tutela della salute dei cittadini, non potendo, peraltro, essere finalizzato a mortificare la personalità del dirigente, né, tantomeno, alla realizzazione di risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere sia stato originariamente attribuito.
Questo è il principio di diritto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione, con una recentissima pronuncia[1], nell’ambito della problematica operatività dell’art. 2103 c.c. con riferimento alla fattispecie, sui generis, della dirigenza sanitaria.
Il caso in esame
Prima di focalizzarsi sull’iter argomentativo adottato dalla Corte, pare opportuno compiere una breve rassegna riepilogativa delle circostanze fattuali sottese al caso di specie, nonché dei motivi di ricorso.
Cinque dirigenti medici proponevano ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che, aveva parzialmente riformato la sentenza, emessa dal Tribunale, di condanna per l’Azienda Ospedaliera presso cui prestavano servizio, perché quest’ultima aveva deprivato i ricorrenti di contenuti essenziali delle loro mansioni. La stessa era condannata (oltre che al corretto adempimento dell’obbligazione) al risarcimento del danno patrimoniale, biologico e non patrimoniale.
Ai fini che qui più interessano, la Corte territoriale, in senso sostanzialmente adesivo alla pronuncia del giudice di prime cure[2], aveva rilevato che la scelta dell’Azienda di istituire un nuovo modulo di cardiochirurgia, da affiancare a quello già esistente e operativo, ma ritenuto inadeguato, avesse, di fatto, comportato l’emarginazione di quei dirigenti non transitati nella nuova unità sperimentale e che, conseguentemente, erano stati privati della possibilità di effettuare interventi chirurgici qualitativamente e quantitativamente adeguati alla loro professionalità specialistica.
Avverso siffatta sentenza i dirigenti sanitari proponevano ricorso, formulando tre motivi[3], e l’Azienda Ospedaliera domandava, a sua volta, la cassazione, sulla base di cinque censure[4].
La tutela delle condizioni di lavoro e le mansioni del dirigente
Il percorso motivazionale della Corte di Cassazione si dipana da una lettura dell’art. 2087 c.c. e, più nello specifico, delle sue modalità operative. I giudici di legittimità, difatti, evidenziano, in via preliminare, come la disposizione codicistica de qua debba essere, necessariamente, interpretata in una chiave estensiva, ma, al contempo, costituzionalmente orientata al rispetto stringente di beni primari ed essenziali, quali la salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutti oggetto di puntuale cristallizzazione nel corpus della Carta Costituzionale[5].
Precipitato fisiologico di una tale premessa è che l’ambito applicativo della norma sia stato ritenuto, da una giurisprudenza ormai non infrequente, non meramente circoscrivibile al campo della prevenzione antinfortunistica stricto sensu, stante l’evidenziazione reiterata di come l’obbligo posto a carico del datore di lavoro, di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore, imponga, di fatto, non solo l’astensione da ogni condotta finalizzata a ledere detti beni, ma anche il fattivo impedimento della verificazione, nell’ambiente di lavoro, di situazioni idonee a mettere a repentaglio la salute[6] e la dignità della persona[7].
La descritta ampiezza dell’accezione, pur tuttavia, non può ragionevolmente condurre a ritenere che l’art. 2087 c.c. possa configurare un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, che, del tutto contrariamente, potrà essere chiamato a rispondere del pregiudizio subito dal prestatore solo ove abbia posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali disciplinanti il rapporto, o a norme inderogabili di legge, oppure, ancora, alle regole generali di correttezza e buona fede, o, da ultimo, alle misure adottate, nell’esercizio dell’impresa, per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori[8].
La Corte territoriale, nella sua pronuncia, ha evidentemente disatteso il sinallagma tra responsabilità del datore e inadempimento colpevole, ritenendo erroneamente applicabile il dettame dell’art. 2087 c.c. senza l’accertamento, preordinato, di una negligenza, così come descritta, in capo all’Azienda Ospedaliera, sulla scorta della sussistenza di un diritto soggettivo del dirigente medico a non essere assoggettato a una riduzione qualitativa e quantitativa dell’attività specialistica espletata.
L’applicazione congiunta dell’art. 2087 c.c., in tema di tutele del lavoratore, e del successivo art. 2103 c.c., relativo alle mansioni e al loro legittimo mutamento, per quanto possa presentare profili di conflittuale criticità, non può essere disattesa laddove ci si trovi di fronte a situazioni di accertato demansionamento che, al contempo, producano, o abbiano prodotto, anche una lesione dell’integrità psico – fisica del lavoratore[9].
In siffatte ipotesi, pur tuttavia, affinché possa essere ascrivibile una responsabilità per i danni lamentati dal prestatore in capo al datore di lavoro, è necessario che l’esercizio dello ius variandi non sia stato corretto e, quindi, su di un piano più strettamente pragmatico – operativo, che l’assegnazione di mansioni, diverse da quelle precedentemente espletate, possa essere, in maniera comprovata, ritenuta dequalificante, secondo la normativa legale e contrattuale propria del rapporto.
Laddove, contrariamente, l’atto del datore risulti essere conforme alla normazione, una pretesa risarcitoria potrà essere fondata sull’art. 2087 c.c. solo qualora il diritto datoriale sia stato oggetto di un esercizio distorsivo e strumentale, ovvero sia stato implementato con finalità vessatorie[10], circostanza rinvenuta, in seno alla giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui il demansionamento sia stato privo di necessarietà e le sue modalità esplicative siano state connotate da un’irrispettosità del dovere di correttezza e buona fede[11].
La responsabilità de qua, come già evidenziato, sarà configurabile a carico del datore di lavoro solo se, oltre all’insorgenza di un danno, sia comprovato il nesso eziologico tra lo stesso evento dannoso e un comportamento colposo datoriale, ovverosia, più specificamente, l’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali o il mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede[12], da osservarsi costantemente, per l’integrale perdurare del rapporto lavorativo.
L’assenza di un diritto soggettivo alla conservazione tipologica delle prestazioni da eseguire
Deve, parimenti, essere superata la diffusa ritrosia del ritenere non applicabile, in modo tranchant, alla dirigenza medica la disciplina codicistica del demansionamento[13], esplicitata nell’art. 2103 c.c., interpretazione che sembrerebbe avvalorata da una triplice letteralità.
Segnatamente: dall’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001; dall’art. 27 del CCNL dell’8 giugno 2000; dall’art. 15 del d.lgs. n. 502/1992.
Quest’ultima disposizione è foriera di molteplici spunti di riflessione significativi, rispetto alla tematica attenzionata. Oltre a statuire, infatti, che la dirigenza sanitaria sia collocata in un unico ruolo (distinto per profili professionali), nonché in un unico livello (articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali), l’articolo de quo prevede testualmente che l’attività dirigenziale debba essere caratterizzata, nello svolgimento delle proprie mansioni e funzioni, da autonomia tecnico – professionale i cui ambiti di esercizio, attraverso obiettivi momenti di valutazione e verifica, sono progressivamente ampliati[14] e che il dirigente della struttura complessa abbia il potere di direzione, da esercitare mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa e l’adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per la realizzazione dell’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata[15].
Pare evidente, prima facie, come i poteri così rappresentati siano funzionali alla sottesa posizione di garanzia che il dirigente sanitario assuma nei confronti del paziente, dal momento che la necessaria tutela del fondamentale diritto alla salute importa, quale conseguenza immediata, l’onere, a carico dello stesso soggetto apicale, di sovraintendere, organizzare e sorvegliare anche il lavoro del personale, in funzione preventiva di tutti quei potenziali errori dai quali possa, in qualche modo, derivare una lesione al paziente[16].
Assumendo, dunque, la necessitata sovraordinazione del diritto alla salute rispetto alla distribuzione, qualitativa e quantitativa, delle prestazioni, la Corte non può che avvalorare quel leitmotiv in ossequio del quale, considerando che il dirigente della struttura debba perseguire l’ottimizzazione delle risorse e delle prestazioni erogate, ai fini della distribuzione degli incarichi (nel caso di specie, degli interventi chirurgici ai medici del reparto), debba assumere valore prioritario la competenza e la capacità degli operatori sanitari; l’adozione di qualsivoglia diverso criterio discretivo, che consenta di privilegiare un’equa ripartizione del lavoro, non può che ritenersi in una posizione di evidente conflittualità con il fondamentale diritto alla salute (e la sua fattiva tutela).
Sulla questione pare porsi, senza soluzione di continuità rispetto alla gerarchia selettiva proposta, quel filone giurisprudenziale che ha interpretato la letteralità delle disposizioni normative circa le modalità di assegnazione in cura dei pazienti[17] come foriera di una prioritaria subordinazione della distribuzione degli incarichi alla competenza e capacità degli operatori sanitari e che, conseguentemente, ha disatteso l’applicabilità di un diverso criterio ripartitivo[18].
Ne deriva, consequenzialmente, che in capo al dirigente medico non possa ragionevolmente ascriversi un diritto soggettivo a effettuare interventi qualitativamente e quantitativamente costanti nel tempo e che, quindi, lo stesso non possa opporsi né a scelte aziendali finalizzate a tutelare gli interessi collettivi (richiamati dall’art. 1 del d.lgs. n. 502 del 1992), né alle direttive impartite dal responsabile della struttura funzionalizzate all’implementazione dell’evidenziato obiettivo di garantire efficienza e qualità del servizio da assicurare al paziente.
In un’ottica più generale, invero, la giurisprudenza ha, difatti, sempre escluso la configurabilità, in capo al dirigente, di un diritto al mantenimento della funzione da ultimo svolta, riconoscendo, al più, un mero interesse legittimo, di natura privatistica[19].
Ne consegue l’inapplicabilità, ponderata, dell’art. 2103 c.c., nella parte in cui attribuisca al lavoratore il diritto di essere adibito alle mansioni per le quali sia stato assunto e, al contempo, escluda l’assegnazione di incarichi non equivalenti a quelli da ultimo svolti, in quanto connotata da una piena coerenza con il quadro normativo dettato in materia di conferimento degli incarichi[20].
Conclusioni
Una simile conclusione non può che apparire rafforzata, laddove, come nel caso specifico della dirigenza medica, il bilanciamento dell’interesse a conservare la mansione precedente debba essere condotto con beni costituzionalmente garantiti e preordinati, quali la salute dei cittadini.
Detta conclusione non può, al contempo, condurre alla possibilità di frustrare, indiscriminatamente, la professionalità del dirigente medico, che, viceversa, non resta sguarnita di tutela: deve, difatti, essere garantito al dirigente di poter svolgere un’attività correlata alla professionalità posseduta, non potendosi configurare né situazione di sostanziale inattività, né, tantomeno, un’assegnazione a funzioni richiedenti conoscenze specialistiche differenti da quelle possedute e, comunque, non assimilabili, in base alle corrispondenze previste a livello regolamentare[21].
Il datore di lavoro resta inevitabilmente assoggettato a uno stringente rispetto dei principi di correttezza e buona fede, che vieta un abuso del diritto (con un conseguente sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte) o un esercizio di quest’ultimo con finalità vessatorie o al fine di conseguire risultati diversi e ulteriori, rispetto a quelli per i quali, originariamente, lo stesso diritto medesimo sia stato attribuito[22].
La Corte territoriale, nella pronuncia impugnata, ha evidentemente disatteso gli enunciati principi di diritto, accertando la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera ai sensi dell’art. 2087 c.c., senza aver provveduto alla preventiva individuazione dell’inadempimento (o della regola di condotta violata) del datore di lavoro, nonché attribuendo ingiustificatamente un rilievo prevalente alla comparazione fra quantità e qualità degli interventi effettuati, che, come da ultimo evidenziato, non può, di per sé, rappresentare valido e idoneo criterio discretivo per certificare una lesione e fondare, di conseguenza, una compiuta pretesa risarcitoria.
[1] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Lav., 2 marzo 2018, n. 4986.
[2] La Corte ha ritenuto corretta la liquidazione del danno non patrimoniale e la sua quantificazione, mentre ha escluso che potesse essere riconosciuto il danno alla professionalità nella sua componente patrimoniale, perché, altrimenti, si sarebbe determinato una duplicazione surrettizia del risarcimento. Gli appellati, peraltro, a seguito della riduzione del livello di impiego, non avevano comunque subito una riduzione del trattamento stipendiale e fornito elementi dai quali si potesse desumere che avrebbero potuto avere una diversa dinamica della carriera ove il demansionamento non fosse stato posto in essere. La Corte territoriale, da ultimo, non ha ritenuto sussistenti le condizioni richieste per la pronuncia di reintegrazione nelle mansioni in precedenza espletate e ha evidenziato la cessazione dell’inadempimento aziendale in concomitanza con l’assunzione della direzione del reparto da parte di altro dirigente apicale.
[3] I ricorrenti principali lamentavano, segnatamente: a) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., ovvero in ordine all’insussistenza di un danno patrimoniale; b) violazione e falsa applicazione degli artt. 1126, 2103 e 2087 c.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e degli artt. 115,116, 414 e 420 c.p.c., nonché illogica perplessa e insufficiente motivazione, su punti decisivi prospettati dall’appellante, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.; c) nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., violazione del principio del contraddittorio e illogica, perplessa e insufficiente motivazione su punti decisivi per il giudizio.
[4] Il ricorrente incidentale, contrariamente, nello specifico, lamentava: a) vizio di nullità del procedimento, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c., e di violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., poiché la Corte territoriale non aveva preso posizione sugli argomenti addotti dall’Azienda Ospedaliera a sostegno dell’esclusione del demansionamento; b) omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, circa un fatto controverse decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., nonché vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. (in sostanza, veniva contestato l’utilizzo di dati quantitativi riferibili a un periodo diverso da quello del presunto inadempimento e la valorizzazione ingiustificata di una prova testimoniale, ove, invece, la natura delle prestazioni rese in campo chirurgico sarebbe dovuta essere valutata in maniera oggettiva; c) vizio di omessa, insufficiente contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., evidenziando come la Corte territoriale avesse dovuto considerare la lievissima entità del danno biologico subito dalle vittime (rectius, dai ricorrenti); d) contraddittorietà e l’insufficienza della motivazione, con riferimento all’estensione del potere di organizzazione dei reparti in capo alla direzione sanitaria; e) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1226, 2087, 2059 c.c., nonché 414, 416, 420 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. (in sostanza, l’inesatto adempimento dell’onere probatorio, stante la mancata allegazione delle buste paga, nei termini decadenziali).
[5] Il riferimento è, naturalmente, agli artt. 2, 32 e 41 Cost.
[6] Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 20 febbraio 2018, n. 4084. Sulle criticità della responsabilità ex art. 2087 c.c. in relazione alle nuove “forme” di lavoro, L. M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, in
Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 4, 1 dicembre 2017, 1041. L’Autrice evidenzia come, risultando infiacchiti i vincoli di luogo e di orario dello svolgimento della prestazione, diventi estremamente problematico ricomporre la disciplina di salute e sicurezza applicabile al c.d. “lavoro agile”, poiché normativa presupponente la piena conoscenza e il pieno controllo dell’ambiente di lavoro da parte del datore, in qualità di soggetto investito dell’obbligo di sicurezza nei confronti dei lavoratori ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’intero sistema prevenzionistico.
[7] Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 10 marzo 1995, n. 7768; Cass. Civ., Sez. Lav., 8 gennaio 2000, n. 143; Cass. Civ., Sez. Lav., 19 febbraio 2016, n. 3291, con nota di T. Zappia, Mobbing “saltuario”, in Ilgiuslavorista.it, 20 febbraio 2017. V. anche Cass. Civ., Sez. Lav., 5 gennaio 2018, n. 146.
[8] Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 11 aprile 2013, con nota di M. Scofferi, La banca non risponde del danno che una rapina cagiona al proprio dipendente, in Diritto & Giustizia, fasc. 0, 2013, 512. V. anche Cass. Civ., Sez. Lav., 29 gennaio 2013, n. 2038; Cass. Civ., Sez. Lav., 7 agosto 2012, n. 14192.
[9] V. Cass. Civ., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572, con nota di R. Scognamiglio, Le Sezioni Unite sull’allegazione e la prova dei danni cagionati da demansionamento o dequalificazione, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 3, 2006, 696. V. anche P. Virgadamo, Art. 2059 c.c. e responsabilità per inadempimento: l'”ingiustizia conformata” come criterio generale di risarcibilità del danno non patrimoniale e i limiti dell’autonomia privata., in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il), fasc. 4, 2006, 1586.
[10] Sul rapporto con la contigua figura del mobbing, Cass. Civ., Sez. Lav., 16 ottobre 2017, n. 24358.
[11] Il demansionamento, in sostanza, deve aver concorso a causare uno sproporzionato, quanto ingiustificato sacrificio della controparte, al fine, peraltro, di conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti. Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 7 maggio 2013, n. 10568.
[12] Sul punto, Trib. Roma, Sez. Lav., 7 dicembre 2016, n. 10612, in Ilgiuslavorista.it, 3 aprile 2017.
[13] Sui requisiti di accertamento della dequalificazione, Cass. Civ., Sez. Lav., 21 luglio 2017, n. 18031.
[14] Lo stesso terzo comma prevede, inoltre, che La descritta autonomia, con le correlate responsabilità, sia esercitata nel rispetto della collaborazione multiprofessionale, nonché nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attività promossi, valutati e verificati a livello dipartimentale e aziendale, funzionalizzati all’efficace utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità.
[15] Questo è quanto stabilito nel sesto comma della disposizione de qua.
[16] Sulla posizione di garanzia del capo equipe, Cass. Pen., Sez. IV, 28 luglio 2015, n. 33329, con nota di V. Nizza, Attività medica d”equipe: nesso di causa e responsabilità del primario, in Ilpenalista.it,15 settembre 2016. Sulla delega in ambito sanitario, Cass. Pen., Sez. IV, 28 giugno 2007, n. 39609.
[17] V. art. 63, ottavo comma, d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761.
[18] Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 7 ottobre 2013, n. 22789.
[19] Interesse legittimo al corretto svolgimento della procedura di conferimento dell’incarico e il cui fondamento è rinvenibile nel già evidenziato obbligo di buona fede e correttezza, gravante sulla Pubblica Amministrazione, in qualità di datrice di lavoro. Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 22 dicembre 2004, n. 23760.
[20] In questi termini, A. Marcianò, Tutela reintegratoria e risarcitoria del dirigente pubblico, storia di una alternanza interpretativa ed applicativa controversa, in Lavoro nelle p.a., fasc. 1, 2011, 49.
[21] In tal senso, pare opportuno segnalare quanto disposto dall’art. 18, primo comma, lett. c, d.lgs. n. 81/2008, che prevede l’obbligo, sanzionato anche penalmente, di tenere in debita considerazione, nell’affidare i compiti, delle capacità e delle condizioni dei lavoratori, in rapporto alla loro salute e alla sicurezza. Per una disamina più approfondita, M. Vincieri, Tutela della salute e obbligo di adibizione del lavoratore a mansioni compatibili, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 3, 2016, 589.
[22] Sul punto, Cass. Civ., Sez. Lav., 1 dicembre 2017, n. 28879, con nota di E. Sessa, La posizione del dirigente pubblico successivamente alla riforma del pubblico impiego, in Ilgiuslavorista.it,22 gennaio 2018. La Corte, nel caso di specie, ha pronunciato il seguente principio di diritto: “in tema di lavoro pubblico contrattualizzato, nell’ipotesi di un rapporto di lavoro di un dirigente iniziato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, per effetto del superamento da parte del dirigente stesso di un regolare concorso pubblico, il diritto soggettivo pieno alla qualifica e alle funzioni proprie del posto messo a concorso e poi occupato di cui l’interessato, in base alla normativa all’epoca vigente, era titolare in qualità di vincitore del relativo concorso, non può permanere in quanto tale dopo l’entrata in vigore della riforma del pubblico impiego (21 febbraio 1993), per evidente incompatibilità con la disciplina della dirigenza contenuta in tale riforma, i cui principi si rinvengono anche nel D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 e ss., (entrato in vigore gennaio 1993) specificamente dedicato alla dirigenza sanitaria del SSN. Pertanto, l’ente datore di lavoro – nella specie un’Azienda sanitaria – si deve attivare per fare in modo che la suddetta posizione soggettiva sia opportunamente “armonizzata” con il nuovo assetto organizzativo del settore e quindi dell’ente stesso. A tal fine il datore di lavoro pubblico, dopo aver provveduto ad effettuare la necessaria revisione ordinamentale tenendo conto anche della particolare posizione del suddetto dirigente, deve, previo un momento di confronto con l’interessato, predisporre, applicando il criterio dell’assicurazione della corrispondenza delle funzioni a parità di struttura organizzativa, il contratto individuale contenente il nuovo inquadramento del dirigente come concordato e la relativa tempistica, che poi deve sottoporre alla sottoscrizione del dirigente stesso. Se ciò non avviene e l’Amministrazione, senza alcun preavviso, revoca implicitamente e illegittimamente l’incarico dirigenziale in precedenza regolarmente conferito (dopo l’entrata in vigore della suddetta riforma), assumendone il carattere temporaneo mai prima evidenziato, la PA datrice di lavoro adotta un comportamento che non risulta rispettoso dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) – applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., – e che configura un inadempimento contrattuale della PA medesima, suscettibile di produrre un danno risarcibile”.