Sommario: 1. I negozi di destinazione patrimoniale: inquadramento generale – 2.Compatibilità dei negozi di destinazione con l’art. 2740 c.c. – 3. L’art. 2645 ter c.c. e l’ammissibilità del negozio di destinazione patrimoniale- 4. La tutela dei creditori in relazione ai negozi di destinazione – 5. Trust e destinazione patrimoniale- 6. Ammissibilità del trust interno e dei negozi di destinazione patrimoniale alla luce del nuovo art. 2929 bis c.c.
1. I negozi di destinazione patrimoniale: inquadramento generale
I negozi di destinazione patrimoniale possono essere definiti come controverse figure giuridiche, figlie dell’autonomia negoziale (art. 1322, 2 comma c.c.), caratterizzate dal produrre un effetto di destinazione e di segregazione patrimoniale[2]. I beni oggetto di tali negozi sono, infatti, vincolati al perseguimento di determinati interessi[3] e costituiscono una massa separata rispetto ai beni del disponente, non potendo essere aggrediti dai creditori personali di quest’ultimo.
Poiché, dunque, i beni oggetto del vincolo di destinazione sono sottratti alla garanzia patrimoniale generica prevista dalla legge a favore del creditore (art. 2740 c.c.), il primo problema posto da tali negozi riguarda la meritevolezza dell’interesse che con essi perseguono le parti.
2. Compatibilità dei negozi di destinazione con l’art 2740 cc
Il dibattito sull’ammissibilità di tali figure negoziali risulta, così, strettamente collegato all’interpretazione del principio della garanzia patrimoniale generica posto dall’art. 2740 c.c. Al primo comma la norma stabilisce l’universalità della responsabilità patrimoniale del debitore: nessun bene del debitore sfugge alla funzione di garanzia generica dell’obbligazione contratta[4].
La garanzia patrimoniale è così nota come l’assoggettabilità del patrimonio del debitore all’azione esecutiva promossa dal creditore. Di conseguenza, la responsabilità patrimoniale rappresenta nel nostro ordinamento un mezzo di tutela delle aspettative del creditore[5].
La responsabilità, congiuntamente al debito, è, pertanto, elemento costitutivo del rapporto obbligatorio poiché essa dà al creditore una garanzia di soddisfacimento della propria aspettativa e dei propri diritti, al di là della volontà di adempiere del debitore.
Se venisse meno questa norma, quindi, verrebbe meno il concetto stesso di obbligazione.
Dell’art. 2740 c.c. sono state date due interpretazioni opposte: soprattutto in passato, la norma è stata intesa quale portatrice di un principio di carattere assoluto; più di recente, si ritiene invece che essa sia espressione di un principio solo tendenziale dell’ordinamento di cui si ammette, in qualche caso, deroga ad opera delle parti, oltre che della legge.
In altre parole, dalla centralità che possedeva in origine l’art. 2740 c.c. si faceva discendere l’inammissibilità di ogni atto di destinazione volto a sottrarre uno o più beni alla garanzia patrimoniale generica. La portata sostanzialmente dogmatica di quest’impostazione è stata, però, progressivamente rivisitata, ponendosi, in particolare, in evidenza che da alcune norme sembra emergere una generale possibilità di destinare alcuni beni ad un determinato scopo in base a precise condizioni. Si pensi soprattutto all’istituto del fondo patrimoniale (art. 167 c.c.): in questo caso la creazione di un patrimonio separato è giustificata dai prevalenti bisogni familiari cui detto fondo è esclusivamente destinato.
Accedendo alla rinnovata interpretazione dell’art. 2740 c.c., ne consegue che il problema dell’ammissibilità del negozio di destinazione quale figura generale dell’ordinamento non può essere risolto, una volta per tutte, in via astratta, ma va affrontato caso per caso, indagando il fine ultimo che le parti intendono con esso perseguire.
3. L’art. 2645 ter cc e l’ammissibilità del negozio di destinazione patrimoniale
Il dibattito sul negozio di destinazione patrimoniale ha preso avvio, in particolare, nel 2006[6] con l’introduzione, da parte del legislatore, dell’art. 2645 ter c.c. Con questa disposizione si è consentita la trascrivibilità degli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322, 2 comma c.c., al fine di rendere opponibile il vincolo erga omnes.
Della norma sono state fornite letture diverse. Coloro i quali negano che essa abbia dato ingresso nell’ordinamento alla figura generale del negozio di destinazione ne evidenziano, innanzitutto, la collocazione sistematica nell’ambito del Libro VI, Capo I, Titolo I del codice civile che disciplina l’istituto della trascrizione. Si sostiene, così, che con tale disposizione il legislatore abbia inteso regolare il regime di pubblicità degli atti che comportano un vincolo di destinazione e si nega, peraltro, che dalla trascrizione del vincolo possa discendere l’efficacia reale dell’opponibilità ai terzi del medesimo, attribuendosi ad esso efficacia meramente obbligatoria.
A fronte di tale impostazione si tende, tuttavia, a ritenere, da parte dei più, che con l’art. 2645 ter c.c. abbia trovato cittadinanza nel nostro ordinamento la figura generale del negozio di destinazione patrimoniale. La condizione cui è ritenuto ammissibile tale negozio è che con esso le parti realizzino un interesse meritevole di tutela, come richiesto dall’art. 1322, 2 comma c.c. La deroga all’art. 2740 c.c. viene ritenuta degna solo se le parti ricerchino con il negozio di destinazione un interesse generale o, comunque, di natura superindividuale.
Tale impostazione valorizza il tenore letterale della norma[7] nonché la forma dell’atto di destinazione imposta dalla legge la quale è quella pubblica. La forma pubblica, del resto, accomuna il negozio di destinazione alla fondazione (art. 14 c.c.), al fondo patrimoniale (art. 167, 1 comma c.c.) e ai patrimoni destinati ad uno specifico affare (art. 2744 quater c.c.), da cui pure discende un effetto di segregazione patrimoniale. In tali casi la deroga al principio di cui all’art. 2740 c.c. è stata, dunque, ritenuta dallo stesso legislatore giustificata in ragione degli interessi dal sapore pubblicistico che tali istituti sono preordinati a soddisfare.
4. La tutela dei creditori in relazione ai negozi di destinazione
Se l’ammissibilità del negozio di destinazione è legata alla meritevolezza degli interessi con esso in concreto perseguiti dalle parti, ne discende che i creditori che ritengano pregiudicate le proprie ragioni possono agire, oltre che con l’azione revocatoria e di simulazione (sussistendone i presupposti rispettivamente previsti dagli artt. 2901 e 1415 ss. c.c.), soprattutto con la più vantaggiosa azione di nullità (art. 1418 c.c.). In altre parole, i creditori generali del conferente potranno chiedere che il giudice dichiari la nullità dell’atto di destinazione patrimoniale qualora con esso le parti non perseguano interessi superindividuali e senza, peraltro, dover sottostare ai limiti e alle difficoltà probatorie che caratterizzano l’azione revocatoria e, soprattutto, l’azione di simulazione. Del resto, tali creditori potranno avvalersi anche dello strumento della revocatoria ribaltata di cui all’art. 2929 bis c.c., norma recentemente introdotta dal legislatore.
Proprio il rafforzamento della tutela dei creditori che con l’art. 2929 bis c.c. è stato realizzato è, secondo alcuni, indice di un’acquisita consapevolezza, anche da parte del legislatore, dell’indebolimento del principio di cui all’art. 2740 c.c.
5. Trust e destinazione patrimoniale
Se le resistenze in ordine alla figura del negozio di destinazione patrimoniale vengono superate alla luce del sindacato sulla meritevolezza dell’interesse con esso perseguito, il quale, come detto, deve essere superindividuale, più problematico è, invece, il riconoscimento nell’ordinamento interno della figura del trust da cui pure discende un effetto di segregazione e destinazione patrimoniale.
Con il trust, istituto di matrice anglosassone basato sulla fiducia[8], il disponente (cosiddetto settlor) trasferisce la proprietà di determinati beni al gestore (cosiddetto trustee) con l’obbligo di amministrarli per poi trasferirli ad un terzo (cosiddetto beneficiary). Pertanto, il trust dà luogo ad un fenomeno di segregazione e destinazione patrimoniale in forza del quale i beni oggetto del trust entrano nel patrimonio del trustee non confondendosi con gli altri beni di quest’ultimo ma andando a costituire una massa separata. Dunque, in forza di tale complessa operazione, il settlor si spoglia della proprietà dei beni che viene trasferita al trustee con il compito di amministrarla secondo le modalità individuate nell’atto programmatico.
Risulta, allora, evidente l’affinità del trust con il negozio fiduciario che pure realizza il trasferimento della proprietà del bene in capo al fiduciante, in ossequio all’idea romanistica di fiducia, e prevede l’obbligo del fiduciario di ritrasferire la proprietà al fiduciante o ad un terzo dopo averla amministrata. Il trust, tuttavia, diversamente dal negozio fiduciario, è posto in essere per garantire l’estraneità del disponente alle successive vicende inerenti ai beni[9].
Al di là delle possibili sfumature che in concreto può assumere[10], del trust si discute, innanzitutto, in punto di ammissibilità poiché, secondo molti, il nostro legislatore con la legge 364/1989 si sarebbe limitato a dettare regole in ordine al trust internazionale, non riconoscendo, invece, il trust interno, cioè quello costituito da cittadini italiani con beni siti in Italia. Il trust interno è, allora, figura alquanto discussa perché, comportando l’effetto segregativo, può porsi in forte frizione rispetto ad alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico.
Prescindendo dal possibile contrasto di tale istituto con il divieto di patti successori (art. 458 c.c.) e con i principi di tipicità e numero chiuso dei diritti reali, particolarmente controversa risulta la sua compatibilità con il principio generale posto dall’art. 2740 c.c. Dal momento che i beni in trust costituiscono una massa indistinta e non fanno parte del patrimonio del trustee, l’istituto del trust potrebbe prestarsi proprio a realizzare l’effetto che detta norma mira ad evitare e cioè l’effetto di limitazione della responsabilità del debitore, per di più non discendente da una precisa disposizione di legge, ma dalla volontà delle parti.
Tuttavia, come per il negozio di destinazione patrimoniale così anche per il trust sono state, ormai superate tutte le resistenze, paventate da una parte minoritaria della dottrina[11], in punto di ammissibilità[12].
Si sostiene, innanzitutto, che la legge 364/1989, con cui è stata ratificata la Convenzione dell’Aja del 1985 sul trust internazionale[13], sia idonea a soddisfare il precetto dell’art. 2740, 2 comma c.c. il quale richiede che le limitazioni alla responsabilità del debitore debbano avvenire per legge. Del resto, si afferma anche che riconoscere cittadinanza al trust interno non vuol dire che con esso le parti possano perseguire interessi non meritevoli di tutela e in contrasto con l’ordinamento. Infatti, alla stregua di tale impostazione, il ricorso al trust si giustifica solo laddove gli interessi delle parti non possano essere meglio soddisfatti con altri istituti. In tal senso, le resistenze che l’istituto incontra possono essere neutralizzate sulla base del vaglio di meritevolezza dell’interesse anelato dalle parti, alla luce, cioè, della causa in concreto della complessiva operazione economica posta in essere[14]. Anche in tal senso, allora, la tutela dei creditori passa necessariamente attraverso la proposizione dell’azione di nullità dell’atto costitutivo del trust.
Sulla base di queste coordinate ermeneutiche la giurisprudenza di legittimità si è, di recente, pronunciata sul trust liquidatorio, quello, cioè, avente ad oggetto l’intera azienda, ed ha chiarito che esso non è di per sé da considerarsi inammissibile[15]. Una tale operazione economica risulterà, infatti, nulla solo quando si accerti, alla luce della causa in concreto, che essa sia stata posta in essere con il fine di sottrarre l’intera azienda alla procedura di liquidazione concorsuale, così eludendo le norme imperative della legge fallimentare.
Da questa e dalle poche pronunce di legittimità sul trust possiamo desumere un principio: la Corte riconosce in astratto l’ammissibilità del trust interno se possiede una valida ragione ossia una causa in concreto.
6. Ammissibilità del trust interno e dei negozi di destinazione patrimoniale alla luce del nuovo art. 2929 bis cc
D’altro canto, come per il negozio di destinazione anche in rapporto al trust interno resta salva la proponibilità della nuova azione di espropriazione anticipata di cui all’art. 2929 bis c.c. Il secondo comma di questa disposizione, come recentemente modificato dalla legge 119/2016, fa riferimento al trasferimento del bene ad un terzo mediante atti del debitore costitutivi di un vincolo d’indisponibilità o di alienazione, e sembra così evocare proprio il trasferimento che avviene per effetto del trust e del negozio fiduciario[16]. Il nuovo art. 2929 bis c.c. sembra, pertanto, confermare l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, dei negozi di destinazione patrimoniale atipici e del trust interno.
[2] Costituiscono esempi classici di destinazione patrimoniale gli artt. 167 c.c., 2447 bis c.c. e l’art. 36 del Testo Unico Finanziario.
[3] Il potere di creare vincoli di destinazione su una parte del patrimonio separandola dal resto involge molteplici tematiche. Presuppone, in particolare, la conoscenza dell’attuale lettura del principio di responsabilità patrimoniale, di cui si darà atto infra, della potenzialità dell’autonomia negoziale, una riflessione sulla causa dei vincoli di destinazione (astratta e concreta) e anche una indagine sulla rinnovata tutela dei creditori del disponente alla luce dell’art. 2929 bis c.c.
Il tema intercetta, peraltro, il fenomeno della proprietà nell’interesse altrui, concetto che dimostra che ormai si assiste ad una scissione tra proprietà in senso formale e sostanziale, scissione tendenzialmente sconosciuta al codice del ’42.
Quando si parla, dunque, di vincoli di destinazione viene in rilievo l’ammissibilità di un negozio in grado di produrre effetti del tutto particolari; in questi casi la tematica del contratto si colora di realità, stante la commistione tra effetti reali e obbligatori. In altri termini, si passa dal contratto, che è il presupposto, al tema della proprietà e dei diritti reali, risultando decisiva l’opponibilità del vincolo ai terzi, in quanto solo un vincolo di destinazione opponibile a terzi produce effetti reali ed è, così, utile per le parti.
[4] Tale principio, da sempre, ha rappresentato il fulcro della disciplina civilistica in tema di rapporti obbligatori che è mutuato, seppure con qualche differenza, dall’art. 1948 del codice civile italiano del 1865, il quale, a sua volta, si ispirava al contenuto dell’art. 2092 del Code Napoleón.
[5] Tale responsabilità trova la sua massima applicazione nelle ipotesi di mancato adempimento operato dal debitore; tuttavia, essa, al di là della fase patologica, si estende all’intero sviluppo del rapporto obbligatorio, a partire già dalla sua formazione.
[6] Peraltro, già prima di questi interventi normativi era comunque possibile imprimere un vincolo di destinazione patrimoniale e la tecnica normalmente utilizzata era quella della costituzione di una persona giuridica. Il grado di separazione del patrimonio dell’ente rispetto a quello delle persone sue componenti variava a seconda del modello utilizzato: massimo nelle società di capitali, sfumato nelle società di persone e nelle associazioni non riconosciute. Tuttavia, diversamente da quanto avviene nel caso dei negozi di destinazione patrimoniale, con la creazione di una persona giuridica al fine di imprimere un vincolo di destinazione nasce un nuovo soggetto di diritto.
[7] Nella norma si fa riferimento, precisamente, a “interessi riferibili a persone con disabilità, alla PA o altri enti e persone fisiche“.
[8] Si tratta di un fenomeno gestorio che può essere assimilato alla proprietà conformata, funzionalizzata al perseguimento di determinate finalità.
Secondo Cass., Sezione Tributaria Civile, 12 dicembre 2015 n. 25478, il trust dà luogo ad un rapporto giuridico fondato sulla fiducia tra disponente (settlor) e trustee. Il disponente trasferisce, per atto inter vivos o mortis causa, taluni beni o diritti in favore del trustee il quale li amministra con i diritti e i poteri del proprietario nell’interesse del beneficiario o per uno scopo prestabilito.
L’effetto principale dell’istituzione di un trust è la segregazione patrimoniale in virtù della quale i beni oggetto del trust, costituendo un patrimonio separato, non possono essere aggrediti né dai creditori del settlor, né dai creditori del trustee né dai creditori del beneficiario (salvo quanto si dirà infra a proposito del nuovo art. 2929 bis c.c.). In questo senso il trust è caratterizzato da una doppia proprietà perché l’una, in capo al trustee, è finalizzata all’amministrazione, mentre l’altra, in capo al beneficiario, all’effettivo godimento del bene e delle sue utilità, per cui, in base ai tradizionali canoni dell’ordinamento, non è agevole misurarsi con un simile sdoppiamento di proprietà. Tuttavia, tale sdoppiamento si spiega se si considera che la titolarità del diritto di proprietà in capo al trustee è piena; è il suo esercizio che è limitato al perseguimento degli scopi indicati nell’atto istitutivo del trust.
Nella sentenza citata la Corte precisa altresì che, se ha causa di liberalità, il trust rientra nell’orbita civilistica delle donazioni indirette.
[9] Allo stesso modo, il trust presenta notevoli affinità anche con il patto di famiglia (art. 768 bis c.c.), ma, mentre quest’ultimo può essere creato per soddisfare bisogni attinenti esclusivamente alla famiglia, il trust, invece, è caratterizzato da una maggiore libertà di scopo.
[10] Se questa è la struttura essenziale dell’istituto, è anche vero che il trust può assumere nella realtà le forme più disparate: in particolare, è possibile che il disponente assegni a se stesso il compito di gestire i beni (trust autodichiarato), assumendo così sia il ruolo di settlor che di trustee, ovvero che non vi sia alcun beneficiario (trust di scopo).
[11] Si pensi in particolare a F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XVII edizione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, pp. 842 ss. L’autore ritiene che il legislatore, con l’introduzione dell’art. 2645 ter c.c., non abbia espressamente riconosciuto in via generale la figura del negozio di destinazione atipico. Ciò risulterebbe confermato, in particolare, dalla collocazione sistematica dell’art. 2645 ter c.c. nell’ambito delle norme in materia di trascrizione. Si tratterebbe, pertanto, di una norma sugli effetti e non sull’atto.
Del resto, si nega l’ammissibilità del trust interno sia perché la Convenzione dell’Aja del 1985 sul trust internazionale non sarebbe stata ratificata da parte del legislatore italiano, sia perché il trust interno si porrebbe in contrasto con una serie di principi fondamentali del nostro ordinamento. In particolare, fortissimi sono i dubbi di compatibilità con i principi di tipicità e numero chiuso dei diritti reali e con il divieto di patto successorio (art. 458 c.c.). Parimenti l’istituto rappresenterebbe un mezzo per eludere la disciplina sulla garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.) perché con esso si raggiungerebbe il fine vietato dalla norma di impedire tanto ai creditori del settlor quanto ai creditori del trustee di aggredire i beni oggetto del trust.
[12] A favore dell’ammissibilità si pronuncia in dottrina V. ROPPO, Il contratto in Trattato di diritto privato a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Giuffré Editore, Seconda Edizione, 2011, pp. 645-646. L’ammissibilità di tale figura è ormai riconosciuta anche dalla giurisprudenza come si darà atto infra.
[13] Si definisce trust internazionale quello che presenti almeno un elemento di estraneità rispetto al diritto interno.
[14] Per quanto riguarda, invece, i principi di tipicità e numero chiuso dei diritti reali, un problema di compatibilità con gli stessi si pone solo laddove si proceda alla trascrizione del vincolo derivante dal trust ex art. 2645 ter c.c. In questo caso, come nel caso dei negozi di destinazione (art. 2645 ter c.c.), da un lato, vi sarebbe un diritto reale i cui titolari risulterebbero i beneficiari (cd. proprietari sostanziali), dall’altro il diritto del trustee può essere ricondotto alla proprietà conformata che mantiene le caratteristiche essenziali del diritto di proprietà ma risulta limitata dall’esigenza di rispettare la funzione di destinazione.
Quanto detto si giustifica, peraltro, ove si consideri che, secondo molti, nel nostro ordinamento non è più i lecito ormai discorrere della proprietà ma delle proprietà, nel senso che esistono più modelli di proprietà ciascuno con connotazioni proprie.
A conferma dell’ammissibilità del trust interno si pone poi un argomento di natura pratica: a voler ragionare diversamente, si produrrebbe una evidente discriminazione tra cittadini italiani e stranieri in quanto solo a questi ultimi verrebbe consentito di costituire un trust in Italia, mentre analoga possibilità verrebbe negata al cittadino italiano.
Del resto, a fugare ogni residuo dubbio, la legge finanziaria del 2007 (modificando gli artt. 43 e 47 del d.p.r. 917/1986 TUIR) ha disciplinato la tassazione dei redditi dei trust con beneficiari italiani o beni siti in Italia, così implicitamente ammettendo la vigenza dell’istituto del trust anche nell’ordinamento interno.
[15] Cass. Sezione I Civile, 9 maggio 2014 n. 10105.
Con il trust liquidatorio l’imprenditore, avendo debiti, per evitare il fallimento e l’apertura della procedura fallimentare, volendo soddisfare tra i creditori personali e dell’azienda solo quelli dell’azienda, crea un trust con i beni aziendali, dando direttive al trustee su come liquidare l’azienda.
Secondo la Corte, tale figura è ammissibile in astratto purché, però, l’imprenditore soddisfi tutti i creditori. Con il trust liquidatorio, anzi, si raggiungerebbe l’effetto di consentire la liquidazione dell’azienda in maniera più veloce rispetto all’apertura delle ordinarie procedure concorsuali.
[16] L’art. 2929 bis c.c. altera questa regola e individua, con riguardo ad un determinato tipo di negozi di destinazione patrimoniale, uno strumento di tutela particolarmente forte, l’azione semplificata di esecuzione anticipata, anche ritenuta da alcuni una revocatoria ribaltata. Alterando la disciplina dell’art. 2915 c.c., la norma evidenzia che, in relazione a vincoli di indisponibilità e destinazione compiuti a titolo gratuito (i più sospetti), il creditore, se vanta un credito anteriore al negozio di destinazione, può procedere a esecuzione forzata anche se il negozio di destinazione è stato trascritto prima del pignoramento, ma a condizione di trascrivere il pignoramento nel termine di un anno da quando il negozio di destinazione è stato trascritto.
La ratio di questa norma, distonica rispetto ai principi generali in materia di opponibilità, si spiega perché il legislatore ritiene che i negozi di destinazione patrimoniale che impongono vincoli di indisponibilità con carattere gratuito possano presumersi fraudolenti e cioè emessi in frode ai creditori. Questa presunzione consente di scompaginare le tradizionali regole in punto di opponibilità.
La norma nasce dunque perché il legislatore prende atto della scarsa efficacia dell’azione revocatoria, strumento principe che il creditore ha a disposizione per attaccare il negozio di destinazione (actio pauliana dei romani) che si fonda sulle condizioni previste dall’art. 2901 c.c.: atto dispositivo del debitore, eventus damni (pregiudizio) e elemento soggettivo (consilium fraudis– che cambia a seconda del se l’atto sia a titolo gratuito ovvero oneroso)