La controversia oggetto della sentenza n. 10500 del 2024 è scaturita da un ricorso contro il regime di commissariamento stabilito dal d.l. n. 61 del 2013, in cui una società legata all’Ilva ha impugnato quello che ha percepito come un’espropriazione non compensata delle sue quote azionarie. Attraverso il caso di specie, emergono questioni riguardo l’applicazione dei principi costituzionali e la protezione dei diritti fondamentali nell’ambito dell’espropriazione azionaria e la tutela ambientale.
Corte di Cassazione-Sez. I Civ. sent. n. 10500 del 18-04-2024
La questione
Una società, socia di Ilva s.p.a. al 10,05%, ha presentato un ricorso presso il Tribunale di Milano contestando il regime di commissariamento dell’Ilva avviato con d.l. n. 61 del 2013, convertito con l. n. 89 del 2013. La società lamentava di aver subito un’espropriazione della sua partecipazione azionaria senza alcun riconoscimento proporzionato al suo valore. Il giudice di prime cure ha respinto per gran parte il ricorso, pronunciando una sentenza di condanna al risarcimento dei danni.
Infatti, all’esito di un dettagliato esame, il tribunale ha respinto le richieste della società affermando che sebbene l’esproprio della partecipazione societaria fosse in teoria possibile, nel caso di specie non vi era stata una compressione dei diritti dei soci tale da prefigurare un’espropriazione azionaria.
In egual modo, la corte territoriale ha confermato che il provvedimento di commissariamento non equivaleva a un’espropriazione e che i soci non avevano subito alcun danno patrimoniale a causa di tale misura.
I motivi di ricorso
Il primo motivo del ricorso ha sollevato una questione riguardante la violazione degli artt. 42 e 117 Cost., in relazione agli artt. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 1, Prot. 1 CEDU. La ricorrente ha contestato il fatto che la sentenza non avesse considerato il provvedimento di commissariamento dell’Ilva come un’espropriazione, basandosi su una concezione di espropriazione “modellata dal d. lgs. N. 327 del 2001”, contrariamente a quanto affermato in Costituzione e nell’interpretazione sovranazionale. Inoltre, la ricorrente ha sostenuto che la sentenza non avesse considerato la responsabilità dello Stato per danni causati da atti leciti, dal momento che il ricorrente è stato privato dei suoi diritti amministrativi e patrimoniali a causa del commissariamento dell’Ilva, subendo di fatto un’espropriazione azionaria.
Con il secondo motivo di ricorso, la parte ricorrente ha sollevato un’eccezione relativa all’omesso esame di alcuni fatti relativi all’inosservanza da parte dell’Ilva delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale.
Con il terzo motivo, la ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 1348, 2350 e 2351 c.c. muovendo una critica alla corte territoriale per non aver considerato la perdita effettiva di valore della società a causa della sospensione temporanea dei diritti sociali derivanti dal commissariamento.
Inoltre, la stessa ha affermato che lo Stato avrebbe espropriato le partecipazioni sociali dell’Ilva, diventando il solo detentore dei poteri gestionali e decisionali.
Con il quarto motivo, la parte ricorrente ha sollevato una questione riguardante la presunta legittimità di un’espropriazione senza indennizzo delle quote di partecipazione dei soci di minoranza, basata sull’inadempimento dell’Ilva agli obblighi ambientali.
Infine, con il quinto motivo, ha contestato la gestione della responsabilità processuale aggravata nel giudizio di primo grado, sostenendo la mancanza di dimostrazione del danno subito dalla controparte e dell’elemento psicologico di colpa grave necessario per la condanna.
Le argomentazioni dei giudici della Cassazione
I giudici di legittimità hanno esaminato congiuntamente il primo e il terzo motivo di ricorso affermando che i motivi, sebbene condivisibili in parte, sono basati su affermazioni astratte.
Secondo la Corte di cassazione, la domanda della società ricorrente si incentra sul suo esproprio a seguito del commissariamento dell’Ilva ai sensi del d.lgs. n. 61 del 2013, e sulla conseguente perdita di valore della partecipazione stessa.
La Corte Costituzionale aveva già affermato che il decreto fosse legittimo ed era in grado di bilanciare la tutela ambientale e la salvaguardia dell’occupazione lavorativa.
Inoltre, la Corte costituzionale ha giustamente evidenziato che la normativa oggetto di critica, rappresentata dal d.l. n. 207 del 2012, non ha semplicemente permesso la continuazione dell’attività dell’Ilva, ma ha introdotto nuove condizioni e controlli. Questa normativa, volta a bilanciare la tutela della salute con la salvaguardia dell’occupazione, è stata concepita come legge-provvedimento, senza però violare l’assetto costituzionale. Il d.l. n. 207 del 2012 è stato considerato conforme alla Costituzione in quanto ragionevole rispetto al suo scopo. Secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, le leggi-provvedimento devono essere soggette a controllo di legittimità costituzionale per evitare disparità di trattamento, ma la loro legittimità risiede nel contenuto, purché i criteri adottati siano coerenti con le scelte realizzate.
I giudici di cassazione hanno richiamato gli artt. 42 Cost. e l’art. 1 Prot. Add. CEDU, sottolineando che la partecipazione azionaria è tutelata come un bene: tale tutela include il concetto di “valore patrimoniale”.
Tuttavia, nel caso specifico, la corte d’appello ha esaminato se il commissariamento dell’Ilva, disposto con il d.l. n. 61 del 2013, avesse causato una perdita di valore della partecipazione della società ricorrente, tuttavia, la corte d’appello ha concluso che non vi è stata una tale perdita di valore.
I giudici hanno osservato che una simile valutazione ha natura fattuale e non può essere riesaminata dalla Corte di cassazione. Pertanto, si stabilisce che, sebbene sia possibile invocare il diritto a un indennizzo in astratto, spetta al giudice del merito determinare l’effettivo pregiudizio a seguito della legge-provvedimento.
Il ruolo dell’art. 96 c.p.c.
Il quinto motivo del ricorso è stato dichiarato inammissibile dai giudici di legittimità, che ha, invece, accolto il gravame incidentale dell’avvocatura dello Stato in merito alla ricorrenza degli estremi previsti dall’articolo 96 c.p.c.
La corte ha fondato la sua decisione sulla constatazione che la società ricorrente avesse avanzato richieste di risarcimento basate su argomenti infondati e aveva tentato di far ricadere sullo Stato le conseguenze negative di circostanze riconducibili alla sua sfera di rischio imprenditoriale. Inoltre, la società, in qualità di socia dell’Ilva con una quota significativa, era a conoscenza degli inadempimenti gravi e delle omissioni in materia ambientale, ma non aveva agito di conseguenza.
Secondo i giudici, la norma di cui all’art. 96 c.p.c. prevede la responsabilità della parte che agisce o resiste in giudizio con mala fede o colpa grave, implicando quindi un comportamento processuale qualificato da dolo o da una grave negligenza. La determinazione di questa condotta richiede un accertamento di fatto, la cui motivazione è soggetta a controllo di legittimità solo se palesemente illogica o incongruente.
Alla luce delle seguenti considerazioni, i giudici hanno respinto l’intero ricorso.
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