Il diritto al silenzio dell’imputato, quale precipitato del privilegio contro l’autoincriminazione, icasticamente sussunto nella formula “nemo tenetur se detegere”, rappresenta l’affermazione del più aulico tra i principi di civiltà giuridica conquistati.
Scriveva Foucault, “[…] il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. […] è scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale. [1],”
Invero, la procedura che disciplina il contributo conoscitivo alla ricostruzione dei fatti che deriva dal soggetto nei cui confronti si procede assurge a cartina di tornasole attraverso cui valutare il livello culturale, antropologico, politico di un ordinamento giuridico e, di riflesso, la qualità del rapporto tra Stato e cittadino, autorità e libertà individuali.
Così, se nel vigore del regime inquisitorio il giudizio si componeva a mano libera, rendendo le parole (estorte) mezzo capace di configurare ogni soluzione risultasse conveniente, nel regime accusatorio si compie una metamorfosi e l’imputato, prima ancora di essere tale, si eleva a soggetto destinatario di specifiche istanze di protezione.
A seguire, l’avvento della Costituzione, mostra particolare sensibilità rispetto alla posizione processuale dell’imputato, consacrando all’art. 24 il paradigma del diritto di difesa con ciò ricomprendendo non solo la cd. difesa tecnica, ma anche la cd. autodifesa, intesa quale situazione giuridica che consente al soggetto sottoposto a procedimento di intervenirvi in maniera consapevole, autodeterminandosi nelle proprie opzioni difensive, eventualmente propendendo per un silenzio preliminare opposto a qualunque domanda venga ad esso rivolta.
Sulla scorta di quanto premesso, il presente elaborato, si interroga sulla valenza del silenzio in materia fiscale, in particolare sulla sussistenza di un obbligo, o meno, di produzione documentale, allorquando tale produzione comporti il rischio per il contribuente di essere accusato della consumazione di reati fiscali compromettendo la propria posizione difensiva.
Corte EDU, 5 aprile 2012, causa Chambaz c. Svizzera
La polivalenza del diritto al silenzio ne consente una declinazione capace di inglobare molteplici significati: dal diritto di essere avvisato della facoltà di non rispondere[2], a quello di non essere obbligato a rendere dichiarazioni autoincriminanti con facoltà di tacere in toto, ovvero non rispondere solo a singole domande, fino alla facoltà, entro specifici limiti previsti dal Legislatore, di rendere dichiarazioni mendaci[3].
Ma se per lungo tempo il silenzio è rimasto confinato solo all’interno della dimensione processuale, il contributo più acuto di giurisprudenza e dottrina ha dimostrato come soprattutto in fase pre-processuale si annidino i rischi di violazioni indirette, o surrettizie, del diritto a non autoincriminarsi.
Nella dimensione europea, il diritto al silenzio forma oggetto di un’ampia giurisprudenza della Corte EDU, la quale, a più riprese[4], ha affermato che i diritti contenuti all’interno dell’art 6 CEDU costituiscono la soglia minima di protezione garantita e che, pur non essendo esplicitato all’interno dell’articolo di cui sopra, il diritto al silenzio si trova al centro della nozione di equo processo.
Più nel dettaglio, in ragione di quanto argomentato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto ad un equo processo comprende la facoltà di mantenere il silenzio e a non auto-incriminarsi, inglobando, per l’effetto, il diritto di opporsi a richieste documentali e a rifiutare di rendere risposte idonee, anche indirettamente, ad esporre il soggetto a qualunque forma di imputazione di responsabilità.
Con particolare riguardo all’ambito fiscale, poi, sulla scorta del leading case “Chambaz c. Svizzera”[5], la Corte EDU ha stabilito che “nessuno può essere costretto a presentare documenti per fornire informazioni sui propri redditi e sul proprio patrimonio in vista di un accertamento fiscale, quando tale produzione comporti il rischio di essere accusato d’aver commesso un reato di evasione fiscale compromettendo la propria posizione nell’ambito di un’inchiesta per frode tributaria”.
Nel dettaglio, i giudici di Strasburgo affermano che in presenza di richieste dell’autorità fiscale indirizzate al contribuente, perché questo consegni all’autorità (amministrativa) materiale che può sfociare in un’autoincriminazione penalmente rilevante, il diritto al silenzio valica i confini del processo penale, assurgendo a garanzia opponibile anche nei procedimenti amministrativi.
Giunti a questo punto, allora, sarà utile comprendere come gli interpreti pervengono a questo dictum.
I giudici di Strasburgo muovono dall’assunto per cui l’art. 6 CEDU non fosse invocabile nelle procedure aventi ad oggetto la determinazione delle obbligazioni tributarie, non rientrando tali controversie nell’ambito delle obbligazioni tradizionalmente intese di carattere civile, e ciò malgrado i risvolti patrimoniali che si realizzano nella sfera giuridica dei consociati a seguito del loro inadempimento. A questo principio la Corte EDU giungeva a seguito di un precedente contenzioso[6] (Corte EDU, Grande Camera, 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia – ricorso n.44759/1998) dove, essendo chiamata ad esprimersi sulla invocazione dell’art. 6 in materia fiscale, concludeva per l’esclusione del predetto articolo in presenza di questioni tributarie “essendo il nocciolo duro delle prerogative della pubblica autorità[7]”, e posta la non insorgenza di diritti civili ai quali fa esplicito richiamo la norma.
Tuttavia, è con la pronuncia relativa alla causa Chambaz c. Svizzera che la Corte EDU elabora e suggella il principio che consente d’invocare le garanzie convenzionali quando la pretesa tributaria determini una risposta sanzionatoria dell’ordinamento.
Nello specifico, la Corte esplicitamente stabilisce l’applicabilità dell’art. 6 CEDU “ogni volta in cui il giudizio verta sul recupero dell’imposta (verosimilmente evasa), purché in connessione con questioni attinenti all’irrogazione di sanzioni per quella violazione sostanziale e indipendentemente dalla misura e dalla natura pecuniaria della sanzione irrogata”.
L’art. 6 CEDU trova, così, applicazione in materia tributaria relativamente al diritto al silenzio e al diritto di non autoincriminazione, in linea di continuità con la tendenza della Corte EDU finalizzata ad estendere la portata applicativa dell’articolo in esame, e sancendo la non punibilità del contribuente che si sottrae alla consegna di documenti facendo valere il suo diritto a non incriminarsi.
In ragione di quanto affermato, anche grazie al contributo della dottrina, il principio in esame assume una triplice valenza: 1) impedire l’impiego di qualsiasi mezzo finalizzato all’ottenimento della confessione; 2) escludere il ricorso a presunzioni legali atte a capovolgere l’onere della prova, posto che si lederebbe il principio della presunzione di innocenza; 3) vietare l’applicazione di sanzioni afflittive atte a reprimere l’autodeterminazione a non collaborare del soggetto nei confronti del quale si procede.
Giurisprudenza interna a confronto: Corte Cost. n.84/2020 e Cass. nn.3555 – 6786 /2022
Passando ora ad osservare le ricadute di questo principio sull’ordinamento tributario italiano, occorre premettere che lo stesso evidenzia significative oscillazioni interpretative, rispettivamente, tra la Consulta, che ha ritenuto l’interesse alla riscossione dei tributi non preminente rispetto alla lesione di diritti fondamentali – tra cui quello di tacere – in tutte le ipotesi in cui il contribuente sia esposto al rischio di sanzioni non solo penali ma anche amministrative; e la Cassazione, più incline a circoscrivere la portata applicativa del diritto in esame, ritenendolo, delle volte, “recessivo rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche previsto dall’art. 53 Cost.[8]”.
Nel dettaglio, con particolare riguardo al nostro ordinamento, le difficoltà rilevano nel coniugare il diritto al silenzio con una costellazione di sanzioni e limitazioni che (direttamente/indirettamente) puniscono la non collaborazione, lo sviamento, ovvero il rifiuto del contribuente nel compimento di atti (ad es. produzione documentale, invito a comparire, compilazione di questionari) che hanno la finalità di coadiuvare l’Amministrazione nello svolgimento dell’attività accertativa.
Il riferimento, nello specifico, involge: la sanzione prevista dall’art. 9 D.lgs. n. 471/1997 in relazione alla violazione degli obblighi di conservazione dei documenti, la cui tenuta e conservazione è imposta per legge[9]; le sanzioni di cui all’art. 11 lett. a) b) c) D.lgs. n. 471/1997 inerenti alla violazione di obblighi di collaborazione informativa o documentale[10]; i doveri di collaborazione e buona fede di cui all’art. 10 L. n. 212/2000[11]; l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui la mancata esibizione da parte del contribuente di documenti richiesti nel corso di ispezioni determina l’inutilizzabilità dei relativi atti e documenti, da parte del medesimo contribuente, nel successivo procedimento accertativo ed, eventualmente, contenzioso; la sanzione di cui all’art. 11 D.l. n. 201/2011[12] in relazione a chi esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte, ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero; la sanzione prevista dall’art. 76 D.P.R. n. 445/2000, che disciplina la punibilità relativamente a dati e notizie non rispondenti al vero a condizione che, a seguito delle richieste, si configurino delitti tributari[13]; infine, la sanzione contenuta nella normativa in materia di “voluntary disclosure” L.186/2014[14], la quale prevede che l’autore della violazione di cui all’art. 4, che, nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui all’art. 5-quater, esibisce o trasmette atti o documenti falsi, in tutto o parzialmente, o fornisce dati e notizie non rispondenti al vero, venga punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
Sul punto, un contributo alla chiarezza perviene dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 84/2020) che, in materia di sanzioni Consob relative al rifiuto di rispondere alle domande poste in sede di audizione, chiedeva (con ordinanza n.117/2019) alla Corte di Giustizia Ue di chiarire se le norme UE di riferimento vadano interpretate nel senso di consentire ad uno Stato membro di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dalle quali possa emergere una sua responsabilità punita con sanzioni amministrative di carattere punitivo o direttamente penali, ricevendone risposta affermativa alla luce degli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue[15], con immediati risvolti sui tributi armonizzati.
Alla luce di quanto sopra, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies D. lgs. n.58/1998 (T.U.F.)[16], nessuna preclusione può derivare al diritto al silenzio dagli artt. 2 e 53 Cost. preordinati a ben diverse funzioni e, di conseguenza, sussiste l’impossibilità di punire un soggetto che si sia rifiutato di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto dalla Banca o dalla Consob, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o penale.
Di segno se non opposto, certamente meno estensivo, invece, l’orientamento della Cassazione che circoscrive in maniera più restrittiva i confini del diritto in esame.
Invero, quanto all’ambito di applicazione del diritto al silenzio, pur affermando che esso riguarda tutte quelle ipotesi in cui il contribuente è invitato di persona (o per iscritto) a fornire notizie, ovvero quando l’acquisizione avviene a mezzo di accessi o ispezioni, il Supremo Collegio, tuttavia, limita il ricorso a questa facoltà solo al soggetto inciso dell’accertamento[17] (Cass., sentenza n. 6786/2022).
Sempre la Cassazione dovendosi pronunciare in merito alla portata del diritto al silenzio in relazione all’ipotesi di reato di cui all’art. 2638 c.c. (Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza), ha chiarito che “la peculiarità della fattispecie esaminata dalla Consulta -rifiuto di rispondere a domande formulate in sede di audizione o per iscritto dalle Autorità di vigilanza- non proietta dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 2638 cod. civ., che delinea condotte alternative di omessa comunicazione di informazioni dovute o di ricorso a mezzi fraudolenti, anche quando dalla condotta conforme potrebbero derivare elementi di prova di altro illecito” (Cass., sentenza n. 3555/2022).
Ancora, prosegue il Supremo Collegio, “nei casi citati l’offensività del bene giuridico protetto è stato reputato prevalente rispetto all’interesse dell’imputato all’impunità; e siffatta valutazione comparativa non risulta messa in crisi alla luce della pronuncia di incostituzionalità richiamata che, nell’affermare l’intangibilità del diritto al silenzio nell’ambito del generico dovere di collaborazione dell’autorità di vigilanza, non induce a dubitare della conformità costituzionale della pregnante connotazione lesiva che caratterizza i fatti penalmente rilevanti in forza del secondo comma dell’art. 2638 cod. civ.”.
Concludendo, in relazione alle problematiche che possono emergere nella fase applicativa del diritto a non autoincriminarsi, risultano nodali le garanzie fondamentali in materia di giusto processo, tutelate oltre che all’ art. 111 Cost., anche dalla CEDU, così come interpretata dai giudici di Strasburgo. A tal riguardo, il giudice nazionale, nell’ipotesi di contrasto rispetto ai principi di cui sopra, dovrà senz’altro procedere all’interpretazione della norma interna più conforme alla CEDU, salvo sollevare questione di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost., sì da integrare il contenuto della norma interna con le risultanze interpretative della norma interposta.
Note
[1] M.FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, 1975.
[2] Art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p. – Sul punto, con pronuncia n. 111/2023, la Corte Costituzionale ha stabilito che chi è sottoposto ad indagini o è imputato in un processo penale deve essere sempre espressamente avvertito del diritto di non rispondere alle domande relative alle proprie condizioni personali. Per la Consulta, dunque, il diritto al silenzio opera ogniqualvolta l’autorità che procede in relazione alla commissione di un reato «ponga alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta».
[3]Detto in altri termini, l’indagato-imputato ha diritto di prendere parte alle udienze, che devono essere oggetto di rinvio in caso di suo impedimento, ma non è gravato da nessun obbligo di intervento. Così, se interviene, ha la possibilità di scegliere tra diverse opzioni: può avvalersi della facoltà di non rispondere, può rendere dichiarazioni spontanee senza che nessuno possa porgli domande, infine, può accettare di essere sottoposto ad interrogatorio; ma a differenza dell’istituto del testimone, non ha l’obbligo di dire la verità, perché per consolidata acquisizione del nostro ordinamento il diritto di mentire costituisce un’endiadi dell’onnicomprensivo diritto di difesa. Il diritto in esame, tuttavia, non è privo di perimetrazioni posto che incontra due limiti a tenuta del sistema: l’indagato-imputato non può falsificare le proprie generalità, e non può accusare ingiustamente terzi di cui conosce l’innocenza, salvo rispondere della consumazione del reato di calunnia.
[4] Corte EDU, 17 dicembre 1993, Funke c. Francia; 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito; 8 aprile 2004, Weh c. Austria; 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito; 11 giungo 2006, Jalloh c. Germania; 21 aprile 2009, Marttinen c. Finlandia;
[5]Il Sig. Chambaz, cittadino svizzero, presentava diversi reclami alla Commissione di imposta federale e cantonale, avverso l’amministrazione finanziaria, aventi ad oggetto la contestazione dell’omessa dichiarazione di parte dei redditi, in ragione di un disallineamento tra i redditi dichiarati e il patrimonio accertato dall’amministrazione. Durante il procedimento, il contribuente, rifiutava di aderire alla richiesta avanzata dalla Commissione, di produrre documentazione relativa al suo patrimonio e ai rapporti con i diversi istituti bancari che lo custodivano. La Commissione di imposta, seguitava a rigettare i reclami, altresì, condannando il contribuente al pagamento di una sanzione per non aver prodotto i documenti richiesti. Dal suo canto, il contribuente, procedeva ad impugnare la decisione innanzi al Tribunale Amministrativo. Durante questo procedimento, poi, l’autorità federale avviava nei confronti del Sig. Chambaz un’indagine penale contestandogli il reato di evasione fiscale, accusa sorretta dalle risultanze di una perquisizione a suo carico che aveva prodotto il sequestro dei documenti relativi al patrimonio finanziario occultato. La difesa del contribuente, allora, presentava richiesta per visionare il fascicolo contenente i documenti oggetto di sequestro, ma l’amministrazione negava tale consultazione. Il Tribunale Amministrativo, intanto, rigettava il reclamo presentato dal Sig. Chambaz, confermando la decisione della Commissione di imposta. A sua volta, questa decisione veniva impugnata dal contribuente innanzi al Tribunale Federale formulando le seguenti eccezioni: a) la sanzione irrogata per il rifiuto di esibire i documenti richiesti viola il diritto a non auto incriminarsi; b) il divieto di consultare parte del fascicolo giudiziale, così come richiesto dalla difesa, viola il diritto di parità delle armi tra le parti processuali; c) la mancata sospensione della procedura amministrativa in presenza di un’indagine di carattere penale, viola il principio di presunzione di innocenza.
Tuttavia, il Tribunale Federale seguitava a rigettare il gravame, affermando che la procedura amministrativa non avrebbe assunto carattere penale, avendo ad oggetto obbligazioni tributarie e, pertanto, non potevano trovare applicazione né il diritto al silenzio, sub diritto a non autoincriminarsi, né la presunzione di innocenza. Esperiti tutti i possibili rimedi, il contribuente, denunciava alla Corte EDU la violazione del diritto ad un equo processo, così come tutelato dall’art. 6 della Convenzione EDU.
[6]Il caso Ferrazzini costituisce un precedente rilevante in questa materia poiché pone la questione se i diritti tributari, oggetto di specifica controversia, meritino la medesima tutela degli altri diritti fondamentali sebbene la loro natura sia differente rispetto alle categorie individuate dalla Convenzione all’art. 6. Nel caso di specie la Corte accoglieva la tesi della non sussistenza di alcuna violazione dei diritti garantiti dalla Convezione. Invero, secondo i giudici di Strasburgo, i diritti invocati dal contribuente durante il processo tributario non soddisfacevano i requisiti richiesti dall’art. 6, posto che: le sanzioni erogate non hanno alcuna rilevanza rispetto alla tutela dei diritti civili menzionati dalla norma; e che i diritti fondati sul rapporto tra contribuente e Pa non possono essere considerati diritti umani fondamentali a causa della loro connessione con il diritto nazionale ed il potere discrezionale esercitato dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che le garanzie procedurali per questa categoria di diritti possono essere offerte solo dalla giurisdizione nazionale.
[7] Art. 6, comma 1, CEDU- “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta […]”.
[8] Cass., sentenza n.3555/2022.
[9] Art. 9, D.lgs. n. 471/1997- Violazione degli obblighi relativi alla contabilità-: “Chi non tiene o non conserva secondo le prescrizioni contabili, i documenti e i registri previsti dalle leggi in materia di imposta dirette e di imposta sul valore aggiunto ovvero i libri, i documenti e i registri, la tenuta e la conservazione dei quali è imposta da altre disposizioni della legge tributaria, è punito con la sanzione amministrativa da euro 1.000 a euro 8.000. […]”.
[10] Art. 11, D.lgs. n. 471/1997 – Altre violazioni in materia di imposte dirette e imposta sul valore aggiunto -: “Sono punite con la sanzione amministrativa da euro 250 a euro 2.000 le seguenti violazioni: a) omissione di ogni comunicazione prescritta dalla legge tributaria anche se non richiesta dagli uffici o dalla Guardia di finanza al contribuente o a terzi nell’esercizio dei poteri di verifica ed accertamento in materia di imposte indirette e imposta sul valore aggiunto o invio di tali comunicazioni con dati incompleti o non veritieri; b) mancata restituzione dei questionari inviati al contribuente o a terzi nell’esercizio dei poteri di cui alla precedente lettere a) o loro restituzione con risposte incomplete o non veritiere; c) inottemperanza all’invito a comparire e a qualsiasi altra richiesta fatta dagli uffici o dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri loro conferiti.[…]”.
[11] Art. 10 L.212/2000 -Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente- “I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede. […]”.
[12] Art. 11 D.l. n. 201/2011- Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conto pubblici-: “Chiunque, a seguito delle richieste effettuate nell’esercizio dei poteri di cui agli articoli 32 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e agli articoli 51 e 52 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1972, n. 633, esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero è punito ai sensi dell’articolo 76 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. La disposizione di cui al primo periodo, relativamente ai dati e alle notizie non rispondenti al vero, si applica solo se a seguito delle richieste di cui al medesimo periodo si configurano le fattispecie di cui al decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74”.
[13]Art. 76 D.P.R. N. 445/2000 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa-: “Chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia. La sanzione ordinariamente prevista è aumentata da un terzo alla metà. L’esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale ad uso di atto falso. Le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le dichiarazioni rese per conto delle persone indicate nell’articolo 4, comma 2, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale. Se i reati indicati nei commi 1, 2, e 3 sono commessi per ottenere la nomina ad un pubblico ufficio o l’autorizzazione all’esercizio di una professione o arte, il giudice, nei casi più gravi, può applicare l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione o arte. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle attestazioni previste dall’articolo 840-septies, comma 2, lett. g), del codice di procedura civile.
[14]L. n. 186/2014 – Disposizioni in materia di emersione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale, Disposizioni in materia di autoriciclaggio-. La “collaborazione volontaria” (voluntary disclosure) è uno strumento che consente ai contribuenti che detengono illecitamente patrimoni all’estero di regolarizzare la propria posizione denunciando spontaneamente all’Amministrazione finanziaria la violazione degli obblighi di monitoraggio. Possono avvalersi della procedura anche i contribuenti non destinatari degli obblighi dichiarativi di monitoraggio fiscale, ovvero che vi abbiano adempiuto correttamente, per regolarizzare le violazioni degli obblighi dichiarativi commesse in materia di imposte sui redditi e relative addizionali, imposte sostitutive, imposta regionale sulle attività produttive e imposta sul valore aggiunto, nonché le violazioni relative alla dichiarazione dei sostituti di imposta.
[15] Art. 47- Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale; Art. 48 – Presunzione di innocenza e diritti della difesa.
[16]Come noto, in materia di diritto al silenzio, la Corte Costituzionale ha affermato (sentenza del 30 aprile 2021, n. 84) che l’art. 187-quinquiesdecies del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico della Finanza o TUF) è incostituzionale “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
[17]Sul punto, la Cassazione, con la sentenza citata, ha dichiarato che il diritto al silenzio (con relativo carico sanzionatorio), espressione della garanzia del giusto processo, si applica anche ai procedimenti tributari qualora in essi siano applicate sanzioni punitive, ma solo quando destinatario del trattamento sanzionatorio è lo stesso titolare del diritto al silenzio e non altro soggetto di diritto.
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