Danno da nascita indesiderata e diritto a non nascere: chiesta assegnazione a Sezioni Unite

Con l’ordinanza n° 3569 del 23.02.2015, la terza sezione civile della Suprema Corte è tornata ad affrontare il delicato tema del danno da nascita indesiderata, chiedendo al riguardo l’assegnazione alle Sezioni Unite.

In primo luogo, si ricorda che il danno da nascita indesiderata ricorre quando, a causa del mancato rilievo dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, la donna incinta non ha la possibilità di interrompere la gravidanza. Nel caso di specie, due genitori di una bimba affetta da sindrome di Down agivano contro l’Azienda Sanitaria, il medico ginecologo ed il direttore del laboratorio di analisi chiedendo il risarcimento del danno da “nascita non desiderata” per non aver potuto scegliere consapevolmente, a seguito degli opportuni accertamenti, di interrompere la gravidanza (dopo i primi 90 giorni).

A tal riguardo, la Cassazione ha riconosciuto due questioni oggetto di contrastanti orientamenti di legittimità: la prima relativa all’onere probatorio, la seconda alla legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria.

Quanto alla questione sull’onere probatorio, la Corte di legittimità rileva innanzitutto che la prova per veder riconosciuto il risarcimento da nascita indesiderata deve riguardare non solo il nesso causale fra l’inadempimento dei sanitari (che hanno omesso di effettuare gli opportuni approfondimenti diagnostici) e il mancato ricorso all’aborto, ma anche la sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione. L’art. 6, lett. b) della l. n. 194/78 prevede, infatti, che l’aborto oltre tale termine può essere effettuato solo in seguito all’accertamento di “processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

Sul punto, tuttavia, sussiste un contrasto tra due principali orientamenti. Entrambi concordano sul fatto che la gestante ha l’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza e che la conoscenza di tali elementi avrebbe generato in lei uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica. Tuttavia, come precisato dalla Suprema Corte, la divergenza tra i due orientamenti si ravvisa in merito all’individuazione del tipo, nonchè del contenuto, della prova richiesta alla madre: secondo taluni, infatti “è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso”, compresa quella del “pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia”. L’altro recente orientamento evidenzia invece come, in “mancanza di una preventiva espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica, la mera richiesta di un accertamento diagnostico costituisca un indizio isolato […] del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza), dal quale il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico”.

Anche in merito alla seconda questione relativa alla legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria, dopo aver rilevato che “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita”, la Cassazione pone in evidenza il contrasto giurisprudenziale. Secondo il consolidato orientamento negativo, è esclusa la configurabilità anche di un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”: tale diritto, infatti, “non avrebbe alcun titolare fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più”, con la conseguenza che, “verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto”.

V’è tuttavia, chi recentemente ha affermato che il nascituro, “ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e rappresentato dell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire”.

Alla luce di quanto detto, la Corte ha perciò rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

(Cassazione civile, Terza Sezione, ordinanza interlocutoria 23.02.2015 n° 3569)

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