La rilevanza della sentenza pronunciata dalla Sezione III Civile e pubblicata il 3 maggio 2024, nr. 12007, non è sfuggita a osservatori e commentatori. A partire da pochi giorni dopo la pubblicazione hanno cominciato a succedersi interventi di diversa ampiezza e portata, che andavano da un mero intento di portare a rapida conoscenza il testo della decisione corredato di poche essenziali contestualizzazioni fino a veri approfondimenti critici. In tutti i casi veniva in primo piano l’intento di valorizzare al massimo la portata della decisione, che sarebbe consistita nel fissare una volta per tutte i punti fermi in una materia sfuggente, tecnicamente complessa e spesso elusa dalla giurisprudenza: il riferimento all’Euribor portato da clausole contrattuali, in particolare nella determinazione dei tassi di interesse o comunque nella quantificazione dell’obbligazione.
La stessa sezione della Suprema Corte aveva voluto segnalare in modo chiaro il peso eccezionale che attribuiva a questa decisione, scegliendo le forme della trattazione in pubblica udienza e della pronuncia solenne. Scelta motivata sia dalla dichiarata consapevolezza del rilievo sociale, prima ancora che giuridico, della materia specifica, sia dall’opportunità di rimarcare sul piano formale la presa di distanze da quanto la medesima sezione aveva statuito nemmeno sei mesi prima (Ordinanza n. 34889 del 13 dicembre 2023).
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Una decisione dettagliata per una fattispecie particolarissima
Si vuole proporre qui una visione diversa.
Le affermazioni della Corte, enfatiche nel testo stesso della sentenza, non vanno assunte nel loro valore facciale; tantomeno vanno esaltate ulteriormente (come invece hanno fatto molti commenti, forse troppo frettolosi). Si tratta invece di guardare alla profondità e alla peculiarità della decisione come sviluppata nel testo.
Il testo della decisione non solo è particolarmente esteso ma risulta molto approfondito, articolato e consapevole. Mostra così di essere frutto di una riflessione, stimolata (come noto) dalla requisitoria del Procuratore Generale risalente al 7 marzo 2024. Vuole in tale modo soddisfare appieno all’attività di creazione di norme positive concrete applicabili a fattispecie a loro volta concrete, che meglio esprime la stessa ragione di esistere della Suprema Corte.
Di conseguenza non appare possibile, non si dica consigliabile, prescindere dal contesto contrattuale complesso donde è sorta la controversia in cui si colloca anche il riferimento all’Euribor quale parametro per quantificare determinate obbligazioni contrattuali. La Corte stessa segnala che questo tema, le c.d. ‘clausole Euribor’, viene affrontato solo riguardo “ai contratti del tipo di quello oggi in esame”.
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Contratto di mutuo e/o garanzia bancaria
Una società stipula con un istituto di credito un contratto di mutuo per una somma di denaro, consegnata a mezzo di assegno circolare non trasferibile e quindi depositata dal mutuatario presso la stessa banca mutuante in conto infruttifero e vincolato all’ordine di quest’ultima e a titolo di garanzia per le obbligazioni assunte dalla banca mutuante nei confronti del mutuatario. Solo un atto di volontà da parte dell’istituto di credito poteva svincolare tale somma determinandone il trasferimento, totale o parziale, alla società mutuataria. Solo in seguito a tale atto poteva sorgere in capo al mutuatario un obbligo di restituzione.
Nella ricostruzione di questo assetto negoziale complesso fornita dalla sentenza, si ha un contratto di mutuo reale e regolarmente perfezionato. La Suprema Corte esclude cioè di considerarlo un mutuo fittizio ossia un contratto di altra tipologia (apertura di credito) velato dalla forma del mutuo. Allo stesso tempo però esclude non meno nettamente che un siffatto contratto di mutuo possa essere fonte di un diritto certo, liquido e esigibile in capo al mutuante. Tale diritto verrebbe invece in essere solo e eventualmente nel momento in cui la somma fosse in tutto o in parte svincolata nelle debite forme (atto pubblico o scrittura privata autenticata) e entrasse così a fare parte del patrimonio del mutuatario.
Non valorizza la tipicità del mutuo entro un assetto negoziale che, pure del mutuo avendo pienezza di forme e di realtà, esprime in prevalenza un negozio di garanzia.
In tale prospettiva la Corte di Cassazione ha censurato pesantemente la decisione della Corte d’Appello di Milano, sent. 25 gennaio 2022 nr. 230, anzi ha ritenuto di dovere respingere la prospettiva stessa in cui tale Corte si è posta stigmatizzandola come “non corretta sul piano giuridico”.
I giudici di appello avrebbero infatti erroneamente trascurato che il mutuatario aveva impiegato la somma mutuata al fine di ottenere una garanzia dalla stessa banca mutuante e lo avesse fatto depositando presso quest’ultima la somma mutuata e come tutto questo fosse avvenuto non mediante una traditio ma solo attraverso scritturazioni contabili.
In tale prospettiva perde rilevanza l’aspetto su cui i giudici di appello hanno concentrato l’attenzione, ossia se il contratto di mutuo fosse esistente e valido poichè perfezionato regolarmente.
Rileva invece la peculiarità del negozio complesso con le intenzioni delle parti, della società che necessita di una garanzia prestata dall’istituto di credito e dell’istituto di credito che a sua volta vuole garantirsi nel contesto di tale negozio di garanzia facendolo assistere da un contratto di mutuo che gli permetterebbe, se del caso, di rivalersi efficacemente sul garantito nonché mutuatario.
Gli ermellini affermano, senza nemmeno sottolinearlo troppo poichè di palmare evidenza, quanto fosse necessario, per valutare e decidere in ogni grado di giudizio e in qualsivoglia prospettiva (di merito o di metodo) sul caso in questione, tenere conto di tutte le pattuizioni negoziali. La peculiarità del rapporto negoziale complesso è e deve essere sempre centrale per tutte le valutazioni relative a questo caso particolare.
Il riferimento all’Euribor
Appare quindi altrettanto evidente che il riferimento all’Euribor quale indice per quantificare l’obbligazione contrattuale assuma senso soltanto all’interno di questa particolare tipologia di assetti negoziali e che tutte le considerazioni sviluppate in proposito dalla sentenza si riferiscano solo al contratto di mutuo che assiste una prestazione di garanzia.
La società mutuataria fa infatti riferimento all’Euribor, per il periodo 2005-2008, quale indice per determinare il tasso di interesse relativo al mutuo, invocando nel ricorso per cassazione la nullità della clausola contrattuale, sulla base della considerazione per cui un ‘cartello’ di grandi banche europee avrebbe manipolato intenzionalmente tale indice, come acclarato e sanzionato dalla Commissione Europea con decisione del 4 dicembre 2013.
Euribor e negozi di garanzia
Solo in tale prospettiva molto specifica la Corte affronta la questione di diritto avente a oggetto la validità delle clausole contrattuali che, al fine di determinare il tasso di interesse, moratorio o convenzionale, fanno espresso riferimento (in tutto o in parte) al parametro costituito dall’Euribor.
La sentenza afferma a chiare lettere di volere sviluppare le proprie valutazioni in riferimento precipuo e esclusivo ai “contratti di fideiussione ‘a valle’ di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante”.
Riprende così la sentenza resa a sezioni unite il 30 dicembre 2021 nr. 41994, prima di tutto nel ribadire il criterio per cui, onde possa argomentarsi nel senso della illiceità della clausola contenuta nel contratto di mutuo o di garanzia da questo assistito, almeno una delle parti contraenti deve essere a conoscenza delle manipolazioni precedentemente intervenute riguardo all’indice cui detta clausola fa riferimento, al punto da potere avere l’intenzione di trarne vantaggio.
Alterazione del negozio
L’aspetto volontaristico perde però di centralità nel momento in cui viene rilevato che, indipendentemente dal fatto che le parti contraenti siano o meno a conoscenza delle pratiche manipolative che coinvolgono l’indice cui hanno scelto di riferirsi, tali pratiche producono comunque l’effetto di alterare le intenzioni che le parti stesse si sono dichiarate e hanno formalmente stabilito nell’accordo contrattuale.
In tale modo, gli interessi reciproci risulterebbero regolati in termini magari anche molto diversi da quelli pattuiti, presumibilmente a danno di un contraente e a vantaggio dell’altro.
Rimedi alla distorsione
Appare notevole, infatti è stato opportunamente evidenziato, che la Corte di Cassazione abbia voluto concentrare i rimedi nell’ambito dell’ordinamento italiano escludendo entrate di quello eurounitario. È una scelta molto netta e deve essere stata attentamente meditata, giungendo a affermare che questi complessi rapporti, interni al contesto sociale nazionale, non necessitano di quanto l’ordinamento dell’Unione Europea ha elaborato sul grande tema della concorrenza.
Il riferimento all’Euribor negli assetti negoziali complessi di garanzia bancaria
Il ragionamento dei giudici di cassazione prende avvio dalla constatazione per cui le parti stesse, nel dare vita a un assetto negoziale complesso allo scopo di porre in essere una garanzia da parte dell’istituto di credito nei confronti di una società, hanno valutato quale soluzione ottimale quella di fare riferimento a un indice non scevro di complessità e problematiche al fine di determinare la misura degli (eventuali) interessi.
Tale indice di riferimento (Euribor) veniva così a assumere, nella visione dei giudici, “la natura di un vero e proprio presupposto del regolamento contrattuale, in quanto idoneo a individuare l’oggetto della clausola di determinazione del corrispettivo”.
Ciò dovrebbe ragionevolmente essere avvenuto nella consapevolezza, delle parti stesse, che in tale modo stavano parametrando la quantificazione dell’obbligazione contrattuale a qualcosa di completamente esterno e estraneo alla dimensione stessa del contratto. Allo stesso tempo si trattava di un parametro ampiamente noto anche quanto alle modalità con cui, per lo meno teoricamente, veniva determinato.
Quasi superfluo evidenziare come si tratti di una stipulazione che, per quanto a un osservatore avvertito appaia non priva di un elemento di rischio anche volendo prescindere da possibili sviluppi patologici, rientra nel regolare processo di formazione della volontà negoziale.
Il venire meno del parametro
Sussiste però un rischio, se non altro in teoria: il parametro, essendo del tutto esterno e estraneo alla dimensione ontologica e esistenziale sia delle parti in se stesse considerate sia dell’accordo tra loro in essere, potrebbe venire meno senza alcuna attività o volontà da parte loro, al limite anche a loro insaputa.
Potrebbe trattarsi invece di un problema non ontico ma conoscitivo, qualora il parametro continuasse a sussistere ma non potesse più essere conosciuto dalle parti.
La soluzione che ovviamente (e molto rapidamente) indicano gli ermellini è che in simili casi il parametro non potrebbe più venire utilizzato nella prospettiva delineata dal contratto svuotando così per lo meno di efficacia le clausole che vi fanno riferimento.
Il venire meno della dimensione ontica o di quella noetica del parametro lo rende del tutto irrilevante ai fini per i quali il negozio lo aveva inglobato.
Le patologie del parametro
Sussiste però anche l’eventualità concreta di sviluppi patologici del parametro, che può risultare alterato in conseguenza di una attività illecita posta in essere ancora una volta da soggetti del tutto estranei e alle parti e al loro accordo.
Il risultato di tali attività illecite nel contesto dell’accordo è quello per cui le grandezze espresse dal parametro, in seguito all’alterazione, vengono a discostarsi (in misura più o meno sensibile ma comunque significativa) da quelle che erano la volontà e l’intento delle parti nel contesto del negozio; al punto tale da condurre i giudici a ritenere “inevitabile concludere che esso non potrebbe ritenersi più in grado di esprimere la effettiva volontà negoziale delle parti stesse”.
L’alterazione del parametro non ne determina in via assoluta l’irrilevanza, poichè almeno in teoria il parametro alterato potrebbe sempre venire ricondotto alla sua misura corretta, ovviando alle distorsioni frutto delle pratiche illecite.
Qualora tale operazione risultasse realizzabile, il parametro, a giudizio della Corte, potrebbe continuare a svolgere le funzioni che avevano indotto a farvi riferimento. “Se, invece, ciò non sia possibile, la situazione deve ritenersi equiparabile a quella che si verificherebbe se il tasso richiamato, in quel limitato periodo di tempo in cui sia stato oggetto di effettiva alterazione, non fosse stato affatto rilevato e fissato”.
Nullità della clausola che fa riferimento al parametro
La Corte conclude ponendo una analogia tra il parametro mancante e il parametro alterato, che si equivalgono perché entrambi non servono più a esprimere in modo concreto e operativo la volontà delle parti.
Queste due diverse fattispecie, pure essendo intrinsecamente distinte, possono venire accostate in funzione delle loro analoghe conseguenze che investono l’assetto contrattuale tra le parti per cui il parametro non svolge più la funzione di esprimere la loro volontà.
L’oggetto della clausola contrattuale diviene pertanto impossibile da determinare e di conseguenza la clausola stessa risulta almeno in parte nulla, per quanto attiene al periodo in cui il parametro sia o mancante o alterato.
La clausola Euribor non è nulla di per sé
La Corte di Cassazione esprime una valutazione complessivamente positiva della c.d. clausola Euribor, per cui non risulta in alcun modo possibile argomentare che vada considerata di per sé e in quanto tale nulla, nemmeno per i periodi in cui risulta ormai acclarato che tale indice è stato manipolato da alcuni grandi gruppi bancari a livello europeo onde alterarne sensibilmente il valore.
Al massimo la Corte è disposta a concedere che detta clausola “potrebbe risultare viziata da parziale nullità per impossibilità di determinazione del suo oggetto”.
L’onere della prova
Nella visione della Corte, grava totalmente in capo alla parte coinvolta nel negozio complesso di garanzia, che si ritiene danneggiata, l’onere di provare che le alterazioni patite dall’indice Euribor hanno perturbato i contenuti dell’accordo determinando uno squilibrio radicale tra le prestazioni a esclusivo vantaggio della controparte.
A tale fine deve essere in grado di fornire i necessari elementi di prova che mostrino chiaramente come il riferimento al parametro alterato contenuto nella clausola in discussione abbia finito per determinare l’oggetto e la quantificazione dell’obbligazione contrattuale in termini del tutto estranei a quella che era la volontà dichiarata, formalizzata e sottoscritta delle parti.
I tre principi (o presunti tali)
La sentenza conclude con la scelta di enunciare solennemente tre principi. La loro lettura rivela subito come questi non facciano altro che riassumere per sintesi il ragionamento sviluppato dal corpo della decisione che si è cercato di seguire e illustrare.
L’elemento più notevole, ma non valorizzato da altri commenti in proposito, che salta subito all’occhio è che ciascuno di detti principi esordisce con una cautela che ne limita tassativamente l’ambito di validità e applicazione al contesto dei negozi analoghi a quello oggetto della controversia approdata all’estremo grado di giudizio.
Viene infatti detto esplicitamente in esordio che questi principi sono validi solo nel contesto dei contratti di mutuo e per le clausole che, al fine di determinare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor.
Il vero obiettivo della Cassazione: le garanzie bancarie complesse
Si potrebbe essere più precisi, esplicitando l’insieme del ragionamento dei magistrati di cassazione e richiamandone le premesse, e indicare che il loro intento non è certo stato quello di indicare criteri generalmente validi per tutte le c.d. clausole Euribor.
Al contrario, i giudici di cassazione sono intervenuti con questo arresto in un ambito molto particolare e tecnicamente complesso ma non per questo meno significativo: le prestazioni di garanzia da parte degli istituti di credito che a loro volta esigono che il garantito presti garanzie ritenute soddisfacenti per il garante; con un gioco di specchi per cui in tale assetto negoziale complesso appare arduo definire chi garantisce chi.
Hanno dettato un criterio molto preciso per la validità delle clausole che, all’interno di questa tipologia di assetti negoziali, vanno a quantificare l’obbligazione, in particolare in capo al soggetto di fatto più debole, funzionalmente a parametri per lo meno discutibili e comunque passibili di rafforzare la situazione di squilibrio a tutto vantaggio degli istituti di credito.
Lo hanno fatto con grande equanimità.
Hanno escluso la necessità di fare riferimento alle norme eurounitarie, bastando quello a criteri di equità negoziale ampiamente compresi nella codificazione italiana.
Hanno assunto una prospettiva di concretezza, per cui le manipolazioni, per giunta illecite, subite da un parametro non sono di per sé sufficienti a dimostrare che questo ha perturbato la volontà negoziale dichiarata dalle parti ma va concretamente dimostrato caso per caso, come ovvio a cura di chi si ritiene danneggiato.
Una sentenza quindi meno epocale di quanto molto hanno ritenuto, ma cruciale per fare ordine in un contesto negoziale intricato e di grande rilevanza per l’operatività degli istituti di credito e per la solidità di un sistema socioeconomico.
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Monica Mandico
Avvocato Cassazionista presso lo Studio Mandico & Partners, gestore ex art. 356 CCII, liquidatore, amministratore giudiziario. Esperta in diritto bancario e crisi d’impresa e procedure di sovraindebitamento, svolge incarichi di docenza in numerosi corsi di formazione e master di II livello presso l’Università Partenope di Napoli e l’Università di Ferrara ed è legale accreditato presso Enti no profit e Onlus. Già componente della Commissione regionale per la nomina di Esperto Indipendente presso la C.C.I.A.A. di Napoli. Coordinatrice della Commissione di studio presso il COA di Napoli su “Sovraindebitamento ed esdebitazione”. Autrice di numerose pubblicazioni su diritto bancario e finanziario, sovraindebitamento e GDPR.