Nel presente documento si individuano, senza pretesa di esaustività, i casi in cui il codice civile attribuisce ad una delle parti del contratto, la quale si sia resa responsabile di comportamenti illeciti, la facoltà di porre in essere atti riparatori dell’illiceità e quindi eliminatori di quest’ultima, mediante l’esercizio di un potere il quale è assimilabile al potere di “autotutela” operante nel diritto amministrativo, strumento tramite cui la PA, una volta accertata l’illegittimità di un proprio provvedimento, lo annulla.
Nell’individuazione dei predetti casi, si ha modo di verificare che il potere sopra citato non viene riconosciuto dal codice civile in maniera generalizzata, ma viene attribuito solo in relazione a determinate fattispecie. Ci sono, tuttavia, dei casi, in cui tale potere viene escluso, laddove però tali casi sono sostanzialmente identici a quelli per i quali il medesimo potere viene previsto (p. es. in materia di annullabilità e rescindibilità), e ciò non può che porre un problema in termini di disparità di trattamento (art. 3 Costituzione) tra fattispecie essenzialmente coincidenti.
Si dubita poi della legittimità dell’esclusione del potere di “autotutela” in materia di concessione del diritto reale di servitù, il quale, dopo essere stato concesso da uno dei comproprietari del fondo senza l’assenso degli altri e perciò in maniera illecita, non può essere successivamente, dallo stesso comproprietario, “revocato” (art. 1059 comma 2 c.c.). La mancata attribuzione, al comproprietario concedente, di un potere di autotutela, volto ad impedire che il titolare del diritto di servitù eserciti effettivamente tale diritto, appare illegittima alla luce dell’art. 1102 c.c. .
Si reputa, invece legittimo il principio, sancito dall’art. 1309 c.c. in materia di obbligazioni solidali, in base quale l’atto di autotutela posto in essere da uno condebitore mediante il riconoscimento di debito non estende i suoi effetti agli altri condebitori, e ciò sia perchè la rilevanza costituzionale del diritto di difesa fa di quest’ultimo un diritto di natura personale, e come tale non limitabile da atti compiuti da altri (seppur titolari della medesima situazione giuridica di “obbligati”), sia perché i principi generali che caratterizzano le obbligazioni solidali sono incentrati sulla mancata estensione, a danno degli altri coobbligati, di atti ricognitivi del debito posti in essere da uno solo di essi.
LA QUESTIONE
L’autotutela è un istituto del diritto amministrativo (art. 21 nonies Legge 241/90), essendo essa lo strumento mediante cui la PA, una volta accertata l’illegittimità di un proprio atto, provvede ad annullarlo, sia per ripristinare l’osservanza del principio di legalità, al quale la stessa è vincolata, sia per evitare condanne risarcitorie a seguito dell’azione giudiziale eventualmente intrapresa da chi dall’atto stesso lamentava essere stato leso.
Ci si chiede se tale istituto trovi cittadinanza anche nel diritto privato, in quanto il principio di legalità si applica in qualsiasi ambito e pertanto l’obbligo di agire conformemente alla legge, nonché l’interesse ad evitare condanne risarcitorie a causa di un comportamento illecito, sussistono – e non potrebbe essere altrimenti – pure nei rapporti civilistici.
L’AUTOTUTELA NELLA SIMULAZIONE DEL CONTRATTO (ART. 1417 C.C.)
Un primo esempio di autotutela in tali rapporti può essere individuato nell’art. 1417 c.c., il quale, nel disciplinare la prova per testi della simulazione di un contratto, stabilisce che tale prova, qualora sia diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato, è ammissibile senza limiti “anche se è proposta dalle parti”.
Le parti avevano dichiarato nel contratto di voler fare una vendita (contratto simulato), ed invece nella realtà hanno fatto una locazione (contratto reale, ossia “dissimulato”), la quale però è illecita, in quanto in essa è stato stabilito che una di esse dovesse adempiere a degli obblighi che tuttavia erano in contrasto con norme imperative e quindi, come tali, vietati dalla legge.
Le stesse parti (la norma non fa distinzioni, e quindi si intende anche la parte che dall’adempimento di tali obblighi, illeciti, sarebbe stata avvantaggiata), adesso, vogliono dimostrare, anche avvalendosi di testimoni, che il contratto dissimulato era illecito, appunto in quanto caratterizzato dall’assunzione dei suddetti obblighi. L’art. 1414 comma 2 c.c. stabilisce che “se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma”. Ma in tal caso il negozio dissimulato è illecito, e quindi non può “valere”. I “requisiti di sostanza” debbono essere quelli previsti dalla legge, altrimenti il negozio è nullo. Pertanto, l’art. 1414 comma 2 c.c. si applica solo nel caso in cui il contratto dissimulato sia valido.
D’altra parte, ai sensi dell’art. 1414 c.c., “il contratto simulato non produce effetto tra le parti”, e quindi, nel caso di specie, tra le parti non può valere neanche la vendita.
Ecco, allora, che le parti, ex art. 1417 c.c., sono ammesse a dimostrare – anche a mezzo testi – che il contratto dissimulato (locazione) era ed è illecito. Tizio, avendo dichiarato di vendere a Caio, aveva fatto risultare che non sarebbe stato più titolare del bene, e che pertanto su questo i creditori non avrebbero potuto soddisfarsi, ed invece, in realtà, ha eseguito con Caio un contratto di locazione, dando quindi a quest’ultimo il bene solo in godimento senza tuttavia privarsi della proprietà e pertanto in tal modo eludendo (ecco dove sta l’intento frodatorio della simulazione) le pretese dei creditori stessi. Ebbene, Tizio adesso, d’accordo con Caio, vuole far accertare che anche la locazione era illecita in quanto eseguita in violazione di norme imperative: si pensi, p. es., al fatto che il locatore ha preteso un anticipo del canone superiore a tre mensilità, cosa vietata dall’art. 11 della Legge 392/1978. Le parti, attraverso tale dimostrazione, ripristinano la legalità, a vantaggio dei creditori di Tizio, i quali ora sanno di poter agire esecutivamente sul bene di quest’ultimo, poiché questo – vista l’illiceità della locazione – deve ancora considerarsi come di sua proprietà.
Tale comportamento è assimilabile a quello della PA la quale, riscontrata l’illegittimità di un proprio provvedimento, lo annulla, appunto in via di “autotutela”.
LA COMPRAVENDITA DI COSA ALTRUI E L’IMPEGNO DEL VENDITORE A PROCURARE L’ACQUISTO (ART. 1479 C.C.)
Entrando nello specifico della materia contrattuale, l’art. 1479, nel disciplinare la compravendita di cosa altrui, al comma 1 c.c. prevede che “il compratore può chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l’ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà”. Il venditore può essere stato in dolo al momento in cui ha concluso il contratto, in quanto ha fatto credere al compratore di essere lui il proprietario della cosa e quindi ha ingenerato nel compratore il legittimo convincimento di acquistare un bene dal legittimo proprietario. Lo stesso venditore, però, successivamente, può “riparare” a tale comportamento doloso (“autotutela”), acquistando effettivamente la cosa da chi ne è il vero proprietario, e quindi poi a sua volta trasferendo la proprietà della stessa al compratore, rispettando pertanto gli obblighi assunti nel contratto di vendita ed in tal modo evitando la risoluzione da parte del compratore stesso.
L’AUTOTUTELA NELLA RESCISSIONE DEL CONTRATTO (ART. 1450 C.C.) E L’ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELLA DIFFERENTE DISCIPLINA DETTATA IN MATERIA DI CONTRATTO ANNULLABILE (ART. 1432 C.C.)
Un altro caso di autotutela si può individuare nella disciplina della rescissione del contratto, segnatamente nell’art. 1450 c.c.
La norma prevede che “il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”. La rescissione è chiedibile dalla parte quando questa si sia trovata ad assumere obbligazioni “a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” (art. 1447 c.c.). Il fatto che la suddetta necessità fosse “nota alla controparte” (Caio), vuol dire che questa aveva “dolosamente” accettato di concludere il contratto a tali condizioni, ossia ben sapendo che la parte (Tizio) avrebbe dovuto adempiere ad obblighi sproporzionati rispetto al valore della controprestazione. Caio, pertanto, ben sapeva che avrebbe potuto ottenere dei vantaggi di entità eccedente quella degli obblighi posti a proprio carico.
Ebbene, Caio può riparare al proprio “dolo” offrendo una modifica equa delle condizioni contrattuali e quindi cancellando quella condizione di inferiorità negoziale nella quale Tizio si era venuto a trovare. Caio, siccome aveva accettato di sottoscrivere un contratto pur sapendo che Caio era “obbligato” a stipulare ma non aveva in realtà la volontà di farlo, aveva violato gli obblighi di buona fede e correttezza che l’art. 1175 c.c. impone alle parti nell’ambito delle trattative finalizzate alla stipula del contratto, correttezza la quale avrebbe dovuto indurre Caio a rifiutare la stipula a quelle condizioni.
Il principio desumibile dall’art. 1450 c.c., pertanto, è quello per cui in ambito contrattuale il comportamento illecito di una delle parti può essere da questa “riparato” mediante l’esercizio di un potere di “autotutela”, ossia attraverso un’autodenuncia di tale comportamento (vedi, appunto, “offerta di modifica equa del contratto”).
Ma allora, se così stanno le cose, non si capisce per quale motivo, in materia di annullabilità del contratto, l’art. 1432 c.c. preveda l’offerta, ad opera della controparte, di una modifica equa del contratto (“autotutela”) solo quando la parte, che da quest’ultimo verrebbe lesa, sia stata in “errore”, e non anche quando la controparte sia stata in “dolo”. La disciplina dettata in tale materia, siccome fa dipendere la modifica equa non da un comportamento illecito della controparte (dolo) ma unicamente da un “errore” di valutazione nel quale sia incorsa la stessa parte che adesso vorrebbe chiedere l’annullamento, configura una fattispecie di autotutela che in realtà è solo “apparente”: di autotutela si può parlare solo con riguardo ad un comportamento riparatorio di un “proprio” illecito, che nel qual caso sarebbe appunto il dolo della controparte, e non anche in riferimento al fatto che la parte abbia accertato aver essa stessa commesso un errore. Pertanto, considerato che tra il “dolo” in materia di annullabilità ed il “dolo” in ambito di rescissione non vi è, nella sostanza, alcuna differenza, anche l’art. 1432 c.c. dovrebbe prevedere, analogamente all’art. 1450 c.c., che l’offerta di modifica equa del contratto possa essere formalizzata dalla controparte anche quando quest’ultima sia stata, per l’appunto, in dolo. Di conseguenza, anche quella dell’art. 1432 c.c. dovrebbe essere una fattispecie di “autotutela” vera, e non soltanto apparente.
LA CONCESSIONE, DA PARTE DI UNO DEI COMPROPRIETARI DI UN FONDO, DEL DIRITTO DI SERVITU’ AD UN TERZO: LA MANCATA ATTRIBUZIONE DI UN POTERE DI AUTOTUTELA AL COMPROPRIETARIO E’ IN CONTRASTO CON I PRINCIPI FONDAMENTALI IN MATERIA DI COMPROPRIETA’
Vi è un caso in cui l’autotutela non viene ammessa dal codice civile, ed è ciò che accade in materia di diritti reali di godimento. La fattispecie è quella della servitù concessa da uno dei comproprietari del fondo servente senza aver prima avuto l’assenso degli altri.
Da premettere che la comproprietà è soggetta alla disciplina della comunione, e, in merito a questa, l’art. 1105 comma 2 c.c. stabilisce che per gli atti di ordinaria amministrazione occorre una delibera presa a maggioranza, non potendo tali atti essere decisi dal singolo comproprietario, mentre l’art. 1108 comma 1 c.c. prevede che, per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, occorre una maggioranza la quale rappresenti almeno 2/3 del valore complessivo della cosa comune.
In qualsiasi modo si voglia inquadrare la fattispecie della costituzione di diritti reali su un fondo oggetto di comproprietà (atto di ordinaria o di straordinaria amministrazione), comunque tale costituzione necessita del consenso della maggioranza, e quindi non è valida se eseguita da un singolo comproprietario separatamente dagli altri.
L’art. 1059 comma 2 c.c. stabilisce che la concessione fatta da uno dei comproprietari indipendentemente dagli altri “obbliga il concedente e i suoi eredi o aventi causa a non porre impedimento all’esercizio del diritto concesso”. Il comproprietario del fondo, il quale abbia deciso, di sua iniziativa e quindi senza ricevere l’assenso della maggioranza degli altri comproprietari, e pertanto in modo illecito, di costituire sul fondo stesso un diritto di servitù a favore di un terzo, non può poi, in via di “autotutela”, revocare la propria decisione ed impedire al terzo di esercitare il diritto di servitù, anche se quest’ultimo è stato attribuito in modo illecito. Ebbene, la mancata attribuzione di tale potere di “autotutela” desta perplessità in quanto, se tale potere fosse invece esercitabile, il comproprietario concedente, una volta ottenuta la cessazione della servitù, ripristinerebbe, anche in favore di altri soggetti (ossia gli altri comproprietari), il pieno godimento del fondo, e pertanto in tal caso il “ripristino della legalità violata” andrebbe a beneficiare non soltanto il soggetto esercitante il potere di autotutela ma anche altri. La mancata attribuzione, da parte dell’art. 1059 comma 2 c.c., di un potere di autotutela al comproprietario del fondo, appare difficilmente giustificabile alla luce dell’art. 1102 comma 1 c.c., il quale prevede che “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”: il comproprietario il quale conceda ad un terzo un diritto di servitù sul fondo senza aver prima ricevuto l’assenso della maggioranza degli altri comproprietari, è colui che impedisce a questi ultimi di fare anch’essi uso della cosa comune, ossia di continuare a godere, in via esclusiva, del fondo stesso. Inoltre, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, “il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”: il comproprietario potrebbe costituire sul fondo, a favore di un terzo, il diritto di servitù solo nel caso in cui acquisisse le quote degli altri comproprietari, mutando pertanto il suo titolo da comproprietario a proprietario esclusivo. Di conseguenza, l’art. 1059 comma 2 c.c. deve essere considerato come illegittimo per contrasto con quelli che sono i principi fondamentali contenuti nella disciplina della comproprietà.
IL RICONOSCIMENTO DI DEBITO: LA MANCATA ESTENSIONE AGLI ALTRI CONDEBITORI APPARE LEGITTIMA ALLA LUCE DEI PRINCIPI GENERALI CHE CARATTERIZZANO LE OBBLIGAZIONI SOLIDALI
Una fattispecie in cui poter ravvisare un caso di “autotutela” appare essere quella del riconoscimento di debito, ossia un atto con cui un soggetto (Tizio) “ammette” di essere tenuto ad una determinata prestazione verso un altro soggetto (Caio) e quindi di essere effettivamente “debitore” verso quest’ultimo, nonostante che, per un lasso di tempo più o meno lungo, egli avesse sempre negato la sussistenza di un obbligo a proprio carico. Se egli non avesse proceduto al suddetto riconoscimento, Caio, che reclamava il diritto alla prestazione, avrebbe, con ogni probabilità, intrapreso un’iniziativa giudiziale al fine di vedersi riconosciuto tale diritto, e ciò avrebbe comportato a Tizio la condanna, oltre che alla prestazione, anche a pagare le spese di giudizio.
Tizio, quindi, riconoscendo il debito, ha, sostanzialmente, posto riparo ad un comportamento negatorio, che, se fosse continuato, avrebbe costretto Caio ad un’azione legale la quale, se da un lato si sarebbe conclusa in maniera favorevole per Caio, dall’altro lato avrebbe comportato l’attivazione di un procedimento giurisdizionale e quindi la lesione (inutile, visto che poi Tizio sarebbe stato comunque condannato, anche per temerarietà della lite ex art. 96 c.p.c.) del principio di economicità dell’attività di accertamento. Tizio, quindi, riconoscendo il debito, ha evitato un comportamento che sarebbe stato illecito nei confronti dello Stato, in quanto sarebbe consistito nel resistere in modo temerario, ossia illogico, ad una domanda giudiziale pienamente fondata, e pertanto nel causare un danno alla celerità di altri procedimenti giudiziali attivati invece in modo non manifestamente infondato, ossia un danno alla collettività, intesa come riferita sia alla “macchina” giurisdizionale sia ai cittadini che nei suddetti altri procedimenti erano coinvolti. Si può, quindi, affermare che Tizio, mediante il riconoscimento di debito, ha evitato all’interesse pubblico un danno “ingiusto”, ossia contra legem.
Ebbene, ai sensi dell’art. 1309 c.c., “il riconoscimento del debito fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri”. In materia di obbligazioni solidali, vige il principio per il quale un atto di “autotutela”, quale può considerarsi – come abbiamo visto – il riconoscimento di debito, se posto in essere da parte di un solo obbligato, non vincola gli altri, i quali possono decidere, nella loro autonomia, di resistere ad un’eventuale azione giudiziale, evidentemente fiduciosi che tale azione verrà dichiarata infondata.
Pertanto, in materia di obbligazioni solidali, l’autotutela posta in essere da uno dei coobbligati (vedi riconoscimento di debito) non si estende anche agli altri, i quali possono, legittimamente, continuare a negare la loro posizione debitoria e quindi opporsi alla richiesta del creditore.
Ci si chiede se tale mancato effetto estensivo dell’autotutela possa ritenersi legittimo alla luce di quelli che sono i principi generali i quali caratterizzano le obbligazioni solidali.
Che gli altri obbligati non vogliano riconoscere il debito e vogliano, al contrario, continuare ad opporsi alle richieste del creditore, appare fondato sulla rilevanza costituzionale del diritto di difesa, la quale fa di quest’ultimo un diritto di natura personale del condebitore, il cui esercizio quindi non può essere limitato od addirittura negato dalla decisione di un altro condebitore di voler riconoscere la fondatezza della pretesa del creditore e quindi di voler adempiere.
L’art. 1233 c.c. prevede che la novazione effettuata tra uno dei debitori in solido ed il creditore possa avere effetto liberatorio per tutti gli altri debitori. La novazione è la sostituzione dell’obbligazione originaria con una nuova obbligazione, e comporta l’estinzione della prima. Ebbene, uno dei condebitori può concordare con il creditore che, mediante la novazione, gli altri debitori saranno liberati da qualsivoglia obbligo, e che quindi solo lo stesso condebitore rimarrà obbligato verso il creditore. Evidentemente il creditore, se acconsente alla liberazione degli altri debitori, è perché reputa che dalla novazione possa ottenere le stesse utilità (se non maggiori) che egli avrebbe ottenuto se l’obbligazione si fosse mantenuta solidale, e ciò in quanto l’unico debitore rimasto gli ha fornito delle garanzie solide circa l’effettivo adempimento della prestazione derivante dalla novazione. Ebbene, mentre nel caso della novazione l’effetto estensivo si produce a vantaggio degli altri debitori (questi, appunto, vengono liberati da qualsiasi obbligo), nel caso del riconoscimento di debito esso si produrrebbe a danno di questi ultimi, e tale effetto non appare legittimo alla luce della norma contenuta nell’art. 1310 comma 3 c.c., in base alla quale la rinuncia alla prescrizione fatta da un condebitore non ha effetto riguardo agli altri debitori, i quali quindi conservano il diritto di sostenere che il credito è prescritto.
Per tutte queste ragioni, si deve ritenere che il principio in base al quale la mancata estensione dell’atto di autotutela compiuto da un condebitore (riconoscimento di debito) non ha effetto nei confronti degli altri debitori, sia del tutto legittimo.
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